Premessa
L’amico Paolo mi lusinga chiedendomi questo articolo. Rileggendolo a distanza di diversi anni mi sono reso conto di avere cambiato visione sull’aikido, senza per questo rinnegare il passato e meno che mai dolersene. Quella qui avanzata è un’idea estetica dell’aikido, non sfuggono all’occhio attento le influenze nietzschiane di La nascita della tragedia e forse il contrasto tra apollineo e dionisiaco. Ma, si dice, c’è un periodo nella vita nel quale siamo necessariamente seguaci del filosofo tedesco. Dal lato aikidoistico vi è un certo ascendente della ricerca del maestro Fujimoto del “Fare la tecnica più bella!”, uno studio finalizzato ad una forma di benessere psicologico: l’arte è anche catarsi. Le arti hanno infatti tecniche diverse ma tratti comuni, l’ispirazione che è l’inizio di ogni cosa e forse il fine che è la bellezza (a meno che essa non sia uno strumento per qualcos’altro). Oggi sono portato a vedere altri aspetti, forse, e sono parole del maestro Tada, l’aikido è un’arte per vivere. Sarà effetto dell’età?
Complessità dell’aikido
L’aikido è un’arte complessa, multiforme, che ignora i confini e abbraccia differenti modi di essere del corpo e della mente. Per la sua duttilità è suscettibile di molteplici interpretazioni, da quelle più evidenti (e forse banali) della difesa e dell’arte del combattimento a quelle più complesse di carattere filosofico, psicologico e letterario.
Alcuni ne mettono in evidenza la difesa personale, non tanto nel senso limitato della lotta per schienare l’avversario, ma in quello più ampio di protezione del corpo e della psiche che sottoposti a pressioni di vario genere cercano di ritrovare il loro equilibrio. Altri ricercano la perfezione della tecnica esaurendo in questo la loro pratica (1). Altri ancora nella composta eleganza dei movimenti pongono in evidenza l’armonia che si accompagna all’esecuzione delle tecniche. In sostanza ognuno deve ricercare il proprio significato di aikido, la pratica poi mette in luce queste diverse impostazioni che spesso rimangono a livello latente nel principiante (l'imitatore ha una coscienza superficiale di ciò che imita).
La prima impressione che si ha osservando un allenamento di aikido è che si tratti di una lotta mimata, della rappresentazione cioè di un combattimento. Questo sospetto si rafforza quando si nota che nell’esecuzione delle tecniche non si dà importanza tanto all’efficacia delle stesse, ma quanto al modo in cui il risultato viene raggiunto.
Vi è quindi un aspetto diremmo estetico nella pratica dell’aikido, una ricerca della bellezza nel gesto che si compie. In tal senso forse più che di un’arte marziale sarebbe possibile parlare di un’arte apollinea. Nello svolgimento di questa ipotesi è opportuno esaminare che cos’è il fatto artistico e se e in quale misura può essere utilizzato per comprendere l’aikido.
Esterno e interno, tempo e spazio
Preliminarmente occorre osservare che nell’esistenza di ognuno (sia esso personaggio letterario o persona) c’è una dimensione verticale che corrisponde alla trama e una dimensione orizzontale che corrisponde all’ordito. La prima rappresenta lo svolgimento temporale e ha a che fare con l’evoluzione vera o presunta della personalità. La seconda rappresenta qualcosa che è sempre presente, in maniera conscia o inconscia alla persona. È il suo vissuto che ormai è senza tempo, ma tutto presente alla sua memoria, che può essere esplorato e in parte modificato come reinterpretazione in vista di ulteriori esperienze che il soggetto pensa di compiere o che effettivamente compirà. Secondo questa impostazione la dimensione verticale o temporale rappresenta anche la dimensione esterna dell’individuo. La parte sedimentata è invece una dimensione interna o interiore nella misura in cui non è portata all’esterno.
Si deve poi considerare come ogni esecuzione tecnica si inserisce in una dimensione spazio–temporale: questo perché si svolge in uno spazio delimitato (il teatro, il palco, lo stadio, la piazza, la stanza, il letto, la strada; Ueshiba affermava: fate che l’intero universo sia il vostro dojo), e perché richiede un’esecuzione, e quindi un lavoro, una successione temporale. Le due dimensioni sono legate tra loro. Ma se ogni azione della persona prevede la presenza della sua dimensione attiva e del suo passato, allora l’esecuzione tecnica si pone sempre in una dimensione spazio-temporale che è contemporaneamente esterna e interna all’individuo.
