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Ho già chiacchierato parecchio ma ancora non si capisce come sia successo quello che dalle foto è già evidente.

E cioè come mai proprio a me che non sono un aikidoka particolarmente meditativo sia capitato di finire in un monastero e per di più non per imparare meditazione o quant’altro ma per insegnare ai monaci l’aikido!

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fatto è che Roberto, integrandosi sempre più con la vita del monastero e smanioso di rendersi utile all’interno di quella comunità, ha finito con il dirigere con la benedizione dello stesso Tai Situ un corso di formazione marziale ad ampio raggio mettendo in campo tutta la sua esperienza e polivalenza. Ne potrete sapere di più andando al sito che ha creato per parlare di questa sua avventura.

Roberto è tra l’altro insegnante diplomato I.S.E.F. e una volta che gli è stato affidato un primo gruppo di venti giovani monaci non ha mancato di riscuotere successo, tanto è che quest’anno l’incarico gli è stato confermato raddoppiando il numero degli allievi.

Nel corso del loro ultimo passaggio in Italia Roberto e Ivana sono tornati a far visita al Dojo raccontandoci la loro straordinaria esperienza e il progetto a cui stanno lavorando. Alla fine ne è scaturita una proposta che ho recepito ma che era difficile da prendere in considerazione.

L’India non è proprio dietro l’angolo e la cultura tibetana non è l’unica che mi interessi, in fondo mi interessano tutte, infatti quest’anno la meta dovevano essere gli aridi scenari del deserto del Rajastan. Casualità vuole però che l’amico Claudio Cardelli, studioso esperto di cultura indiana e tibetana, forte dei suoi trentatre viaggi in quelle regioni, consultato a due giorni dalla partenza mi informa dell’ondata di caldo torrido che sta investendo l’India con temperature oltre 40° a Dheli e oltre i 50° nel Rajastan! Viaggiatori tosti sì, ma masochisti no. Quindi all’ultimo momento si cambia itinerario e si decide di puntare a nord al fresco fra le montagne per organizzare un trekking che ci porterà oltre i 4000 m. A quel punto però è impossibile non far visita ai nostri amici e così, infilati all’ultimo momento keikogi e hakama nello zaino, si parte.

Raggiunta la meta, subito un colpo di fortuna. Appena arrivati al monastero di Palpung Sherabling cerco di rintracciare la coppia e alla fine qualcuno mi conduce in una sala gremita di persone in attesa per l’udienza del Tai Situ, giusto l’ultima prima di un lungo ritiro che inizierà per lui due giorni dopo.

L’udienza ha appena avuto inizio e nella sala privata a colloquio ci sono proprio i miei amici che essendo interni del monastero si sono organizzati per essere i primi ad entrare. Attendo a lungo - in India tutto avviene con molta calma - e intanto scruto le varie delegazioni di fedeli giunte da ogni dove.

Il gruppo più numeroso viene da Hong Kong; sono tutti con una maglietta del color porpora delle vesti monacali con scritte in cinese e recano in dono la scultura di un dragone in giada avvolta in una kata, la rituale sciarpa bianca tibetana.

Ci sono signore occidentali attempate con l’aria da “romantica donna inglese”, diverse persone dai caratteri indiani e la maggior parte evidentemente tibetani. Io passo il tempo conversando con uno strano giovane, padre austriaco e mamma inglese ma che vive in Mongolia! Ha l’aria “fusissima”, le palpebre a mezz’asta e secondo me l’estasi non la ricerca solo tramite la meditazione ma anche attraverso percorsi più sbrigativi.

Alla fine i nostri amici escono ed è gran festa rivedersi in quel posto così speciale e così lontano da casa. Roberto mi spiega che è un’occasione da non perdere e così dopo una lunga attesa in fila anche noi entriamo per una breve udienza del Tai Situ che non esagero nel definire per quella cultura una sorta di Papa. Vengo presentato da Roberto come il suo maestro di Aikido e la proposta è che sia io per un paio di giorni ad insegnare al gruppo di accoliti per le tre ore di lezione. La semplicità e la cordialità del personaggio sono sorprendenti e mi fanno rivivere le sensazioni vissute in un incontro a quattr’occhi avuto col Doshu presso l’Hombu Dojo.

Evidentemente è prerogativa dei grandi saper essere semplici senza far pesare il proprio ruolo e proprio per la sua semplicità questo contatto è stato magico e carico di emozione. Ricevuta sul collo la Kata in segno di benedizione e congedo, mi allontano un poco frastornato. E’ proprio vero? Domani terrò lezione nel dojo del monastero! Ospitati dalla guest house di recentissima costruzione iniziamo l’esplorazione del complesso monastico. L’ambiente più impressionante è l’ampio piazzale coperto antistante il tempio.

Circondato sui restanti tre lati dagli alloggi dei monaci e dalle aule dove essi studiano, l’ambiente come una enorme cassa armonica risuona costantemente di canti intonati in coro, a volte delle voci squillanti dei giovanissimi a volte dei toni incredibilmente bassi dei monaci anziani.

Tamburi, campanelle, il suono grave delle lunghissime trombe che col loro muggito annunciano l’inizio delle funzioni, l’andirivieni continuo dei religiosi nelle loro vesti rosse e gialle… sembra di vivere fuori dalla realtà.