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Kon Ichikawa: L'arpa Birmana
(Biruma no tategoto)
1956
Rentaro Mikuni, Shoji Yasui, Tanie Kitabayashi

 

E' sorprendente che un autore prolifico, eclettico e apprezzato come Kon Ichikawa sia conosciuto in occidente, e soprattutto in Italia, praticamente per una sola delle sue tante opere. L'arpa birmana fece scalpore all'epoca della sua uscita sugli schermi europei presentandosi come un caso anomalo nella filmografia nipponica, fino ad allora nota soprattutto per le sue frequenti celebrazioni delle virtù guerriere del popolo giapponese.

Di colpo invece veniva presentata un'opera apertamente pacifista che denunciava gli orrori della guerra e alludeva sia pure molto velatamente alla durezza dell'occupazione giapponese. Si trattava in realtà di una impressione errata dovuta alla mancata conoscenza di tante opere che solo ora stanno emergendo alla portata del pubblico, lo stesso Ichikawa aveva già affrontato il tema in opere precedenti. Fu veramente anomalo il disinteresse che ci fu in seguito verso Ichikawa, uno dei "quattro re" del cinema giapponese, che lasciò durevole impronta di sé con una produzione prolifica che continuò praticamente fino alla morte. Ne riparleremo al termine della recensione, ma prima che il lettore vada avanti sentiamo il dovere di prevenirlo che alcune immagini del film - qui riproposte - possono turbare la sua sensibilità.

Nel luglio 1945, praticamente al termine della seconda guerra mondiale, le truppe giapponesi in Birmania erano sull'orlo del tracollo. Un piccolo reparto, comandato dal capitano Inoue (Rentaro Mikuni) tenta con una lunga marcia tra le selvagge montagne di raggiungere il confine con la Tailandia per sfuggire all'accerchiamento dei reparti anglo australiani e ricongiungersi con l'esercito nipponico.

Inoue è una figura fino ad allora sconosciuta nella filmografia giapponese: un ufficiale che nei modi carismatici lascia pensare ad una discendenza samurai, di uomo destinato al comando, che pure dimostra gentilezza e sensibilità rari in un uomo d'arme chiamato al suo dovere in circostanze tragiche.

Essendosi diplomato alla Scuola Musicale Inoue ha voluto diffondere nel suo reparto l'abitudine al canto e alla musica, e spesso li dirige in coro.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ha stretto un forte legame spirituale col sergente Yasuhiko Mizushima (Shoji Yasui), che si è dimostrato particolarmente sensibile alla musica pur essendone stato fino ad allora completamente digiuno ed è in grado di suonare alla perfezione, e con molte variazioni personali sui temi, l'arpa di tipo birmano (saung) che i soldati hanno fatto costruire.

Solo nelle inquadrature finali verremo a scoprire che la voce narrante è quella di un soldato che si sentiva estraneo a quanto il capitano Inoue ricercava attraverso i cori ed infastidito dalla ricerca musicale di Mizushima.

All'inizio della lunga marcia, durante una sosta nella foresta, Inoue per risollevare il morale dei soldati esausti li incita a cantare. Li ascoltiamo per la prima volta, accompagnati dall'arpa birmana. La canzone è Hanyu no yado, molto popolare in Giappone e che oltre ad essere il ricorrente tema musicale del film costituisce parte integrante della trama. Ichikawa comprendendo l'importanza della musica nell'impianto dell'opera decise di farne in un certo senso la protagonista assoluta, con l'indispensabile ausilio ovviamente del musicista Akira Ikufube responsabile della colonna sonora.

Dopo alcuni giorni di cammino il reparto, a corto di viveri, si ferma presso un villaggio birmano dove pensa di ricevere una accoglienza ostile. Con loro sorpresa vengono invece accolti benevolmente e rifocillati a loro piacimento, e la sera intrattengono gli abitanti con i loro canti. Ma al momento in cui Inoue chiede di ascoltare qualche canto birmano, silenziosamente gli indigeni si alzano ed abbandonano il villaggio. Allarmati i soldati scrutano dalle finestre e si accorgono che nel buio della foresta ci sono movimenti sospetti: il nemico li sta circondando. Si fingono ubriachi per recuperare, cantando e schiamazzando per non  destare sospetti, il carro con le munizioni lasciato all'esterno. Rientrano poi nella capanna e si preparano per il combattimento attendendo in silenzio che Inoue, sciabola sguainata, dia l'ordine dell'attacco: un disperato tentativo di rompere l'accerchiamento.