Il fatto artistico nella pratica dell’aikido
Due sono i concetti fondamentali che Aristotele elabora per comprendere il fatto artistico: a) la mimesi o imitazione; b) la catarsi o purificazione. Due elementi che possiamo ritrovare in maniera esplicita nella pratica dell’aikido.
La poesia (intendendo il termine ‘poesia’ in senso ampio) è imitazione diceva Aristotele, ma è evidente che la tecnica rappresentativa utilizzata è differente a seconda del soggetto che si rappresenta. La poesia è poi qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia, il particolare. Quanto al suo valore morale ed educativo, la poesia non suscita e non nutre le passioni, come riteneva Platone, ma, essendo riproduzione oggettiva dell'universale, ne provoca il superamento. L’arte ha per fine proprio la catarsi delle passioni. La definizione di catarsi include la sublimazione (idealizzazione, purificazione o spiritualizzazione) delle passioni in senso morale e la loro eliminazione in senso fisiologico. L'arte in pratica ci libera dalla schiavitù dell'emotività perché l’emozione che essa ci procura è una medicina che ci risana.
E’ opportuno ricordare in proposito che in via esplicita il Fondatore spiegò l'aikido, come: “La Via della Purificazione (L’umano IZU purifica l’anima)”; riferendosi ad un episodio della storia mitologica del Giappone, in cui Izanagi-no-mikoto ritornato sulla terra dopo essere scappato dal mondo degli inferi, decise di purificare il corpo e lo spirito dalle orrende esperienze vissute. Il mito è troppo simile a quello di Orfeo, disceso negli inferire a cercare Euridice la novella sposa che perì morsicata al tallone dal dente d'un serpe, per non istituire una relazione.
A Orfeo (figlio di Apollo e Calliope) viene fatto convenzionalmente risalire quel complesso frammentario di produzioni poetiche, dal contenuto spesso oracolare ed enigmatico, che va appunto sotto il nome di poesia orfica. Il mito di Orfeo è chiaramente legato alla dialettica amore-morte (o anche presenza-distacco), contrapposizione che in forma diversa ritroveremo nel cristianesimo. La poesia e il canto sono in questo senso lo strumento per attenuare il dolore. Dall’altro lato la figura di Orfeo legata ai sistemi mantici della parte meridionale dell’Eurasia, secondo l’interpretazione di Eliade è congiunta a pratiche di tipo sciamanico: “le poche figure leggendarie greche che si potrebbero paragonare agli sciamani ci riportano invece ad Apollo”. La musica è lo strumento che consente di entrare in contatto con un mondo ‘altro’ mentre il canto, la poesia accompagnata dalla musica è invece il dono dell’estasi. Numerosi sono gli esempi che troviamo nella letteratura greca di questo dono. Ad esempio quando Ulisse chiede a Demodoco di narrare l’episodio del cavallo di Troia: “Se questo pure saprai perfettamente narrarmi, certo dirò fra gli uomini tutti, che un nume benigno t’ha dato il canto divino - Disse così; e quello movendo dal Dio, tesseva il suo canto”.
Dall’altro lato la poesia (Apollo dio della luce) è lo strumento che consente di controllare la discesa agli inferi, di non rimanerne prigionieri, di poter uscire fuori dal labirinto delle proprie pulsioni (Dioniso - Arianna) indirizzandole verso scopi non distruttivi. Il rischio che si corre è quello di girarsi come Orfeo e di essere distrutti (non si volta chi a stella è fisso, dirà qualcun altro che intraprese lo stesso viaggio di Orfeo). In termini aikidoistici possiamo dire che quando la concentrazione di Orfeo era assoluta, la sua techne era così forte da incantare le sirene; quando per effetto della passione la sua concentrazione si limita ad Euridice, egli si gira, viene meno alla sua missione, cade cioè in una concentrazione relativa e viene sconfitto da quelle stesse forze che prima dominava (muore sbranato dalle baccanti).
