Troppo forte è il dolore per la scomparsa del maestro Yoji Fujimoto, VIII dan, Honbu Dojo shihan, per 40 anni membro insostituibile e trainante della Direzione Didattica dell'Aikikai d'Italia, perché se ne possa parlare serenamente. E' però comprensibile che proprio in questo momento, a breve distanza dalla sua scomparsa, si abbia il desiderio e il bisogno di conoscere qualcosa di più sulla sua figura. E' doveroso tentare di tracciarne un profilo ora e subito.

 

 

 

 

Molte delle cose che verranno dette ora sono già state dette e ripetute in passato, il personaggio di cui dobbiamo disegnare i contorni è infatti sorprendentemente semplice da intravedere in ogni sua minima sfumatura. Eppure è di una profondità che non consente approcci disinvolti.

Le prime apparizioni del maestro Fujimoto in Italia suscitarono non poca sorpresa per l'armonia dei suoi movimenti e per la pulizia ed efficacia del suo aikido: forse non s'era mai visto fino ad allora in Italia un maestro di arti marziali che sapesse presentare le sue tecniche con tanta eleganza e possiamo dire adesso con maggiore cognizione di causa che probabilmente non si era mai visto nel mondo.

Erano i tempi 'gloriosi' dei massacranti stage di Desenzano del Garda prima e Coverciano poi e il Maestro Fujimoto era appena poco più che un ragazzo, avendo 23 anni al momento del suo arrivo in Italia, eppure univa alla naturale eleganza una maturità tecnica sorprendente.

Era il 1971 quando arrivó: il maestro doveva passare il resto della sua vita tra di noi, senza perdere nulla del suo iniziale entusiasmo.

E' infatti questa l'altra sua caratteristica unica, forse meno facile da assimilare: la scanzonata serietà del suo approccio all'arte ed alla vita.

Nato a Yamaguchi nel sud del Giappone il 26 marzo del 1948, Fujimoto sembrava destinato a seguire l'arte di famiglia, il kendo, sottoponendosi sin da bambino a brusche levatacce per impugnare lo shinai prima di recarsi a scuola nella quotidiana lezione antelucana sotto la guida del padre, maestro di quest'arte, o sotto il vigile controllo della madre. Ma appena adolescente, assieme a degli amici, assiste ad una lezione di aikido presso l'Honbu Dojo di Tokyo, rimanendo avvinto all'istante dalla personalità del fondatore e dei tanti grandi maestri che all'epoca dispensano il loro sapere in quella leggendaria scuola.

Era già shodan nel 1962, all'età di  14 annni. L'impegno nella pratica non gli impedisce di applicarsi con profitto agli studi presso l'Università Nitaidai dove fonda anche un gruppo di Aikido ancora oggi attivo e diretto all'inizio dal maestro Tohei e poi dal maestro Masuda che furono due saldi punti di riferimento nel suo percorso, assieme al secondo doshu Kisshomaru Ueshiba. Ammira particolarmente il maestro Kisaburo Osawa, sviluppando una solida amicizia con il figlio Hayato Osawa, di pochi anni più giovane di lui.

Ha già il desiderio di conoscere il mondo, ma sa che deve attendere il conseguimento della laurea in Scienze Motorie. Non sa ancora che di lì a poco sarà chiamato a diffondere l'arte dell'aikido in Italia, i suoi piani erano diversi.

Il suo arrivo in Italia, benché non coincida esattamente con il ritorno in Giappone del maestro Tada, è provvidenziale e riesce in qualche modo a colmare l'irrimediabile vuoto lasciato da questi. Continuerà da allora per sempre nella missione affidatagli da Tada sensei.

Per anni si moltiplica, tenendo raduni, manifestazioni e lezioni in tutti i Dojo d'Italia, avendo come base Milano, dove fonda l'Aikikai Milano - Dojo Fujimoto.

La sua intensa e fraterna collaborazione con Hosokawa sensei sfida le perplessità di quanti ritengono di avere bisogno di un unico punto di riferimento, temendo quelle diversità che sono invece l'indispensabile arricchimento di cui dovrebbe vivere ogni persona.

