Indice articoli

Akira Kurosawa: Dodes'ka-den
1970
Zushi Yoshitaka, Junzaburo Ban, Hisashi Igawa e altri

Si è detto che è un film difficile, e sicuramente lo è - come altre opere del maestro - e si è detto anche che non è riuscito bene, e forse è vero anche questo. Sicuramente è una testimonianza che nessuno può ignorare, perché segna una drammatica svolta nella vita e nella carriera di Akira Kurosawa.

Fino ad allora osannato da pubblico e critica, aveva già conosciuto con Barbarossa il suo primo bruciante scacco. Dodes'ka-den doveva essere l'opera del suo riscatto e fu invece quella che sembrò affossarne definitivamente le ambizioni e forse addirittura la vita.

Come sappiamo Kurosawa seppe risorgere dalle sue ceneri, e gli dobbiamo un esame attento e rispettoso di questo suo momento artistico. Non sarebbe del resto la prima volta che l'opera di un l'artista visionario ed in anticipo sui tempi viene compresa solo a distanza di molti anni, e rivalutata dai posteri dopo essere stata stroncata dai miopi contemporanei.

Rokuchan (Sestino, volendo tradurre maccheronicamente ma rispettando il senso) è il personaggio più rappresentativo di Dodes'ka-den, pur non potendolo, nel contesto di un'opera corale, identificarlo nel protagonista assoluto.

E' un giovane che vive solo con la madre, in una squallida casupola in una ancora più squallida bidonville circondata da cumuli senza fine di spazzatura.

Una ambientazione che sembrava forse troppo forte, e troppo irreale, nei tempi cronologicamente e forse ideologicamente lontani in cui Kurosawa la compose,

Era la fine degli anni 60 e la base era una serie di racconti di Shugoro Yamamoto cui collaborarono i membri del club dei "quattro moschettieri" che tentavano assieme di affrancarsi dalla schiavitù delle case di produzione: Masaki Kobayashi, Kon Ichikawa, Keisuke Kinoshita e naturalmente Akira Kurosawa. La musica è di un altro artista che seppe tornare prepotentemente alla ribalta: firmò nel 1985 la colonna sonora di Ran: Toru Takemitsu.

A distanza di 40 anni, quelle immagini che allora sembrarono fuori del loro tempo, tempo di "miracoli economici" e di compiaciuto senso di avere completato la ricostruzione post-bellica, che aveva lasciato profonde ferite sia nei vinti che nei vincitori, sembrano di raccapricciante attualità: che siano i mezzi di comunicazione o la torre di babele di internet a metterci sotto gli occhi quotidianamente le periferie e gli immondenzai, che spesso coincidono, delle megalopoli sud-americane asiatiche od africane; o che ce le ritroviamo direttamente davanti agli occhi - se veramente vogliamo aprirli - nelle nostre "civili" metropoli europee.

Rokuchan ha da tempo perduto il senno, o forse non l'ha mai avuto: le pareti della sua stamberga sono tappezzate di ingenui disegni di treni, la sua irrefrenabile passione, ed ovviamente il suo "lavoro" è legato al mondo dei treni.

Ogni mattina si prepara di tutto punto, recita le preghiere assieme alla madre e si reca al lavoro. Lavoro del tutto immaginario che consiste nella scrupolosa manutenzione di una inesistente locomotiva, su cui infine "sale" per percorrere senza sosta durante tutto il giorno i fangosi sentieri della bidonville, scandendo incessantemente dodeskaden, dodeskaden... onomatopea che ricorda il rumore di un treno sulle rotaie.

Le sue espressioni, il suo stropicciato vestito sotto misura, i suoi guanti, le sue movenze a scatti e le sue mimiche al momento di interagire con oggetti esistenti solo nella sua fantasia ricordano- e dubitiamo che sia un caso - chi aveva saputo sferzare, accompagnando con un sorriso le sue impietose denunce, le illusioni della civilità occidentale.

Il grande, immortale, Charlie Chaplin.












Verrebbe da dire che mancano solo il cappello ed il bastone, ma non sorprendetevi se li ritroveremo più avanti. Basta avere pazienza...


