MusashiLuniMusashi

Eiji Yoshikawa

Luni, 2016

Due volumi, 1276 pagine

 

Come mai una seconda recensione di Musashi, dopo quella pubblicata alcuni anni fa? Perché a differenza dell'altra, una versione ridotta in "sole" 800 pagine circa, questa è integrale, divisa in due volumi e arriva alla ragguardevole cifra di quasi 1300 pagine. L'edizione Luni di cui stiamo parlando, pubblicata recentemente, promette nel bugiardino inserito tra le pagine una maggiore fedeltà al pathos che Yoshikawa ha saputo spargere a piene mani nelle sue pagine.

L'introduzione dice anche qualcosa di più: questa edizione (basata pur sempre sulla traduzione inglese, quindi inevitabilmente più soggetta a errori e omissioni rispetto a una traduzione dal testo originale giapponese) recupera soprattutto le parti che l'autore aveva dedicato alla ricerca spirituale e filosofica del protagonista, che costituiva un elemento essenziale alla comprensione anche della storia. Lo dimostra il fatto che la parte recuperata e finora inedita in Italia costituisce circa il 40% dei due volumi. E' augurabile anche che la nuova traduzione sia esente dalle imperfezioni e inesattezze che abbiamo dovuto segnalare in quella precedente ma per verificare questo occorrerà andare avanti nella lettura e le dimensioni dell'opera, nonché la sua complessità, non lo consentono in tempi brevi.

Come già detto nella prima recensione la storia di Musashi è concepita sulla falsariga dei romanzi d'appendice che ebbero tanta popolarità in occidente, e come quelli venne pubblicata a puntate su un periodico e solo successivamente raccolta in volume. E' probabile che l'editore Rizzoli nel pubblicare l'opera in Italia, negli anni 80 del secolo passato, abbia ritenuto inadatte al pubblico che si appassiona normalmente ai romanzi d'appendice e cerca soprattutto l'azione - spesso noncurante della coerenza e verosimiglianza della trama purché l'azione ci sia - le parti dedicate al tormento interiore di Musashi.

In definitiva questo sospetto o questo timore, seppure non infondato, andava probabilmente o perlomeno secondo lo scrivente messo da parte. La mole del volume scoraggiò ugualmente molti lettori, non era ancora in auge la moda letteraria dei testi dilaganti oltre le 1000 pagine, quelli che affollano ora gli scaffali riservati ai best seller in ogni libreria, in ogni parte del mondo. Ma anche i mercatini dell'usato, ove vengono offerti a prezzi risibili ma li ritrovi sempre là a distanza di mesi e anni. Lo stesso recensore si trovò all'epoca a ricevere in regalo una copia del libro lasciata a metà dal primo acquirente, che non se l'era sentita di arrivare fino in fondo. La riduzione del testo in sostanza non ottenne l'effetto di attirare la massa dei lettori,.

Ottenne sicuramente quello di non attirare l'interesse di chi cercava qualcosa di più, in quanto non c'era. Pensando di sottrarre al pubblico il fastidio, ma per qualcuno sarebbe stato un piacere, di affrontare riflessioni psicologiche e morali che il pubblico occidentale normalmente non è portato a cercare nel romanzo storico, lo si è evirato.

Ma occorre parlare anche della traduzione: non è più opera della stessa mano. Fino a che punto una nuova traduzione può avere importanza per il lettore? La storia è pur sempre la stessa. Sarà bene spiegarlo con un esempio

Con questa frase iniziava l'edizione Rizzoli:

Takezō giaceva in mezzo ai cadaveri. Ce n'erano a migliaia intorno a lui.

"Il mondo è impazzito" pensò, fiocamente. "Un uomo potrebbe pur essere una foglia morta, in balìa del vento d'autunno."

Questo invece l'incipit della versione del 2016, nella traduzione di Silvia Galimberti:

Takezō giaceva in mezzo ai cadaveri. Intorno a lui se ne contavano a migliaia

"Il mondo è impazzito" pensò turbato. "L'uomo è come una foglia secca in balìa della brezza d'autunno."

 

Takezō quindi pensa fiocamente nella prima interpretazione; pensa turbato nella seconda. Un uomo potrebbe essere.... L'uomo è.  In balia del vento... in balia della brezza.

Non sappiamo naturalmente quale delle due versioni sia più fedele al pensiero di Yoshikawa; non sappiamo nemmeno, a dirla tutta, se partono da un testo rispettoso del senso originario o se Charles Terry, che tradusse dal giapponese all'inglese, sia incorso a sua volta in fraintendimenti,  se abbia talvolta tradito il senso originario pur nel tentativo di renderne lo spirito oltre che la lettera.

E alla resa dei conti non possiamo nemmeno sapere se Yoshikawa in questa opera abbia potuto realmente interpretare il pensiero di Miyamoto Musashi, il più grande guerriero dell'epopea samurai, e dare il giusto rilievo alle sue imprese materiali e al suo cammino spirituale. Certamente guidandoci  in questa nostra ricerca, anche se meramente letteraria, Yoshikawa ci aiuta a interpretare il mistero di noi stessi: il mistero che ogni essere umano deve risolvere per poter affrontare ad armi pari il suo destino.

