Tutte le strade portano al kyosaku. E il kyosaku conosce tutte le strade.

Ovvero: Storia di «un» kyosaku. Quello che c'è. Anche se non lo vedrete.

 

Nel 1976 Tada sensei iniziò a tenere i suoi seminari kinorenma presso il Dojo Centrale di Roma. Fino ad allora quegli studi erano parte integrante dei seminari estivi da lui organizzati e diretti, prima al nord Italia e poi negli anni successivi presso il centro tecnico della Federazione Italiana Gioco Calcio a Coverciano (Firenze). Lo spostamento in una grande città portò con se alcuni problemi: era necessario iniziare la pratica la mattina molto presto, durante la giornata si susseguivano invece incessanti lezioni tecniche, e questo creava molte difficoltà di spostamento da parte dei praticanti. Molti alloggiavano in strutture religiose sulle colline di Fiesole che non erano attrezzate per una apertura delle porte alle luci dell'alba che consentisse ai praticanti di recarsi a Coverciano. Dovevano in pratica evadere clandestinamente scavalcando muri e cancelli e sconcertando eventuali suorine mattutine.

Lo spostamento a Roma, ove l'intera giornata sarebbe stata dedicata al kinorenma,  ebbe un altro effetto positivo: comportando per necessità logistiche anche uno slttamento della data veniva a cadere alla fine di agosto, non era quindi la conclusione dell'Anno Accademico di studio ma un ideale viatico per quello che andava ad iniziare il 1. settembre. Naturalmente i vantaggi di un seminario dedicato esclusivamente al kinorenma, lungo tutto l'arco della giornata, rimanevano quelli più evidenti. Infine, pur nel cuore della città il Dojo Centrale era un'oasi felice ove si praticava in condizioni ideali. Durante la meditazione mattutina prima ancora dell'alba, le porte rimanevano aperte per consentire il ricambio dell'aria, un piacevole venticello preannunciava l'arrivo del sole, nel silenzio più assoluto, portando con se il profumo dei tigli e della camomilla che cresceva spontanea nel prato.

Non venivano considerate scomodità le strutture rudimentali del Dojo Centrale, nè veniva considerato uno svantaggio il numero dei partecipanti, che si era ridotto drasticamente.

Essendo all'epoca prima addetto alla Segreteria dell'Aikikai, e poi Segretario Nazionale, avevo molte mansioni da svolgere durante quei seminari, con una punta di rimpianto per il tempo e la concentrazione che hanno sottratto alla pratica eallo studio. Quelle che sicuramente pesavano di meno, erano anzi un vero piacere, erano le piccole incombenze quotidiane da cui sollevare il maestro, per permettergli di concentrarsi al massimo sull'insegnamento.

Alloggiava tradizionalmente all'Hotel Bled, non lontano dal Dojo Centrale, ove tornava dopo aver terminato nella foresteria del Dojo quanto da farsi dopo la lezione. Sfuggendo se possibile alle torme di responsabili di dojo che al termine di ogni sessione assediavano la segreteria con le domande e i problemi più svariati, tentavo dopo aver recuperato il materiale utilizzato durante l'insegnamento di riporre in segreteria gli oggetti ordinari come la lavagna e riportare il resto - meno profano - nella foresteria: identificabile in corrispondenza di quella inspiegabile  porta vetrata scorrevole situata in alto, dove guardavano con sospetto molti praticanti. Chiedendosi (e talvolta chiedendomi) se "lui" da lì poteva guardare di sotto.

La risposta è no: da lì non si poteva vedere nulla, i vetri erano rivestiti di materiale opaco che non permetteva di guardare dall'esterno verso l'interno ma nemmeno il contrario.

I maestri guardavano quanto succedeva nel dojo più banalmente e comodamente dalla piccola finestrella più a sinistra, apparentemente innocua, che si trovava proprio davanti al loro tavolo da lavoro. In non rare occasioni erano anzi proprio loro a richiamare divertiti la mia attenzione per dirmi "guarda questo" o "guarda quello". Ma di ciò è bello tacere.