Il film ricorda molto nella assenza di una trama vera e propria una precedente opera di Kurosawa, I bassifondi, che era uscita nel 1957 e che non destò particolare interesse né presso il pubblico né presso la critica, pur essendo in quel momento il regista all'apice del suo successo: non si era ancora spenta l'eco mondiale suscitata da Il trono di sangue e anche la sua prova successiva, La fortezza nascosta, riscosse un lusinghiero successo. Diede poi lo spunto a George Lucas circa venti anni dopo per la saga di Guerre Stellari, uno dei più grandi successi della storia del cinema.

Questa insistenza di Kurosawa, condivisa evidentemente dagli altri artisti con cui condivideva il tentativo di affrancarsi da una logica commerciale, lascia pensare che ci fosse in lui la sensazione di non essere riuscito a trasmettere il messaggio, ed avere quindi il dovere di riproporlo.

Il tentativo fu fallimentare. Probabilmente perché il messaggio era troppo duro, diretto: un pugno allo stomaco, come si suol dire, indirizzato volutamente contro lo spettatore.

La mancanza di un filo conduttore che pure disorienta passa infatti in secondo luogo di fronte ad una seconda mancanza, sicuramente voluta e probabilmente necessaria ma che il pubblico non riuscì ad accettare: la mancanza assoluta di una morale nella vicenda, positiva o negativa che sia.

Alcuni dei protagonisti sono di una malvagità senza limiti, alcuni semplicemente sciocchi ma le loro azioni non hanno motivazioni.

Il personaggio di un bambino (Hiroyuki Kawase) che mantiene il padre chiedendo l'elemosina rappresenta evidentemente l'innocenza, ma una innocenza che non varrà a salvarlo anzi lo lega alla perdizione e lo condurrà alla morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Perfino l'unico personaggio decisamente positivo, il signor Tamba (Atsushi Watanabe), capace di annullare con la sua imperturbabilità gli istinti aggressivi di un uomo armato di spada in preda ad una crisi di nervi, agisce seguendo linee di condotta che non ci è dato di comprendere e pertanto nemmeno di condividere.

Il messaggio incessantemente ripetuto da Kurosawa in tutte le sue opere è comunque sempre lo stesso, che sia esplicitamente, didascalicamente, lucidamente esposto o che rimanga tra le righe: l'essere umano si deve continuamente interrogare sulle ragioni della sua esistenza e sui fini delle sue azioni, rinunciando al superfluo per badare all'essenziale. Quando dimentica di porsi queste domande, o non ha il coraggio di porsele, non è più un essere umano.

Eppure in Dodes'ka-den Kurosawa ci rappresenta persone che non hanno nulla, pertanto teroricamente libere di pensare ed agire senza alcun vincolo. Evidentemente sono stati liberati dal superfluo ma senza un preciso intervento della loro volontà, e subiscono la loro situazione come una ingiustizia ed una tragedia, incapaci di coglierla come un'opportunità.

O al massimo si limitano a crogiolarvisi, accettando l'abbandono di ogni inibizione e di ogni vincolo come merce di scambio, sufficiente a ripagare la perdita del benessere materiale o perlomeno ad anestetizzarla, e a dare la licenza di offendere il prossimo per ripagarsi delle offese subite dalla vita. Come la megera vistosamente truccata che getta deliberatamente gli avanzi della cucina nella spazzatura piuttosto che darli al bambino che li chiede in elemosina (Michiko Araki).

Certamente è necessario accettare questa denuncia di Kurosawa: è evidente che si tratta di una denuncia doverosa e cui riteneva indispensabile insistere. Rimane la sensazione che l'artista stesso sia rimasto travolto dal suo fondamentale pessimismo verso la natura umana, ed abbia infine calcato troppo la mano dando la sensazione di annunciare un destino inevitabile più che mettere in guardia da un rischio reale e grave ma a cui ci si può e ci si deve comunque sottrarre.

Accettiamo questo momento del percorso artistico di Kurosawa, ma sicuramente il lascito che dobbiamo cogliere è quello dell'opera con cui prende purtroppo congedo da noi, Madadayo. Il professore Uchida, costretto a vivere in una stamberga e privo di tutto, come i personaggi di Dodes'ka-den, riesce al contrario a trovare, nonostante i disagi materiali anzi forse proprio grazie allo stato di privazione in cui si trova, la serenità dello spirito.