La sua opera marca la vita di tantissimi praticanti italiani, la sua didattica poggia su basi solide ed inamovibili e tocca vertici di alta scuola e per i suoi tanti appassionati allievi sono ancora immutati fin dal primo giorno del suo arrivo tra di noi gli stimoli a seguire le sue lezioni, il piacere della scoperta continua, l'attesa che precede ogni nuovo incontro sul tatami.

Non sempre e non a tutti è stato possibile comprendere le ragioni di quella sua dicotomia, di quella apparentemente insanabile contraddizione tra un carattere solare, trasparente ed allegro e la inflessibilità del suo insegnamento e dei suoi giudizi.

Nelle parole di uno dei suoi discepoli, chiamato poi a percorrere altre strade marziali nella vita, si ricollegano a lui

... ottimi ricordi e la sensazione di un grande Maestro che non voleva esserlo (lo stimavo anche per questo) e di una persona forse un po' incompresa che consapevole di questo aveva accettato la cosa ... io l'ho seguito solo tre anni ma molto importanti per me. Gli devo molto, più di quello che credevo ... 

mi spiace solo non avergli fatto una visita in questi anni [ma] fuori dall'Aikido non c'era un senso a frequentare il Maestro, ed invece aveva un senso per me conservarne l'esempio, che appunto ho spesso considerato essere non ben compreso da molti praticanti.

In quello che ho fatto in questi anni, Fuji è stato uno di quelli che mi ha ispirato di più - nel suo modo di relazionarsi agli allievi - ma è più una cosa che mi conservo dentro, che non ha mai avuto senso dire in giro. Mi spiace, forse Fuji avrebbe avuto il diritto di saperlo, quanto mi era stato di insegnamento.

...

Io sono solo stato una meteora irrilevante nel suo ambiente, ma so che lui ricorda sempre tutti. Ora penso che sappia anche quanto gli devo. 

 

Questo, in una intervista dedicata ai bambini pubblicata sulla rivista Kodomo, il pensiero di Fuji, come eravamo abituati a chiamarlo, sull'aikido:

Il nome aikido è formato da tre parole: ai che vuol dire unione, armonia; ki è l'energia dell'universo che secondo noi giapponesi fa vivere tutte le cose: gli uomini, gli animali, le piante, il nostro pianeta; do invece significa via, un percorso dove s'impara qualcosa.

Quindi la sua traduzione potrebbe essere via dell'unione con l'energia dell'universo. L'aikido non serve per combattere o per fare del male a qualcuno ma insegna a creare armonia con le persone, a cercare di andare d'accordo con qualcuno anche se questo ci vuole fare del male. Difficile. Però interessante.

In un momento in cui la sia la didattica che la dialettica di Fujimoto sembravano avere raggiunto il loro culmine, al punto da superare, od obbligare al superamento, di tutte le incomprensioni avute precedentemente con una percentuale sia pure ridotta di praticanti, al maestro venne diagnosticata la presenza di un tumore dalla prognosi infausta.

Da quel momento, lo può dire con assoluta sicurezza chi ha potuto seguirlo da vicino, i suoi sensi si sono acuiti, la sua determinazione è diventata inflessibile: avvertiva il dovere di lasciare quanto più poteva di se stesso, senza nulla omettere, mettendo in condizione chiunque avesse fiducia in lui di proseguire senza deviazioni sul cammino da lui indicato. Per poi lasciare questo mondo, senza rimpianti.

Se la perfezione potesse essere di questo mondo potremmo dire che nell'assolvimento di questa missione il maestro l'ha raggiunta. Ci ha lasciato il 20 febbraio 2012, con la serena consapevolezza di avere fatto per noi quanto doveva. Le sue ceneri sono tornate poco dopo in Giappone, per riposare nella tomba di famiglia a Yamaguchi.

Ha lasciato con noi il suo ricordo, indelebile, ed i suoi insegnamenti: quello tecnico, che verrà mantenuto vivo e proseguito dai suoi discepoli. E poi, più difficile ma assolutamente doveroso preservarli, quello culturale, quello morale. Quello umano.