Qualche cenno sintetico sul percorso di vita di Miyamoto Musashi, rinviando per un approfondimento all'articolo indicato dal link appena indicato, pubblicato ugualmente su musubi.it.

Samurai di origini incerte ma comunque di basso rango e dal carattere inquieto, Takezô, che solo più tardi assunse il nome di Musashi, combatté il suo primo duello all'età di 13 anni, uccidendo un samurai di passaggio nel suo villaggio che aveva sfidato chiunque avesse l'ardire di affrontarlo. Partecipò poi ancora adolescente alla grande battaglia di Sekigahara nell'ottobre del 1600 (il libro parla però di nono mese) nelle file dell'armata dell'ovest che ne uscì disfatta. Ed è qui che inizia la narrazione di Yoshikawa.

Desideroso di perfezionarsi nell'arte della spada errò per molti anni da una parte all'altra del Giappone, affrontando oltre sessanta duelli senza essere mai sconfitto. All'età di circa 32 anni affrontò su autorizzazione del casato Hosokawa di Higo il maestro d'armi Sasaki Kojiro, uccidendolo col suo bokken di legno. Arma con cui aveva affrontato, contro le lame degli avversari, la quasi totalità dei suoi scontri. Fu questo il suo ultimo duello.

Sul seguito del suo percorso le notizie sono incerte. Entrò finalmente al servizio degli Hosokawa , dedicandosi alla ricerca interiore e alla produzione artistica oltre che al perfezionamento dell'arte della spada. Chiese congedo sentendo avvicinarsi la morte, per ritirarsi nella caverna Reigandô a stilare il suo testamento spirituale: il Gorin no sho, Libro dei Cinque Anelli.

 

TsubaTsukaPs: Questa seconda edizione toglie allo scrivente un piccola - non piccola - curiosità: appare più frequente il sistematico errore di confondere la tsuba della spada (elsa o guardia) con la tsuka (impugnatura).


Leggiamo quindi che Gion sputa sull'elsa; si usava farlo invece sull'intreccio in tessuto della tsuka, per rendere più salda la presa. Non ha alcun senso al contrario inumidire la tsuba, in metallo e che non deve essere a contatto con la mano del combattente..

O leggiamo più avanti che Musashi impugna saldamente l'elsa. A questo punto diremmo che l'errore è del traduttore della versione Kodansha in inglese da cui sono tratte entrambe le edizioni italiane.

Altri errori nella resa, presumibilmente già presenti nella versione inglese, sottraggono qua e là utili informazioni; si parla frequentemente per esempio della rendita dei samurai al servizio dello shogun o di qualche feudatario quantificandola in staia, antica misura italiana derivata dal sextarius e variata col tempo nelle differenti regioni italiane, andando dai 20 agli 80 litri circa. Sarebbe stato meglio lasciare la parola originaria, koku, chiarendone il significato in nota.

KobanCorrispondente a quasi 300 litri, e quindi molto più vicina al moggio che allo staio, era la quantità di riso corrispondente al fabbisogno annuo di una persona. Un daimyo con una rendita di 50.000 koku di conseguenza possedeva teoricamente  il necessario per tenere al suo servizio circa 10.000 persone con le relative famiglie. Un samurai all'inizio del suo percorso sociale poteva aspirare invece a una rendita di poche centinaia di koku, pur sempre molto superiore a quella delle altre classi, comunque necessaria in quanto gli erano interdetti altri lavori.

Nella immagine la moneta in oro del valori di un ryo e chiamata koban, inizialmente corrispondente a un koku. In seguito ci furono vari fenomeni inflazionistici e Papinot (Historical and Geographical Dictionary of Japan, 1906) riporta che in tarda epoca Edo un koku corrispondeva a più di 5 ryo.

Tornando agli aspetti legati alle arti marziali: si legge a p. 209 della edizione Rizzoli che, affrontando Musashi; Kimura "succhiando saliva, vibrò un fendente".  A p. 272 della edizione Luni invece molto più correttamente "inspirando aria, vibrò un fendente". Alcuni concluderanno che questa resa del testo originario (di cui non disponiamo per un controllo) è finalmente giusta.

Temo di no: qualunque adepto che abbia superato il primo apprendistato dovrebbe sapere, e tenere sempre ben presente, che durante un attacco si espira, essendo oltre che scorretto quasi materialmente impossibile inspirare. Ove si dimostra che anche di fronte alle pagine di un libro, manipolato da più parti ma pur sempre allo scopo positivo di renderlo più disponibile e comprensibile, non è possibile allentare la guardia. Chi aspira ad allinearsi all'etica del guerriero deve essere sempre pronto a sé stesso. Altrimenti? La morte.