Ma - un attimo prima - un canto viene a spezzare il silenzio: gli attoniti soldati riconoscono le note di Hanyu no Yado, che le truppe nemiche nascoste nella foresta stanno cantando a loro volta. Mizushima non si trattiene dall'unirsi al coro con la sua arpa, e per qualche ragione che non sanno spiegarsi anche gli altri soldati inziano a cantare. Con i bianchi turbanti che spiccano nella notte, i soldati indiani che compongono il reparto nemico si avvicinano cantando al villaggio, stringendo in pugno le armi ma senza puntarle contro i giapponesi.

 

 

 

 

 

 

 

E' in questo magico e suggestivo modo che il reparto viene informato, in quel remoto villaggio sperduto tra le montagne della Birmania, che il Giappone ha firmato da tre giorni la resa, e la guerra è finita.

Generazioni di spettatori hanno assistito a questa scena, rimanendone invariabilmente colpiti ma quasi sempre senza comprenderne fino in fondo il meccanismo. Basti sapere - sicuramente lo ignoravano e lo ignorano tuttora quasi tutti i giapponesi e nella finzione scenica si suppone che lo ignorino totalmente i soldati -  che Hanyu no yado è in realtà una canzone occidentale, Home sweet home, molto conosciuta nel mondo anglosassone.

Il reparto viene internato in un campo di prigionia, ed Inoue tiene un breve discorso in cui riconoscendo con dolore la sconfitta della patria incita i suoi uomini a preservare la loro vita ed il loro morale, e continuare la loro battaglia scegliendo la vita piuttosto che la morte o l'abbattimento. Occorre sapere infatti che la reazione più "naturale" per molti giapponesi era di considerare la sconfitta come una vergogna inaccettabile, al punto che non solo molti soldati preferirono andare incontro alla morte certa piuttosto che arrendersi, ma alcuni combattenti rifiutarono per anni di riconoscere la realtà ed gettare le armi, continuando a lungo una vana resistenza.

Il più celebre episodio ebbe per protagonista il tenente Hiroo Onoda, che per diversi anni continuò una sua guerra privata nella boscaglia dell'isola di Lubang nelle Filippine, e che viene creduto a torto un caso isolato. Onoda comandava un piccolo reparto infiltrato dietro le linee nemiche, formato da 4 uomini. Ritennero che i volantini lanciati dagli aerei americani per annunciare agli sbandati la fine della guerra fossero solo propaganda, anche perché si continuava ad aprire il fuoco contro di loro.

Il primo uomo del reparto ad arrendersi fu Yuichi Akatsu, dopo essersi allontanato dagli altri ed essere vissuto diversi mesi in solitudine, nel 1950.

Nel 1954 Shiochi Shimada venne ucciso in uno scontro a fuoco con i reparti che davano la caccia agli irriducibili, che in tutti quegli anni non interruppero mai la loro attività di "guerriglia". Solo nel 1972 venne abbattuto anche Kinshichi Kozuka ed Onoda restò solo.

 

 

 

 

Nel 1974 venne raggiunto da Norio Suzuki, che stava compiendo un viaggio intorno al mondo alla ricerca di animali o persone leggendarie, si era sparsa infatti la voce infatti che Onoda fosse ancora vivo nonostante la sua morte presunta fosse stata dichiarata già nel 1959. Suzuki tentò di convincerlo ad arrendersi ma gli venne risposto che solo un ordine superiore l'avrebbe reso possibile. Fu così che l'ex maggiore Taniguchi, lasciando momentaneamente la sua professione di libraio per tornare ad indossare la divisa, nel marzo 1974 diede di persona ad Onoda l'ordine di arrendersi, 29 anni dopo avergli dato l'ordine di missione. Viste le circostanze eccezionali della sua vicenda Onoda non venne perseguito per i suoi atti di guerra e tornò in Giappone, dove tuttavia non fu a suo agio, trovando una nazione sul punto di dimenticare le sue origini e le sue tradizioni e venendo sottoposto personalmente a troppe pressioni mediatiche.

