Incontro con André Cognard

Dal 7 al 12 giugno 2011 si è tenuta a Roma una serie di incontri col maestro Andrè Cognard, caposcuola della Kokusai Aikido Kenshukai, in qualità di discepolo del maestro Kobayashi Hirokazu Soshu, quest’ultimo, a sua volta, allievo diretto di o sensei Ueshiba Morihei.

Rimando il lettore di questa breve sintesi  agli approfondimenti che troverà facilmente in rete su questa scuola, che ha lasciato l’Hombu Dojo e i suoi insegnamenti, per intraprendere un altro percorso.

Mi concentrerò sui due incontri che ho avuto personalmente: la conferenza di Cognard alla Protomoteca capitolina e una breve esperienza di pratica sul tatami durante lo stage che si è tenuto al Centro sportivo di Via  Montona a Roma.

 

 

La conferenza:

Cognard intitola il suo intervento La violenza non è una fatalità: gli strumenti della pace e avvia il suo discorso cercando di definire la spiritualità e l’esperienza che ne traiamo. Si delinea un continuum di stati di coscienza che vanno dalla sensazione all’intuizione, dalla percezione all’astrazione e all’emozione.

Invitato a meglio precisare la dimensione spirituale Cognard sostiene che in parte è una risposta alla trascendenza (non solo intesa come aspetto divino e religioso, ma anche laico, nel senso di infinito e di assoluto), in parte è una qualità del nostro sentimento. Precisa poi che lo stesso dualismo corpo/mente è una rappresentazione, ossia un’esigenza mentale, non una realtà a prescindere.

Entra quindi nel tema del convegno affermando che la violenza non è una fatalità inevitabile, ma il frutto di una cultura, estremamente diffusa e forse la più condivisa, che nasce nelle faglie identitarie dell’essere, nelle fratture della nostra individualità: in queste interruzioni della nostra identità si insinua la paura e la crisi dell’interezza dell’Io.

Nonostante l’essere e l’esistere siano inseparabili, l’apparente contraddizione tra essi fa vivere in noi una frattura identitaria. L’identità è un’illusione creata dalla necessità di doversi rappresentare per esistere e questa rappresentazione avviene attraverso il corpo, il mentale, gli altri. Ciò significa che senza l’altro non c’è l’Io: la nostra identità si costruisce a partire dal rapporto con gli altri. Ma identità è sinonimo di identico e allora è legittimo chiedersi: identico a che? A chi? E proprio per questo Cognard giunge alla conclusione che non siamo uno, ma molti: siamo tutti gli altri che sono stati,  che sono e che saranno significativi per noi!

Quando la rappresentazione di noi stessi è minacciata o si sfalda ci smarriamo come individui e quando si perde o diventa impossibile ci sentiamo morire. Quindi ogniqualvolta vi sarà la negazione del proprio sistema di rappresentazione si verificherà una reazione violenta dell’individuo e del gruppo di cui l’individuo fa parte (questo è quanto accade, quasi quotidianamente, con le reazioni xenofobe all’immigrazione!): è in atto una difesa dell’identità.

Ma se una reazione possibile, spontanea e diffusa alla sensazione di debolezza è l’aggressività, la violenza, non si può affermare che tutto ciò che è naturale sia di per sé giusto ed auspicabile: la violenza è appunto uno di questi casi.

Infatti la risposta naturale ad una aggressione è la rabbia, l’irrigidimento, la contro aggressione; bisogna esercitarsi a non reagire, a non essere agiti dalla reazione istintiva. Reagiamo così perché l’aggressione minaccia la nostra identità, ma quest’ultima è un’illusione che utilizziamo per rappresentarci, per sentirci. Dobbiamo esercitarci a sentire l’altro (l’avversario) come parte di noi e noi, come parte di lui; allora la via è far passare l’altro davanti a noi, proprio come facciamo con i nostri figli.

Ma di quali mezzi disponiamo per poter giungere realisticamente alla pace? Cognard ricorda anche il tentativo di Kant quando scrisse il breve saggio Per la pace perpetua e si chiede quale possa essere il contributo che un’arte marziale - sia pure difensiva e non competitiva - come l’Aikido possa dare alla pace e alla non violenza; interrogativo non alieno da molte riflessioni comuni anche da “noi”, tra le persone più sensibili e più preparate, consapevoli che le antiche arti marziali si sono trasformate in discipline morali e psicofisiche e che sono ancora in grado di portare arricchimenti e insegnamenti significativi nella nostra cultura e nel nostro tempo e tuttavia, spesso, non sembra possibile, né realistico limitarsi ad un esercizio di pura non violenza, di resistenza passiva, di reazione soltanto difensiva.

