Musashi

Eiji Yoshikawa

BUR, 1994

ISBN 88-17-11467-7, 841 pagine

 

 

La copertina dell'edizione BUR desta qualche perplessità: il torii sullo sfondo, un kendoka moderno (il kendo nasce circa 200 anni dopo la morte di Musashi), l'immancabile sol ponente (ma non era levante?). I giapponesi ci renderanno la pariglia: in copertina dell'Ettore Fieramosca ci metteranno un legionario romano tra i vigneti del Chianti. Meglio la copertina del 1985, col ritratto di Musashi, ma non andiamo troppo per il sottile: sotto con la recensione.

 

Nonostante la mole del volume possa intimorire più di un lettore si tratta di una versione ridotta rispetto all'originale, pubblicata con l'accordo della Harper & Row detentrice dei diritti dell'edizione inglese da cui è tratta quella italiana ripubblicata recentemente nella BUR (ne esistono altre versioni, probabilmente ormai introvabili, anche in altre collane edite dalla Rizzoli, degli anni precedenti).

 

La traduzione purtroppo non è eccellente, va lamentato un eccessivo uso di termini dialettali oppure obsoleti, ma di alcuni fraintendimenti non è facile comprendere le cause: è evidente che "impugnare l'elsa" o "sputare sull'elsa" è qualcosa di incomprensibile, ma traducendo Pier Francesco Paolini dalla versione inglese è possibile sia che abbia ereditato un errore precedente sia che quella versione mantenesse i termini giapponesi e il traduttore abbia di conseguenza confuso tsuba (elsa o guardia della spada) con tsuka (impugnatura o manico). Il manico delle lame giapponesi è di norma strettamente avvolto da una fettuccia di cotone o seta (tsukamaki) ed era uso prima di un combattimento inumidirla per avervi maggiore presa. 

 

Musashi è in definitiva una versione giapponese dei romanzi d'appendice che riscossero immenso successo popolare in Europa nei secoli precedenti e che ebbero il loro massimo e profilico aedo in Alexandre Dumas (basti pensare al ciclo dei Tre moschettieri, o al Conte di Montecristo). Il ciclo di Musashi venne pubblicato per la prima volta a puntate in un inserto (o  appendice) dell'Asahi Shinbun, nel corso di ben cinque anni, dal 1935 al 1939, e riscosse un immediato quanto ininterrotto successo venendo ripubblicato in volume infinite volte e ripetutamente portato sullo schermo.

 

Curioso notare, e una interrogazione su youtube con chiavi di ricerca Musashi e Kojiro lo dimostra immediatamente, come tutte queste trasposizioni su schermo siano in fondo debitrici della prima che abbia conosciuto un vero successo: la saga di Musashi in tre puntate diretta da Hiroshi Inagaki e interpretata dal grande Toshiro Mifune. il duello finale nell'isola di Ganryu con l'unico avversario all'altezza di Musashi, Sasaki Kojiro, viene riproposto ancora oggi in innumerevoli varianti ma queste variazioni sono alla resa dei conti minime. Un po' come accade con ogni nuovo film sui Tre moschettieri: quante volte ed in quante versioni abbiamo visto la scena in cui i moschettieri ed il prode d'Artagnan vengono ricevuti dal re? Non ci stancheremmo mai di vederla, l'attendiamo sempre con ansia ad ogni nuova visione, da una parte speranzosi di vederla diversa, dall'altra rassicurati quando ci rendiamo conto che a parte qualche particolare nei costumi, a parte le fisionomie dei protagonisti, è ancora e sempre la stessa scena. E tutte queste versioni su schermo sono a loro volta debitrici di questo libro, riprendendone sostanzialmente trama e personaggi.

 

Essendo figlio del romanzo d'appendice, detto anche feuilleton in Francia - o forse nipote vista la distanza culturale spaziale e temporale che lo separa dai modelli - anche Musashi è un romanzo a forti tinte; troppo forse: chi è disposto oggigiorno a sopportare in un romanzo tante mirabolanti coincidenze, tante sconvolgenti rivelazioni, tanti colpi di scena? E ripeterli con costanza da metronomo per oltre 800 pagine non li rende certamente più credibili.