In mancanza di un filo conduttore, o per meglio dire in presenza di un filo sottilissimo che rischia di spezzarsi al tentativo di raccoglierlo, non parliamo poi della inutile pretesa di "metterlo in ordine", sarà meglio presentare una sommaria galleria dei personaggi.

Rokuchan è l'unica persona felice, o perlomeno serena, nel campionario umano che ci presenta Kurosawa. Forse è naturale la sua irresistibile attrazione verso i treni, visto che abita con la madre Okuni (Kin Sugai) accanto alla ferrovia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Di sicuro parte ogni mattina, dopo avere recitato le preghiere assieme alla madre, per la sua routine di lavoro, che prevede secondo lui otto corse la mattina ed otto il pomeriggio.

E altrettanto sicuramente le fa: dopo avere accuratamente verificato e ripulito una immaginaria locomotiva, sale "a bordo" del convoglio e si avvia.

Scandendo instancabilmente il suo ritornello "Dodes'ka-den, dodes'ka-den... sfreccia in mezzo agli immensi cumuli di immondizia, indifferente agli schiamazzi e ai lanci di pietre che accompagnano ogni suo passaggio.

 

 

 

 

 

 

 

L'incauto pittore che ha avuto la malaugurata idea di mettersi proprio sui "binari" per immortalare sulla tavolozza chissà quali indimenticabili scenari si becca da lui una bella ripassata, dopo essere riuscito appena in extremis a sottrarre sé stesso, tavolozza e cavalletto all'impatto del "treno", che Rokuchan sta tentando disperatamente quanto invano di arrestare in tempo.

Rokuchan non riesce a capire come mai certa gente sia così incosciente: che gli è venuto in mente di andarsi a mettere proprio in mezzo ai binari? E non l'ha sentita la sirena? La ripassata è anche poco...

 

 

 

 

 

 

Ma bene o male anche questa è passata, e alla fine della intensa giornata, a notte ormai fonda, Rokuchan rientra al "deposito".

Da qui dopo una ultima spolverata e una pacca affettuosa alla sua adorata locomotiva, può tornare a casa dalla madre, presumibilmente a sognare e pregustare il prossimo giorno di lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il piccolo mendicante mantiene il padre nullafacente chiedendo incessantemente l'elemosina e ritirando gli immondi scarti dei ristoranti

Li porta poi al genitore nella loro "abitazione": la carcassa di una vecchia automobile, cucina, sbriga le faccende ordinarie, e intanto ascolta le fantasticherie del padre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sembrerebbe una situazione ignobile, eppure scopriamo sorprendentemente che il padre è forse l'unica persona fra le tante che conosceremo ad avere sentimenti nobili, sia pure assolutamente incapace di attivarsi per rendere concreti i suoi sogni o almeno dare una possibilità al figlio se a lui è mancata.

Il sogno ricorrente è quello di avere una vera casa, e si ripete ormai incessantemente, anche ad occhi aperti.

Ma questo simulacro irreale ed irrealistico lo appaga, rendendolo ancora più incapace di vivere la vita reale.

 

 

 

 

 

 

Sarà proprio lui a causare la morte del figlio, insistendo per mangiare del pesce tossico nonostante l'avvertenza di bollirlo accuratamente che era stata data al piccolo.


Il signor Tanba come abbiamo detto sembra impermeabile alla atmosfera nefasta che permea la baraccopoli. Non manca mai di essere vicino a chi soffre, fino al punto da fornire un veleno mortale ad un amico stanco della vita che intende farla finita (Kamatari Fujiwara).

Naturalmente verrà insultato e malmenato quando l'amico, dopo averci ripensato in extremis rimproverandolo di averlo mandato a morte, scopre di avere preso in realtà solo un blando purgativo.

Nemmeno quando un ladro penetra di notte nella sua abitazione Tamba si scompone più gli tanto.

Lo prega di lasciare la cassetta dei ferri che sta portando via e gli indica dove si trova il denaro, pregandolo di tornare tranquillamente quando ne ha ancora bisogno, gliene metterà da parte dell'altro.

 

 

 

Ma quando il ladro viene arrestato, e portato da lui, si rifiuta di ammetterlo e dichiara di non averlo mai visto in vita sua. La ragione non è chiara: il ladro vorrebbe solo la conferma che il danaro non è stato rubato ma preso con il permesso del proprietario.