Gli strumenti della pace che, a questo punto, Cognard mette in risalto sono l’Armonia, il Rispetto, la Perfezione dell’Altro e la Moderazione di Sé. Un capovolgimento quasi completo della consueta prassi quotidiana promossa dalla cultura dominante! Considerare l’Altro "perfetto" significa non tentare di cambiarlo, di influenzarlo, di criticarlo e moderare se stessi significa non imporsi, non esibirsi, non vantarsi: occorre creare una coscienza dell’altro, non per contrapporvisi ma creare il quadro del reale in sé. Gli strumenti della pace rispondono a regole che scaturiscono da leggi universali ma l’individuo è il solo luogo dove la violenza può essere fermata poiché esso ne è l’attore così come il responsabile della sua cessazione; è pertanto sull'individuo che bisogna lavorare.

E’ con tali premesse che l'aikido acquista, nella ricetta di Cognard, una piena centralità e una funzione decisiva. Tra l’altro ci permette di fare dei movimenti e provare delle sensazioni che richiedono la collaborazione di altri e che da soli non avremmo potuto fare, né provare, ossia proprio quello scambio di identità la cui assenza ci impedisce di cogliere l’illusione della rappresentazione individuale.

Cognard conclude la conferenza con una sorta di aneddoto, che è anche una specie di indicazione sibillina per il futuro: No sottomissione, No dominazione, No compromesso.

 

Lo stage:

Lo stage si è tenuto nei locali di un centro sportivo circoscrizionale, ampi, luminosi e ben attrezzati; almeno 50 partecipanti, la maggior parte di loro yudansha.

A parte alcune differenze nel cerimoniale di saluto, mi ha colpito la sostituzione dell’immagine di o sensei Morihei Ueshiba con quella di Kobayashi Hirokazu, alla quale viene tributato un identico omaggio; evidentemente viene con ciò ribadita la diversa affiliazione: la diversità vince sulla comune provenienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

Per quanto riguarda l’uso del bokken, ho trovato  interessanti le tecniche contro due avversari che attaccano simultaneamente, sia da due punti diametralmente opposti, sia da due posizioni formanti un angolo retto con l’attaccato, ma in questi esercizi non mi è parso di rilevare differenze sostanziali dagli insegnamenti dei nostri maestri. L’unica evidente differenza, forse, l’uso disinvolto di una sola mano (la destra) nel reggere il bokken e nel brandire i colpi.

La raccomandazione di non farsi catturare dall’avversario, di non guardarlo per non essere bloccato nei movimenti, indicazione che ho più e più volte sentito dai nostri maestri, è stata anche da Cognard, particolarmente sottolineata ed esemplificata.

Un altro aspetto della loro pratica dell’Aikido che mi ha colpito è stata la contenuta mobilità del tori [n.d.R.: normalmente denominato seme nel metodo Kobayashi] e, soprattutto, il suo mantenere sempre la posizione eretta: le tecniche non implicano mai spostamenti dell’equilibrio e del baricentro del tori, che rimane apparentemente quasi fermo e in stazione eretta; naturalmente il lavoro delle anche (come nel kaiten o nel tenkan) è decisivo come lo è per noi, ma meno appariscente, più sintetico, più surplace direi.

Del tutto opposto, invece, il modo di tenere e usare le mani: mentre noi le teniamo ben aperte e cerchiamo di sentire il flusso di energia, il ki, versarsi fuori, quasi uscire dalla punta delle dita, loro tengono le mani quasi chiuse a pugno, unendo pollice  e indice, come se l’energia passasse dall’uno all’altro e si chiudesse in questo circuito.

Eseguendo tecniche di kokyunage da katateryotetori, ho potuto constatare che il differente modo in cui eseguiamo queste tecniche non rende reciprocamente facile allenarsi insieme: entrambi non sentivamo le tecniche dell’altro, poiché ognuno si aspettava diverse modalità esecutive e differenti tipi di squilibrio.

Più simile invece il modo di praticare kokyuho, ma anche in questo caso è significativa la quasi immobilità del tronco del tori: lo squilibrio e la proiezione vengono affidate esclusivamente al lavoro dei polsi e delle braccia.

Infine non ho potuto non notare che gli allievi facevano a gara per poter piegare l’hakama del maestro e dei suoi assistenti.