Raggiunse il fratello Tadao in Brasile, dove divenne una persona di riferimento per la comunità giapponese e ricevette onoreficenze dal governo. A partire dagli anni 80 si recò periodicamente in Giappone dove fondò una organizzazione per la riabilitazione dei giovani, e durante una visita a Lubang, dove era rimasto in guerra per quasi 30 anni, fece una donazione alla scuola locale. Nato nel 1922, per quanto si sa è al momento ancora in vita. Ha scritto un libro sulla sua esperienza: "Non mi arrendo", edito in italiano da Mondadori.

E chiudiamo questa parentesi, utile per comprendere l'episodio seguente del film.

 

 

Il capitano Inoue viene informato che un reparto giapponese continua a combattere, asserragliato dentro una caverna a mezza costa su una parete rocciosa, ad una mezza giornata di marcia dal campo di prigionia, e chiede a Mizushima di recarsi a parlare con loro per informarli della resa e convincerli ad arrendersi. La missione è autorizzata dalle forze britanniche, che scortano Mizushima fin dove possibile e gli concedono mezzora di tregua per raggiungere il reparto di irriducibili e parlare con loro. Ma non avrà esito: dominati dalla loro convinzione che la resa sia un'infamia, comandante e soldati rifiutano di arrendersi.

Mizushima insiste, e riesce ad ottenere che i soldati ne discutano, per poi arrivare ad una votazione. Ma sull'onda dell'emotività, senza che Mizushima abbia avuto il tempo per tentare almeno di spiegare, non solo infine rifiutano ma lo insultano e quasi lo aggrediscono.

 

 

Il sergente tenta allora di raggiungere l'imbocco della caverna per chiedere di prolungare la tregua, sventolando una bandiera bianca, ma proprio in quell'attimo termina la breve tregua concessa dal comando inglese, riprende il cannoneggiamento. Si interrompe solo quando dalla inaccessibile caverna non arriva più alcun segno di vita.


Al reparto nessuno ha più avuto sue notizie, ma il capitano Inoue non sa darsi pace e continua le ricerche del sergente, di cui si sente responsabile: ha giurato di ritornare in Giappone con tutti i suoi uomini. Ma nessuno sa dargliene notizia, e la supposizione più sensata è che sia morto durante l'attacco.

Però qualche tempo dopo, ritornando dal campo di lavoro, il reparto incrocia lungo un ponte un monaco con un pappagallo sulla spalla. Sembra proprio Mizushima, ma non risponde alle loro domande e i soldati non possono fermarsi a parlare, vengono costretti dalle guardie a proseguire.

Il film ricostruisce gli avvenimenti con una serie di flashback incrociati, che la logica dello scritto obbliga a trasgredire, ricostruendo cronologicamente quanto successo a Mizushima prima ed al suo reparto poi.

 

Il solo sopravvissuto al  terribile cannoneggiamento inglese era stato proprio Mizushima, scaraventato dallo spostamento d'aria di uno dei primi proiettili in fondo alla caverna dove era relativamente al sicuro. Al suo risveglio, intorno a lui è un'ecatombe.

Trova appena le forze per lasciarsi rotolare a valle dalla imboccatura della caverna, per poi perdere i sensi. Lo ritroverà un bonzo che lo curerà salvandogli la vita .

Per qualche tempo Mizushima si trattiene con lui, ma solo il tempo di rimettersi in forze: sente il dovere di ricongiungersi al reparto. E' in grado di parlare la lingua locale ma non alla perfezione, celandosi sotto le vesti di un bonzo silenzioso invece può passare inosservato. Quindi si appropria delle vesti del suo salvatore e si incammina.

 

 

 

Lungo un'aspra pietraia tra le montagne che sta attraversando troverà ad attenderlo l'orrore della guerra cui pensava di essersi sottratto, e che lo condurrà verso il suo nuovo destino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il percorso è cosparso di cadaveri di soldati giapponesi rimasti insepolti. I birmani, come gli spiegherà poi il bonzo, che non lo ha perso di vista, non usano seppellire i corpi degli invasori.

