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Per quanto concerne l’allenamento pratico bisogna considerare innanzitutto che il corpo è un oggetto fisico, quindi il modo in cui si muove deve essere razionale e scientifico. Tuttavia le arti marziali (budō) richiedono allenamenti focalizzati non solo sul modo di stare seduti e in piedi ma anche su come influenzare mentalmente il corpo ed essere massimamente vigili. Un particolare accento va posto su come muovere il corpo, o come acquistare velocemente la necessaria stabilità per eseguire bene le tecniche. Certamente ci sono principi che governano tutte queste attività, e che deb­bono essere compresi completamente e messi in pratica durante l’allenamento. Con il termine scientifico si vuole dun­que intendere che si segue un insieme di principi scientifici e li si applica.

Il ruolo dell’insegnante è di tra­smettere questi principi allo studente, ma è difficile farlo mediante spiegazioni logiche; è meglio impararlo gradualmente attraverso il proprio corpo, anche senza prenderne chiara coscienza. È per questo che il maestro Ueshiba non spiegò mai le sue tecniche: le spiegazioni a parole si fer­mano alle orecchie. Infatti, la semplice esecuzione della tecnica al meglio possi­bile è il modo più veloce per migliorare. Non è bene pensare che non si sia in grado di fare qualcosa se non se ne è già fatta esperienza, se non è già assimilato.

Durante gli allenamenti nel dōjō si portano attacchi predeterminati, ma ciò non significa che non si sia in grado di rispondere ad un attacco improvviso portato in maniera diversa. Il maestro Ueshiba, per esempio, insegnava che lo shomenuchi (colpo fendente diretto alla testa) rappresenta l’attacco in cui l’energia dell’avversario viene direttamente dal lato frontale, e che potrebbe anche essere portato con una lancia, con una spada, con un coltello o con un calcio, quindi non si tratta semplicemente di un fendente portato alla fronte col te-gatana (bordo esterno della mano). Durante l’allena­mento bisogna tenere ben presente nella mente tutte queste possibilità, concentrando la pro­pria attenzione su come risponde il pro­prio corpo ad ogni attacco, e come creare linee di forza per adat­tarvi il proprio corpo. Inoltre, bisogna possedere una speciale forma di energia, al fine di creare un ambiente in cui la ci si possa veramente allenare ed essere motivati ad allenarsi. Motivare tutti coloro che si trovano nel dōjō richiede la poten­za del respiro vitale dell’Universo (kokyū).

Si dice che il maestro Ueshiba esempio eseguendo ad esempio suwariwaza ikkyo non lasciasse all’avversario alcuna possibilità di attacco, cioè iniziasse il movimento emanando tutta la propria energia vitale nel modo conosciuto come “colti­vazione del magnetismo”, che consiste nell'avere un’acuta consapevole percezione del respiro vitale dell’universo, che attrae l'attaccante come un pezzo di ferro è istantaneamente attirato da una calamita. Si possono prendere in considerazione tre situazioni: l’attaccante si muove per primo, difensore e attaccante si muo­vono simultaneamente, il difensore si muove per primo. La tecnica in realtà è la stessa in ogni caso e ciò che conta alla fine è lo stato mentale mantenuto. Se si guarda invece soltanto alla forma esteriore, considerando le tecniche solo come una sorta di autodifesa, non si sarà mai in grado di comprenderne fino in fondo il signi­ficato globale. Le tecniche attingono alla energia vitale, non consistono nella sem­plice interazione di due corpi materiali, e l’allenamento è come uno specchio che riflette la sensibilità del praticante verso l’e­nergia vitale. La pulizia dello specchio ne è l'aspetto più importante.

Si distinguono due tipi di “entrate” rispetto all’attacco dell’avversario: omote dalla parte anteriore e ura dalla parte posteriore. Da un punto di vista puramente mate­riale si esegue una tecnica ura quando il compagno ha poggiato sul terreno in modo stabile il proprio piede posteriore sollevando l'anteriore. Quando invece il piede posteriore è in movimento o quando non è ancora ben poggiato, quando il respiro vitale di chi pratica passa liberamente attraverso il compagno, allora la tecnica si esegue omote. Una tale variazione si presentava molto spesso nell’insegnamento del maestro Ueshiba. Il punto importante però, è che bisogna essere in grado di eseguire le tecniche in ogni direzione, su un arco di 360 gradi. Omote ed ura non sono forme o stampi prefissati; essi rappresentano semplicemente l’idea che le tecniche possono variare con la massima libertà.