Negando tutto Tamba senza ragione lo mette ancora di più nei guai, con la provenienza del denaro sospetto ancora tutta da spiegare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Akemi Negishi interpreta il ruolo di una distinta signora che nello sfacelo generale, nel degrado materiale e morale che la circonda, cerca di conservare a tutti i costi perlomeno una certa dignità formale, e di mantenere un buon aspetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I coniugi Kawaguchi (Kunie Tanaka e Jitsuko Yoshimuda) e i coniugi Masuda (Hisashi Igawa e Hideko Hokiyama) formano due strane coppie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' chiaro che le figure predominanti sono le due donne, sfacciate e ciniche, che si scambiano e riprendono disinvoltamente i mariti, del resto assolutamente intercambiabili nella loro nullità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il gruppetto di donne che si riunisce intorno alla fontana, osserva tutto, commenta tutto, e fornisce una sorta di commento corale, falsamente stupito, falsamente moralistico, fondamentalmente cinico, alle commedie o tragedie umane cui assiste.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il signor Shiwa infine (Junzaburo Ban). Si scopre essere il possessore del cappello e del bastone presi in prestito da Charlie Chaplin.

E' un distinto impiegato, per sua sfortuna tormentato da irrefrenabili tic nervosi che lo colgono nei momenti meno opportuni, ne deturpano i lineamenti e intimoriscono chiunque si trovi nei paraggi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ha invitato nella sua stamberga, e non sapremo mai come si è ridotto a vivere in un posto del genere, alcuni colleghi che gli dimostrano visibilmente rispetto e stima.

Vengono scortesemente strapazzati dalla signora Shiwa (Kiyoko Tange), che lo spettatore avrà già classificato in alcune scene precedenti come spregevole megera.

Eppure il signor Shiwa, pur dichiarandosi dispiaciuto che si sia dimostrata così sgarbata, sente il bisogno di renderle pubblico omaggio. Solo lui sa quanto gli sia stata preziosa l'assistenza di sua moglie, con quanto affetto gli sia sempre stata vicina e gli abbia permesso di sopravvivere ad una vita di stenti.

Abbiamo tralasciato altre storie ed altri personaggi: sarebbe comunque presuntuoso cercare di riassumere e semplificare tutte le storie, spesso complesse e non facilmente decifrabili anche quando brevi e solo accennate, che danno vita all'opera. Nulla può sostituire la visione diretta ed integrale e mai come nel caso di questo film.

Una nota finale: Kurosawa si è costantemente servito nel corso di tuttta la sua carriera di alcuni interpreti, i più noti tra i quali sono Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai e Takashi Shimura tra gli uomini, Kyogo Kagawa nei ruoli femminili.

Qui per la prima volta utilizza solamente attori nuovi, che non avevano mai prima lavorato con lui, o perlomeno non in ruoli tali da attirare l'attenzione sopra di essi, e di cui non si servirà più in futuro. Forse un modo per attirare l'attenzione sulla storia, evitando che il pubblico si lasciasse distogliere dalla notorietà degli interpreti e puntasse soprattutto a coglierne l'interpretazione.

Non va dimenticato del resto che Kurosawa era reduce dalla traumatica rottura con Toshiro Mifune, che durante le lunghissime riprese di Barbarossa aveva resistito alle incessanti richieste di Kurosawa, che intendeva dare al personaggio da lui interpretato connotati negativi, facendone invece malgrado le intenzioni del regista una figura carismatica quanto positiva.

Va detto che se Dodes'ka-den fu un clamoroso fiasco, nemmeno Barbarossa ottenne grande successo. Difficile dire quale dei due maestri avesse ragione, forse è più giusto dire che entrambi si ingannarono, caricando le tinte al punto da provocare il rifiuto di gran parte degli spetttatori.

Ovviamente queste considerazioni non vogliono diventare giudizi nei confronti delle due opere. Dodes'ka-den si congeda da noi con l'immagine di Rokuchan che traspare dietro il vetro della porta, al termine di una dura ma appagante giornata di "lavoro".

Rientrato nella sua casupola si accinge a godere del meritato riposo, sognando probabilmente un treno.