Mizushima avverte dapprima l'impulso di fuggire, ma sente che non può, e si ferma a ricomporre i loro resti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma il suo calvario è solo iniziato: nell'attraversare una fitta boscaglia, si imbatte di nuovo nei resti di numerosi soldati. Dai loro effetti personali si possono ricostruire i loro sogni spezzati.

Raccoglie quanta più legna può e brucia in una pira i loro corpi, per poi riprendere il suo cammino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giunto sulla sponda di un largo fiume che non sa come attraversare vaga alla ricerca di un guado.

Ma incontra solamente cataste su cataste di cadaveri ammucchiati oscenamente, nella stessa posa in cui li ha colti la morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si arresta e ancora una volta tenta di dare umana sepoltura a quei poveri corpi abbandonati agli uccelli rapaci ed alla corrente del fiume.

Ma l'impresa è troppo grande per le sue forze e soprattutto per il suo animo ormai irrimediabilmente scosso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La temporanea salvezza giunge in barca: è l'impassibile bonzo senza nome.

Non fa nemmeno menzione del furto delle sue vesti da parte di Mizushima, sembra non importargli nemmeno che il suo travestimento profani l'abito talare.

Gli lascia a disposizione la barca e la guida, che lo porterà fino al campo di concentramento dove potrà ricongiungersi con i suoi compagni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mizushima va, ed arriva fino ad un passo dalla meta che ha così testardamente perseguito.

Ma la visione dei suoi camerati morti insepolti non lo lascia. Capisce che non lo lascerà mai. Torna indietro: ha deciso a dedicare la sua vita al recupero delle loro salme, violentando sé stesso fino al punto di non voler nemmeno più vedere i suoi camerati, per non far vacillare la sua decisione.


Inoue e tutti gli uomini del reparto, rimasti senza alcuna notizia sulla sua sorte, non avevano cessato di ricercarlo e l'incontro sul ponte aveva ridestato le loro speranze.

Con l'aiuto di una vecchietta (Tanie Kitabayashi) che ha libero accesso al campo per vendere ai soldati le sue povere mercanzie, cercano di incontrarlo di nuovo.

La ricerca si concluderà solo alla vigilia del loro ritorno in Giappone.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il misterioso incontro sul ponte ha trasmesso ai soldati la stessa ansia del loro comandante e non cessano di escogitare nuovi espedienti - più o meno ingegnosi - per attirare il monaco enigmatico che sentono in qualche modo essere Mizushima.

Si danno i turni per cantare ininterrottamente davanti ai reticolati del campo di prigionia, nella speranza che il loro canto lo attiri, o che gli giunga notizia dagli esterefatti birmani di quello loro strana abitudine e venga attirato a vedere di persona.

 

 

 

 

 

 

 

 

La vecchia birmana conosce anche la storia del pappagallo che il monaco ha sempre su una spalla: è difficile incontrarlo, inutile farsi illusioni, ma è stata proprio lei qualche tempo prima a darglielo, e ne ha uno gemello.

I soldati danno fondo ai loro scarni averi per comprare il secondo pappagallo, e con pazienza infinita  lo addestrano a ripetere queste parole: "Mizushima, torna in Giappone con noi".

Cercheranno poi attraverso la vecchia, che si dimostra persona di buon cuore e non solamente attaccata ai profitti del suo piccolo commercio, di farlo avere al bonzo.

 

 

 

 

 

Anche il suono di un'arpa che si sente di tanto in tanto e suona le "loro" canzoni li sorprende e li attira. Ma si rendono conto che è solo un ragazzo di strada birmano, e che  la sua mano non è chiaramente quella di Mizushima.

Non possono sapere che quel ragazzo si accompagna spesso a Mizushima e da lui ha appreso quelle melodie.

Eppure ogni tanto quelle note arrivano suonate in modo diverso, e da una mano diversa. Una mano inconfondibile...

 

 

 

 

 

 

 

Sembra che il mistero non si possa più svelare: viene annunciato quello che tutti attendevano da tempo, il ritorno in patria. E' forse quella la notizia che smuove l'animo di Mizushima? Di sicuro il messaggio dei suoi compagni gli è arrivato.