Aikido e filosofia: la ricerca del bello
Per la sua potenziale universalità l’aikido viene autorevolmente definito: un modo di praticare una particolare filosofia orientale che è lo zen (chan in cinese, dyana in sanscrito, tutti termini usualmente tradotti in italiano come meditazione). L’identificazione tra meditazione e filosofia è propria anche dell’occidente; nel Fedone la filosofia viene proposta proprio come meditazione, come uno strumento in grado cioè di liberare l’uomo dalle limitazioni del mondo fisico e portarlo ad uno stato di coscienza più elevato e completo. In Platone inoltre, la ricerca del sapere è una forma dell’Amore, il quale nella cultura greca non è un dio, ma un demone, non ha la bellezza, ma la cerca. Non ha nemmeno la sapienza, riservata agli dei, quindi è solo filosofo, cioè innamorato della sapienza e della bellezza di cui è privo. Da questo la continua ricerca dell’uomo di convinzioni (valori) in grado di aiutarlo nell’esistenza. Se è vera l’idea che l’aikido sia una filosofia, è vero anche che a sua volta è una ricerca del significato profondo dell’essere.
La conoscenza è quindi un desiderio naturale dell’uomo, ma è un appetito che come i tanti altri che si affollano nella nostra mente, non può essere mai del tutto soddisfatto. Ogni aspirare proviene dalla mancanza, dall’insoddisfazione del proprio stato: l’aspirazione è quindi dolore, finché non sia appagata; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e come rappresentazione). Da questo anche il senso di angoscia dell’uomo che desidera una completezza e una bellezza che mai riesce a raggiungere. Perché in fondo, è la bellezza lo scopo dell'amore.
L’amore è un concetto che può assumere diversi significati, da quello dell’amicizia nei confronti dell’altro, all’ammirazione, all’agape, all’attrazione sessuale, ecc. Platone distingue l'eros volgare che ha per oggetto i corpi, quello che oggi chiameremmo erotismo fine a sé stesso, e l'eros celeste che ha per oggetto le anime.
Al centro del Fedro sta la narrazione di un mito: l'anima è simile ad una coppia di cavalli alati, guidati da un cocchiere. Uno di essi è buono, l'altro è pessimo. Per questo l'opera dell'auriga è difficile. Anche se l'auriga cerca di indirizzare il carro verso l'alto, l'iperuranio sede dell'essere e della totalità delle idee, il cavallo pessimo la tira verso il basso: Platone concepisce l'uomo in perenne conflitto-attrazione con il vizio ed il male. Se segue il cavallo balzano perde le ali, perde il bene ed il contatto con le sfere supreme. Ma, non appena l'uomo scorge una bellezza subito la ama, perché ha il ricordo della bellezza suprema che conosceva prima di nascere. Ed in questo caso non è più solo desiderio per il corporeo, ma desiderio di quell’incanto estremo che è in rapporto con il divino.
Dunque è l'eros, in questa forma sublimata, la vera e più autentica passione dell'uomo. In un certo senso bisogna seguirla per liberarsi di tutte le altre passioni. Scriveva Ueshiba: Non serve voce / né il cuore per vedere:/ segui il Divino / e non ci sarà nulla / da chiedere sugli Dei.
La condizione mentale
L’effetto della pratica nella continua ripetizione delle tecniche, è la creazione di una disponibilità particolare della psiche, che come tale, non è tipica solo delle culture orientali ma appartiene in generale all’uomo. 2)
Proprio per questo, a volte, può essere piacevole praticare paradossalmente, anche sotto la direzione di qualcuno che ne sappia meno di noi. Questo perché si può essere più rilassati, si può non avere l’urgenza di correggere un praticante che sbaglia il tempo dell’esecuzione o ha una tecnica poco pulita. La condizione fisica che si accompagna alla pratica serve ad entrare in un particolare stato mentale, a volte definito di rilassatezza attenta, una condizione per certi versi potrebbe essere assimilata a quella del mistico o dell’artista. 3)
Ma chiaramente l’ispirazione per esprimersi ha bisogno di una tecnica per acquistare forma, e la tecnica per essere acquisita ha bisogno di studio e di duro lavoro. 4) Spiegava il maestro Hosokawa: Se la tecnica è ben fatta, allora l’aikido diviene una comunicazione profonda.
Scrivere ad esempio, è il lavoro dell’artigiano che paziente costruisce e leviga uno specchio, se il lavoro è ben fatto allora ognuno nell’opera vede riflessa un’immagine differente. Praticare l’aikido è come intraprendere un viaggio, un viaggio alla ricerca di noi stessi, di qualcosa che pensiamo di avere perduto e invece ci accompagna sempre perché è dentro di noi, un tesoro nascosto dalla polvere del tempo che la pratica riesce a portare alla luce in una specie di aura 5) che abbraccia le cose lontane e il presente, facendoci sospettare che la vita e i sogni fanno parte di uno stesso libro. L’aikidoka come qualcun altro cherche l'or du temps.