 

Ma l'errore è nostro, che tentiamo di ritrovare sulla pagina stampata la figura del grande maestro Miyamoto Musashi già predeterminata nella nostra mente e distruggiamo volontariamente il sogno misurandolo col metro del raziocinio. Lasciamo dunque la parola a Yoshikawa, riprendendo due brani: uno è l'incipit del romanzo, il risveglio tra i cadaveri del giovanissimo Takezo (primo nome di Musashi) dopo la disfatta della battaglia di Sekigahara. L'altro è tratto dall'epilogo, dopo il duello catartico con Kojiro che conclude la prima fase della vita di Musashi e allo stesso tempo il libro. In mezzo quelle 800 ed oltre pagine, in cui forse è saggio perdersi, tralasciando analisi raziocinanti.

 

Takezō giaceva in mezzo ai cadaveri. Ce n'erano a migliaia intorno a lui.

"il mondo è impazzito" pensò, fiocamente. "Un uomo potrebbe pur essere una foglia morta, in balìa del vento d'autunno."

 

Presentatosi al lettore come uno dei tanti, uno qualsiasi tra le centinaia di migliaia di soldati che parteciparono alla terribile battaglia di Sekigahara nel "quindicesimo giorno del nono mese del 1600", Musashi si congeda come lupo solitario, unico della sua specie che sia mai esistito, che torna alla sua vita randagia.

 

La battaglia era finita. Era ora di andar via.

"Addio" disse - a Kojirō, poi ai giudici di gara.

Inchinatosi ancora una volta, corse oltre la battigia e risalì a bordo della barca. Non v'era traccia di sangue sulla sua spada di legno.

 

Ma il libro presenta anche una seconda chiave di lettura, non afferrabile dal lettore occidentale medio, che non conosce a sufficienza la storia giapponese e soprattutto la storia e la filosofia delle arti marziali. Di questo difetto di base soffre purtroppo anche la traduzione, come rivelano numerosi svarioni. Due esempi per tutti: le spade non vengono firmate sulla lama, come detto nel libro da Sasaki Kojiro, ma sul nakago, il codolo dove si innesta il manico. Si dirà che l'errore è ininfluente, ma quando come detto prima i traduttori confondendo sistematicamente la tsuka (manico) con la tsuba (elsa), rendono incomprensibili le descrizioni dei duelli: non ha alcun senso sputare sull'elsa metallica prima del duello, Musashi inumidiva invece la nastratura del manico per avere una presa più salda, pratica ben nota e ben documentata.

 

E' una chiave di accesso al mondo marziale del Giappone. Numerosi episodi e personaggi di immensa popolarità, sia storici che leggendari, sono trasportati di peso nel romanzo; poco importa se siano o no veri o verosimili, non abbiamo prove ad esempio che Musashi o Kojiro abbiano mai incontrato o sfidato Yagyu Mumenori, Muso Gonnosuke ed Ono Tadaoki (leggendari maestri di spada, fondatori deglle scuole Yagyu ryu, Muso Shinto ryu, Ono ha Itto ryu), Takuan Soho (immenso maestro di zen), Hon'ami Koetsu (celebre togishi ossia rettificatore di spade, non lucidatore come interpreta la traduzione). E certamente non era lui il protagonista del famoso episodio in cui la mano del grande uomo di spada viene rivelata nel taglio impeccabile del gambo di un fiore, o di altri in cui ci imbattiamo qua e là.

 

Non ha troppa importanza la coerenza storica: questi episodi - veri o verosimili, falsi o improbabili, frutto di pura fantasia o storicamente documentati - immergono il libro in una atmosfera culturale da cui è piacevole ed utile, come detto, lasciarsi sommergere. Cercateli, sono innumerevoli e spesso sfuggiti alla frettolosa traduzione dall'inglese possono sfuggire anche al lettore distratto; quindi attenzione.

 

Un esempio? Musashi incontra per la prima volta il suo acerrimo nemico Sasaki Kojiro, detto Ganryu, scorgendolo al di là di un fiume, sotto i folti rami di un salice, e pur non essendosi mai visti prima di allora i due si scambiano un enigmatico e minaccioso sorriso. Ebbene: Ganryu andrebbe inteso come forte scuola ma significherebbe secondo alcuni - la lingua giapponese ci ha abituato a convivere con questi apparenti misteri - proprio salice di fiume.

 

P.B.