Infatti una sera, immediatamente prima del giorno fissato per la partenza, arriva anche la notizia che tutti attendevano: il monaco sta in attesa fuori dai reticolati, con entrambi i pappagalli sulle spalle ed accanto l'orfanello con l'arpa; i soldati si precipitano sul posto.

Ma devono arrestarsi davanti ai reticolati, senza poter comunicare col bonzo: anche un fosso li separa. Perché? Nella inquadrature precedenti abbiamo visto che era possibile avvicinarsi fin quasi a toccare il reticolato. Ichikawa rimarca la volontà di Mizushima di spiegare che due barriere li dividono: non solo le drammatiche circostanze, ma anche una sua esplicita volontà, una sua irrevocabile decisione.

 

Ma a superare ogni barriera ancora una volta è il linguaggio della musica. Mentre i soldati cantano Hanyu no Yado, il ragazzo inizia ad accompagnarli con l'arpa. Il bonzo ascolta in silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nemmeno la sua volontà inflessibile  può reggere all'infinito.

Commosso, afferra l'arpa ed accompagna il canto dei suoi ex compagni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per loro che lo stanno guardando con gli occhi sbarrati, è la conferma che tutti attendevano, è lui Mizushima.

E' assente dal gruppo Inoue, assiste in silenzio da lontano senza mostrare alcuna emozione. Ha già capito ogni cosa, e nel suo cuore ha già dato addio a Mizushima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La gioia incontenibile dei soldati dura solo un attimo. Mizushima al termine della canzone non depone l'arpa: suona Aogeba totoshi, la canzone dell'addio, saluta inchinandosi silenziosamente, volge le spalle e si allontana.

Il destino del reparto è di tornare in patria, unito come è sempre stato durante la terribile guerra. Il suo è un altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La spiegazione del suo gesto arriverà: attraverso la vecchia, Mizushima fa arrivare ad Inoue e ai compagni una lettera e il suo pappagallo, che ha addestrato a ripetere le parole "Non posso tornare in Giappone con voi".

Inoue leggerà  la lettera solo a bordo della nave che sta rimpatriando i soldati, per evitare altri tentativi ingenui, e dolorosi per Mizushima, di sottrarlo al suo dovere. Premettendo che per lui la lettura del messaggio è superflua: ha già compreso, già sa.

Alcuni hanno criticato questa scena, giudicandola inutile, mera ripetizione di quanto lo spettatore ha appena visto. Ma non dimentichiamo che nella finzione scenica i soldati ne sono completamente all'oscuro, quindi una spiegazione era resa necessaria dalla trama. Inoltre, siamo proprio sicuri che tutti abbiano immediatamente compreso il messaggio di Mizushima? Che non ci sia bisogno di ripeterlo?


Trattandosi di un film incentrato soprattutto sulla musica, sembrerebbe inevitabile parlare molto della colonna sonora composta dal maestro Ikufube. Ma in realtà gli appartengono solamente alcuni pezzi, e soprattutto non quelli fondamentali.

Stranamente sembra essere stata pubblicata una sola versione della colonna sonora: quella italiana su disco in vinile edita dalla RCA nel 1958, probabilmente in seguito al successo del film al festival di Venezia del 1957 ove ottenne il premio San Giorgio e numerose menzioni e rimase a lungo in lizza per il Leone d'oro. Ovviamente è introvabile. Elenca 5 pezzi di cui uno intitolato Rosse di sangue le valli e le rocce di Burma accompagna i titoli di testa e quelli di coda. Un altro Il tema della pietà accompagna la lettura della lettera di addio di Mizushima. Entrambi vanno attribuiti a Ikufube. Gli altri temi hanno una storia ben diversa.

