Murakami Haruki: I salici ciechi e la donna addormentata
Einaudi, 2006

 

Non è facile trovare un filo logico che leghi tra loro questi 24 racconti di Murakami. Pubblicati in Italia per la prima volta nel 2006, hanno conosciuto un buon successo di pubblico e diverse ristampe, forse sull'onda del crescente consenso riscosso dall'autore attraverso i suoi romanzi e specialmente il trasognato 1q84, pubblicato in tutto il mondo in due volumi nel corso del 2011 e 2012, accompagnato e seguito da una vasta eco mediatica.

In realtà questi racconti, scritti in un arco di tempo che va dal 1983 al 2005, sono legati proprio dalla loro incoerenza, che testimonia al di là e al di sopra di ogni tentativo di fredda analisi lo stato di alienazione, di perdita della propria identità, della propria storia  e del legame con la società e con gli altri esseri umani che è il grande problema con cui ognuno di noi si deve confrontare al giorno d'oggi, e spesso senza visibili strade aperte verso una soluzione positiva.

Apparentemente cronache banali di vite banali, questi racconti precipitano sovente il lettore verso il surreale se non il paranormale, e sovente tanto più le vicende sono sorprendenti ed inquietanti quanto più i protagonisti e le loro vite appaiano incolori nelle prime righe o anche nelle prime pagine, amando l'autore lasciar attendere chi legge, cosciente che cresceranno con l'attesa le sue curiosità, le sue ansietà, prima della scoperta cercata e al tempo stesso temuta di quanto non aspettabile e non prevedibile.

Non si pensi con questo che i momenti catartici preludano a drastiche trasformazioni nella vita dei protagonisti: non cambia - di solito - assolutamente nulla nemmeno di fronte agli accadimenti più problematici e più carichi di mistero. O se raramente accade, e potrebbe anche trattarsi di trasformazioni radicali, Murakami le tratta tuttavia come eventi necessari ma in quanto tali banali, indegni di dar loro particolare enfasi.

Murakami si rivela ancora un testimone attento e lucido del dramma del nostro tempo, di cui ricostruisce sapientemente l'essenza, di cui indica lucidamente cause ed effetti, pur astenendosi da ogni analisi quantitativa ed evitando esempi reali e concreti o che possano suonare, apparire, come tali.

Nel racconto che fornisce il titolo al volume il protagonista, prendendosi cura di un adolescente vittima di una patologia che la scienza medica sta seguendo con attenzione ma senza poter approdare a nulla di sostanzialmente positivo - situazioni che ritroveremo sempre più spesso negli altri racconti - si abbandona al filo dei ricordi, al sogno di una donna da lui conosciuta in tempi materialmente non lontani ma avvolti da una misteriosa nebbia mentale che ne attenua il ricordo affidato alla logica ma ne esaspera e ne prolunga nel tempo le sensazioni ricevute e provate sulla pelle.

La ragazza, ricoverata in ospedale per curare una sua patologia congenita, narra quando gli amici si recano a trovarla di una lirica da lei composta, in cui delle piante denominate salici ciechi attraverso il loro polline portano una donna ad addormentarsi senza potersi più risvegliare. Un giovane salirà sulla collina nel tentativo di ridestarla, ma per quanto sull'epilogo di questa vicenda immaginaria Murakami nulla dica di concreto, lascia aperte al lettore solamente le immaginarie vie verso soluzioni negative.

Uno dei protagonisti di questo racconto fornisce traendola apparentemente senza alcuna ragione dai suoi ricordi una interessante chiave di lettura non solo al racconto, non solo all'opera tutta di Murakami, ma ad una delle grandi sindromi di oggi, forse la più preoccupante:

- All'inizio c'è un colonnello che sta raggiungendo un fortino nel West, e c'è un capitano - John Wayne - che gli è andato incontro: è un veterano, mentre il colonnello non conosce ancora bene la situazione da quelle parti. In tutto il territorio gli indiani sono in rivolta.

Mio cugino prese dalla tasca un fazzoletto bianco piegato e si asciugò gli angoli della bocca.

- Quando arrivano al forte, il colonnello si volta verso John Wayne e gli dice: «Ho visto diversi indiani, lungo la strada». Allora John Wayne, con aria distaccata, gli risponde: «Non si preoccupi, signore. Se ha visto degli indiani, è segno che lì non ce ne sono».

 

 

 

Va osservato in conclusione l'interessante affresco sociologico che ci viene proposto dagli scritti di Murakami; un Giappone ancora dipendente per molti aspetti dalle sue tradizioni millenarie di cui ha però troppo spesso dimenticato perfino il senso, proiettato automaticamente e quasi inconsapevolmente ad incontrare schemi societari provenienti da altre realtà, con cui sembra destinato ad amalgamarsi in un mondo in cui si incontra più spesso il peggio che non il meglio del "progresso".

Naturalmente, ogni volta che ci si trova confrontati con un grande affresco, è lecito abbandonarsi all'esame di questo o quel particolare che ci ha colpito in qualche modo. Ma non bisogna mai dimenticare che l'affresco va visto nel suo complesso, nella sua grandiosità. Anche quando è il caso nella sua drammaticità.

 


Il film citato da Murakami è Fort Apache, girato nel 1948 da John Ford, e conosciuto in Italia con il titolo Il massacro di Fort Apache. In realtà la frase attribuita al capitano York sembra non essere stata  pronunciata nel primo incontro, avvenuto durante una festa da ballo, bensì prima del tragico epilogo, quando il capitano sconsiglia di guidare il reparto all'interno di una gola apparentemente priva di insidie ma in realtà gremita da indiani in agguato, e sicuramente presenti proprio perché non visibili. Naturalmente non è richiesta alcuna fedeltà in un'opera letteraria, e Murakami potrebbe anche aver deciso deliberatamente che il suo personaggio dovesse averne un ricordo impreciso.

 

Harumi Murakami è nato a Kyoto nel 1949, figlio del priore di un monastero buddista. Trasferitosi a Tokyo nel 1968 per gli studi universitari attraversa un lungo periodo di inquietidutine, laureandosi in letteratura presso l'università Waseda solamente nel 1975. In seguito aprirà un piano bar, gestito per alcuni anni finché il successo delle sue prime opere letterarie gli consentirà di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Dopo la cosidetta trilogia del ratto scritta tra il 1974 ed il 1982, inizia a viaggiare. Nel 1987 scrive a Roma dove ha soggiornato per qualche tempo Tokyo blues e poi Norvegian wood, il libro che lo farà conoscere improvvisamente in tutto il mondo.