Spirito Aiki / fonte di quel potere / del puro amore: / la gloria dell’amore / rendi sempre più grande.
L’aikido inteso come zen può essere un modo per aiutare l’uomo a vivere senza isolarsi dal mondo, ad essere più presente e a conoscere meglio sé stessi, a prestare migliore attenzione agli altri. Questo è tanto più utile in un periodo di globalizzazione non solo delle merci, ma delle culture e degli individui. Sembrerebbe oggi superata, almeno nei paesi ad economia sviluppata, la morale della cosiddetta società chiusa, dove l'individuo agisce come parte di un tutto, adeguandosi servilmente alle regole ed esaltandone gli ideali. L’evoluzione è verso una società aperta, il cui fondamento è la persona creatrice, che non possiede più gli schemi fissi e le certezze della morale chiusa e si pone come scopo una relazione dinamica verso tutta l'umanità.
Scriveva il Fondatore in un Doka (Canti del Cammino): L’universale grande/ Cammino dell’Aikido/ Illumina/ ogni popolo e gente/ aprendosi al mondo.
In questo senso l’aikido rappresenta una ricchezza per la cultura occidentale ed evidentemente dobbiamo guardare con gratitudine verso coloro i quali hanno dedicato i loro sforzi a diffonderne in Italia la pratica. La sua importanza non è ristretta ai solo praticanti ma, se è vero che la cultura come l’acqua segue vie nascoste, è qualcosa che può permeare l’intera società.
1) L’aikido allena più la mente che il corpo, o meglio allena la mente tramite il corpo. La mente poi comanda al corpo come dice Ulisse, nell'Odissea, comandando al suo cuore di sopportare il dolore: "Soffri, o mio cuore: altri dolori già sopportasti più acuti".
2) La tecnica non è tutto, diceva il nostro Direttore Didattico. Non possiamo pensare di vivere sempre come equilibristi su un filo, altrimenti il diavolo ci farà lo sgambetto e cadremo rompendoci il collo. La tecnica è il dito che indica qualcos’altro, è il significante, ma il significato lo dobbiamo cercare noi: nessuno può vivere la vita al posto nostro.
3) Diceva ad esempio Kerouac (uno dei miti della gioventù di chi scrive) sull’ispirazione: “E per quanto riguarda lo STATO MENTALE Se possibile scrivi senza coscienza in semitrance permettendo all'inconscio di far entrare il proprio linguaggio non inibito interessante necessario e dunque moderno cosa che l'arte cosciente censura, e scrivi con eccitazione, rapidità, con crampi da scrittura o battitura, secondo le leggi dell'orgasmo, l'offuscamento della coscienza di Reich. Vieni da dentro, fuori al rilassato e al detto”.
4) Si racconta che Flaubert passasse delle notti insonni sull’uso di un congiuntivo.
5) Scriveva Benjamin: L'aura nasce dalle origini stesse dell'arte, come espressione del rito e del culto, è il carattere che rende unica l'opera d'arte, autentica, nella sua segretezza religiosa: ha quindi carattere di sacralità. Man mano che il carattere cultuale si perde, la sacralità viene ad avvolgere direttamente l'artista, il genio … Che cos'è, propriamente, l'aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l'apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina … ora, il bisogno di avvicinare le cose a sé stessi, è intenso quanto quello di superare l'irripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua riproduzione.
Riprendendo in mano questo articolo, a distanza di vari anni, è subito stato evidente come lasciasse sensazioni decisamente diverse da quelle - di cui rimaneva un ricordo un po' sfocato ma comunque ben delineato - che aveva dato la prima lettura. Da qui a chiedere a Enzo di pubblicarlo su questo sito, senza minimanente accennargli a questa discordanza tra il sentimento passato e quello odierno, è stato un passo praticamente obbligato. Anche l'autore tuttavia si è trovato di fronte a una rilettura non coincidente, perlomeno non integralmente, con la prima stesura. Questa comune sensazione potrebbe anche sconcertare alcuni, ma piuttosto conforta lo scrivente: se non siamo più gli stessi che eravamo allora, se ai nostri occhi si presentano panorami diversi non è certamente segno di essere in qualche modo avanti. Ma è la prova certa che da allora, poco o tanto che sia, abbiamo percorso un certo cammino lungo la Via.
Paolo Bottoni