 

 

 

 

Coro della pace (Home sweet home - Hanyu no yado)

La musica venne composta  dall'inglese sir Henry Rowley  Bishop, su libretto dell'americano John Howard Payne, per l'operetta Clari, maid of Milan che venne eseguita per la prima volta nel 1823 al Covent Garden di Londra. Tratta del tormentato amore tra il raffinato duca di Vivaldi e la rustica Clari, che indifferente ai preziosi regali del nobile chiede solo di poter tornare alla sua dolce casa. Potete qui ascoltare una breve versione strumentale dal sito del Progetto Gutenberg. Qui invece la versione integrale, eseguita nel 1980 accompagnandosi al piano dal professore Derek Scott. Henry Bishop fu il primo musicista inglese ad essere nominato nobile, su iniziativa della regina Victoria che aveva molto amato questa canzone. Risale all'epoca vittoriana anche la traduzione in giapponese, pubblicata nel 1889 e dovuta a Tadashi Satomi, che potete ascoltare qui in versione strumentale e qui, al minuto 8,49 dalla riedizione del film curata dallo stesso Ichikawa. E' anche il tema dell'incontro tra il sergente O' Rourke ed il figlio che torna a casa in divisa da tenente, in Fort Apache di John Ford, che risale al 1948.

Il testo dell'edizione in inglese:

Home sweet home
1823
John Howard Payne, Henry R. Bishop

Mid pleasures and palaces though we may roam
Be it ever so humble, there's no place like home!
A charm from the skies seems to hallow us there
Which seek thro' the world, is ne'er met elsewhere.


Home! Home!
Sweet, sweet home!
There's no place like home
There's no place like home!
An exile from home splendour dazzles in vain
Oh, give me my lowly thatch'd cottage again!
The birds singing gaily that came at my call
Give me them with the peace of mind dearer than all.


Home! Home!
Sweet, sweet home!
There's no place like home
There's no place like home!

 

Il testo dell'edizione in giapponese

Hanyu no yado
Tadashi Satomi
1889

Hanyu no yado mo waga yado,
Tama no yosoi, urayamaji.
Nodokanari ya, haru no sora,
Hana wa aruji, tori wa tomo.
O, waga yado yo, tanoshi tomo, tanomoshiya.

Fumi yomu mado mo, waga mado,
Ruri no yuka mo, urayamaji.
Kiyoranari ya, aki no yowa,
Tsuki wa aruji, mushi wa tomo.
O, waga mado yo, tanoshi tomo, tanomoshiya

 

Ryoshu
(malinconia del viaggiatore)

Ryoshu, da non confondere con Takuboku ryoshu, è una canzone tradizionale giapponese che tratta dell'eterno tema della solitudine e del rimpianto di chi si trova lontano dalla casa e dagli affetti. Ricorre una sola volta nel film, per quanto sia molto suggestiva. Potete ascoltarla qui.

 

Canzone dell'addio (Aogeba totoshi)

E' il pezzo brevemente suonato da Mizushima al momento di congedarsi per sempre dai suoi compagni. Si tratta di una canzone tradizionale, che potete ascoltare qui in una delle tante versioni, interpretata da un coro scolastico. Infatti viene cantata dagli alunni nel corso della cerimonia di consegna dei diplomi, al momento di dare l'addio ad un mondo per entrare in un altro.

Testo in giapponese

Aogeba totoshi waga shi no on
oshie no niwa nimo haya ikutose
Omoeba ito toshi kono toshituki
Ima koso wakareme iza saraba

Tagaini mutsumishi higoro no on
Wakaruru nochinimo yoyo wasuruna
Miwa tate nawo age yoyo hagemeyo
Imakoso wakareme iza saraba

Asa yuu narenishi manabino mado
Hotaru no tomoshibi tsumu shirayuki
Wasururu mazo naki yuku toshitsuki
Imakoso wakareme iza saraba

 

Traduzione in inglese

How fast time flies, I can't believe wow quiclivy the moments have passed.
The precious years have come and gone too soon, here with you.
I 've learned from you the right way to do what must be done.
Now is the time to say farewell, with an eternally grateful heart.

How close and deep our connection has continued to be.
I will always remember your teaching and carry your wisdom through my life.
And will always throw out my chest and keep my head held high.
Now is the time to say farewell, with an eternally grateful heart.

How hard I worked from dawn to dusk in the classroom with you.
The season when the glowfly shines and the season when the snow piles.
And will never forget all the wonderful things I have learned from you.
Now is the time to say farewell, with an eternally grateful heart.

Altre canzoni rimangono ancora da identificare, la colonna sonora non ne fa alcuna menzione, prima fra tutte quella cantata ininterrottamente dai soldati giapponesi davanti ai reticolati.