Il maestro Tada ha posto grande cura nel tenere ben organizzate le tecniche apprese direttamente dal maestro Ueshiba, ed esse formano la base del suo programma di allenamento. Egli si sforza di conservare non solo le tecniche, ma anche la percezione delle condizioni globali e dell’atmosfera del periodo di apprendimento. Ad esempio, visualizza il tragitto per andare al dōjō ad allenarsi con il maestro Ueshiba: “Lascio la mia casa a Jiyugaoka, scendo la collina e prendo la linea tranviaria Toyoko in direzione di Shibuya, dove mi trasferisco sul raccordo ferro­viario Yamate in direzione di Shinjuku; prendo quindi una vettura del collega­mento stradale per Nukebenten (un pic­colo santuario) ed entro nel dōjō, dove appare il maestro Ueshiba ed esegue varie tecniche”. Ripete numerose visualizzazioni di questo tipo nella sua mente. Se si tratta di ikkyo (prima tecnica), vengono incluse tutte le possibili applicazioni, le variazioni e le controtecniche. Questo tipo di allena­mento è stato sempre molto comune fra i praticanti di arti marziali.

Il termine di “allenamento per immagini” ora si usa spesso ovunque, ma in origine questo era un concetto orientale ed è una forma di meditazione. Non ci si può veramente aspettare grandi risultati senza una com­pleta identificazione di ciò che si visua­lizza. Ci si deve mescolare con il pano­rama, solo allora si possono ascoltare i suoni che accompagnavano le tecniche e il respiro del maestro Ueshiba. Si racconta che quando il maestro era sulla cinquantina non insegnasse più le forme del daito ryū come le aveva apprese da Sokaku Takeda: tutte le esperienze della sua vita, fin dalla più lontana infanzia, culminavano in una corrente ininterrotta di nuovi movimenti  “che ribollivano come se sgorgassero da una sorgente”. Si trattava di una forma di invenzione e di scoperta continua. Il maestro diceva che quando si trovava nella sua forma migliore un’im­magine del suo avversario che volava per l’aria gli si presentava davanti agli occhi; l’istante successivo il suo corpo si muoveva automaticamente e l’immagine diventava realtà.

Il maestro Tada cerca sempre di tramandare ai suoi studenti tutto ciò che ricorda del maestro Ueshiba e quanto da lui ha imparato, tiene però a precisare che molte storie e molti aneddoti vengono in realtà “dalla cima della montagna” cosicché c’è il rischio che vengano compresi in modo sbagliato se non ne viene spiegato il contesto. D’altra parte c’è un vecchio detto secondo il quale avere troppe nozioni può essere d’ostacolo ad una vera conoscenza. Quando era discepolo del maestro Ueshiba tentava con tutte le energie di assorbire e digerire ogni suo insegnamento, cercando per anni di copiarlo. In Giappone c’è una espressione, gokui ni kabureru, per descrivere qualcuno che tenta di andare oltre le sue capacità, un modo di fare questo che da sempre è disprezzato dai giapponesi. Pertanto bisognerebbe usare prudenza nel raccontare ai giovani del maestro Ueshiba o nel far loro vedere le pellicole che lo ritraggono. Il maestro Ueshiba infatti rimproverava sempre severamente colui che imitava semplicemente l’esteriorità delle tecniche, con queste parole: “Non dovete imitare soltanto la forma esteriore di ciò che faccio! Concentratevi di più sui vostri elementi fondamentali!”

È ben nota inoltre le frase “aiki è Amore”. In genere si usa il termine amore in senso relativo, come quando si dice: “amo questo, o quello”. Ma il maestro Ueshiba parlava dell’amore in un senso assoluto, come quello della mente dell’Universo. Di conseguenza, mentre si riesce facilmente a comprendere questo amore sul piano intellettuale, se non ci si fonde con l’Universo intero come fece il maestro Ueshiba, di certo non si può comprendere come l’intendeva lui. Forse proprio questa era la “lucidità” mentale ovvero il “diventare lucido” di cui solitamente parlava. I discorsi del maestro Ueshiba si svolgevano tuttavia ad un livello molto elevato e rimangono talvolta di interpretazione non facile.

Circa l’allenamento per coltivare e sviluppare il ki, è importante prendere coscienza delle proprie limitazioni fisiche: è impossibile sollevare oggetti straordinariamente pesanti o correre in un modo estremamente veloce. Quando ci si trova nel regno mentale, tuttavia, nelle fasi iniziali è impossibile conoscere le proprie vere limitazioni e come fare per sviluppare se stessi e raggiungere questo limite. Non si ha altra risorsa se non quella di seguire fedelmente la sapienza del passato, allenarsi con diligenza seguendo i metodi che vengono trasmessi dai maestri.