Il pur breve tragitto dalla mia segreteria a quella del Dojo, da dove partiva la scaletta a chiocciola che portava alla foresteria, era procelloso: raramente riuscivo a fare più di un metro senza essere assalito e dirottato dai postulanti. Quindi presi l'abitudine di lasciare quegli oggetti (rin ossia campana, jo e bokken e quanto altro), al sicuro accanto al mio posto di lavoro, per spostarli solo dopo quando, esausto, mi guardavo intorno e mi rendevo conto di essere rimasto (finalmente) solo nel Dojo.

In uno di quei frangenti, era il 1981, mi rimase tra le mani, non avendo nemmeno trovato il tempo di poggiarlo, il kyosaku. E' , per chi non lo sapesse ancora, il bastone piatto simile ad uno spatola che durante la pratica dello zen viene utilizzato sulle spalle dei praticanti per risvegliarli da uno stato di torpore o per ricondurre i loro pensieri - ovvero assenza di pensieri - verso la giusta - o assente - direzione. Aveva un aspetto insolito, e  dimensioni minori del consueto. Era, lo venni a sapere molto tempo dopo, un kyosaku da viaggio. A quei tempi ero febbrilmente intento in ogni momento libero alla fabbricazione di bokken in legno, e anche il kyosaku è in legno. Lo stesso tipo di legno... Il resto è immaginabile: mi guardai intorno per cercare un foglio di carta ove riportare i contorni del kyosaku ricavandone una dima (sagoma di riferimento per la lavorazione, ma non cercate nei vocabolari giapponesi perché è una parola italiana). Non c'era nulla di adatto, ripiegai su due diplomi di dan di scarto, che per dimensioni e spessore si prestavano maggiormente rispetto al comune foglio di carta da lettera. Su un diploma kyu, anchesso di scarto, annotai invece gli spessori.

Quel materiale mi seguì in varie vicissitudini per molto tempo. Periodicamente riemergeva da un cassetto o da un ripostiglio e pensavo: "un giorno o l'altro..."

Venne finalmente quel giorno, o più probabilmente fui io a decidere che doveva venire. Erano passati circa 25 anni.

Una volta terminata la fabbricazione del "mio" kyosaku, rimaneva da decidere cosa farne. Avevo perso i contatti con Taino roshi, con cui avevo praticato zen rinzai e che fu la prima persona a cui pensai. Avrei potuto rintracciarlo facilmente ma difficilmente avrei trovato il tempo di recarmi al monastero per consegnarglielo. Ma fortunatamente non mi mancano gli amici, E alcuni di questi praticano o insegnano (e un giorno spiegherò le ragioni d questo corsivo) zen.

La scelta della persona fu istintiva e immediata, senza dubbi o esitazioni. Lo andai a trovare, e dopo i convenevoli misi senzaltro, senza commenti, il kyosaku sul tavolo. Dopo la sorpresa iniziale, ritornatagli la parola, me ne venne naturalmente chiesta la storia, e man mano che andavo avanti lo stupore del mio interlucutore cresceva. Assieme al mio. Per farla breve, ecco la storia "vera".

Nel 1967, se non ricordo male, Taisen Desshimaru roshi, che per la prima volta veniva in Europa, tenne alcune sessioni zen presso il Dojo Centrale di Roma (esiste una documentazione fotografica dell'evento, e negli anni seguenti ne venni addirittura in possesso).

Ripartendo, in segno di ringraziamento, lasciò a Tada sensei il suo kyosaku da viaggio. Era esattamente quel kyosaku che veniva utilizzato durante i seminari kinorenma in quegli anni. Diverso tempo dopo Tada sensei a sua volta lo lasciò ad uno dei suoi discepoli: la persona che avevo davanti in quel momento. Che non si sentiva però ancora pronto per quel lascito: lo donò al primo discepolo di Taisen roshi.

Ma infine il circolo si chiudeva: quanto era stato a lui destinato lo raggiungeva comunque, sia pure per vie apparentemente contorte, estremamente lunghe e prive di logica. E in una diversa incarnazione (se così si può dire, ammettendo che anche il legno conosca diverse vite; vi risparmio il neologismo inlegnazione).

Non esiste per quanto io sappia alcuna foto o disegno di quel kyosaku, a parte il rudimentale oshigata che io ne feci a suo tempo. E ritengo doveroso non pubblicare ora nemmeno immagini della mia modesta copia.