Kon Ichikawa (1915-2008) diresse nel corso della sua lunga ed eclettica carriera, iniziata intorno al 1935 come disegnatore di cartoni animati, 89 opere di cui praticamente solo L'arpa birmana è conosciuta in occidente. Scrisse oltre 50 sceneggiature e produsse una decina di film tra cui il purtroppo fallimentare Dodes'ka-den di Akira Kurosawa. Diresse inoltre due opere documentarie, l'autobiografico Ichikawa Kon monogatari del 2006 e Kurosawa, del 2001. Citiamo come curiosità la produzione nel 1967 di Toppo Jijo no botan senso, apparso in Italia come Topo Gigio e la guerra del missile, avente come protagonista il pupazzo nato nel 1958 dall'inventiva di Maria Perego, animato alla giapponese da burattinai nascosti in uno sfondo nero. Apparve prima come personaggio di trasmissioni per bambini nella televisione italiana e divenne poi celebre in tutto il mondo.

La prima opera che portava la firma di Ichikawa fu Musume Dojoji (la ragazza del tempio), un breve cartone animato del 1946 che venne confiscato dalle autorità d'occupazione americane per eccesso di tradizionalismo e non venne mai distribuito nelle sale. La carriera di Ichikawa conobbe una svolta dopo l'incontro ed il matrimonio con Natto Wada (1920-1983), che fu sua stretta collaboratrice fino al momento dell suo ritiro negli anni 60 al termine della produzione di Tokyo Olimpiad, un documentario sui giochi olimpici tenuti in Giappone nel 1964. L'abbandono fu dovuto ad una crisi di sfiducia nei confronti del mondo artistico, considerato dalla Wada ormai privo di tensione morale. Fino a quel momento Ichikawa e Wada avevano firmato assieme quasi tutte le loro sceneggiature.

Il soggetto di Biruma no tategoto deriva da una novella per bambini di Michio Takeyama (1903-1984), insegnante di tedesco che aveva soggiornato in Francia e Germania, pubblicata dapprima a puntate nel 1946 nella rivista letteraria per bambini Akatombo e pochi anni dopo in volume. Conobbe un crescente successo che rimase praticamente l'unico nella carriera di Takeyama. Originariamente il soggetto era stato affidato a Tasaka Tomotaka (1902-1974) ben conosciuto in Giappone per la sua produzione di film bellici, ma per le sue precarie condizioni di salute subentrò infine Ichikawa, che per la sceneggiatura si affidò come di consueto alla moglie Natto. Furono girati due differenti film, rilasciati a poche settimane di distanza l'uno dall'altro, il primo di 63 minuti ed il secondo di 80. La versione internazionale però, quella tuttora disponibile, venne assemblata e ridotta ad un solo film di 116 minuti. Inevitabilmente la manipolazione dell'opera lasciò insoddisfatto Ichikawa, che nel 1985 decise di girare una nuova edizione dell'opera.

I protagonisti furono Koji Ishizaka (Inoue), Kiichi Nakai (Mizushima) e ancora una volta a distanza di quasi 30 anni Tanie Kitabayashi (la vecchia birmana). L'opera conobbe un buon successo di critica e di pubblico in Giappone, ma è praticamente sconosciuta in occidente.

In questo sito potete trovare le recensioni di due sue opere di ambientazione jidai: 47 ronin, una ricostruzione della conosciutissima saga molto accurata sia sotto il profilo storico che sotto quello psicologico, e Dora heita che è invece un'opera di totale fantasia ma rappresenta una situazione molto realistica: un samurai isolato e anticonvenzionale  in lotta contro la corruzione delle istituzioni, utilizzando la spada a malincuore e - sembra suggerire Ichikawa con malizia - in fondo nelle emergenze meno pressanti. Contribuirono alla preparazione dell'opera altri famosi direttori tra cui Akira Kurosawa, ma venne portata sugli schermi soltanto dopo la loro scomparsa, come omaggio postumo. Un'ultima opera di ambientazione gendai da noi recensita, anchessa incentrata sul dramma della seconda guerra mondiale e di alcuni anni posteriore a L'Arpa Birmana, è Nobi.