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Akira Kurosawa: Tora no o fumu otokotachi

1945

Denjiro Okochi, Susumu Fujita, Keniichi Enomoto

 

Girato nel 1945 con mezzi di fortuna, dura infatti meno di un’ora a causa della difficoltà di reperire pellicola, il film è tuttavia estremamente denso e “pieno di ki”. Lo disse il maestro Hideo Kobayashi dopo averlo visto per la prima volta nel 1981 all'Istituto di Cultura Giapponese in Roma: all’epoca ne esisteva in occidente una sola copia, a Parigi, ma anche in Giappone l'opera aveva avuto scarsa diffusione. Narra la fuga attraverso le montagne del principe Miyamoto no Yoshitsune accompagnato da sei fedeli samurai, per sfuggire alla persecuzione del potente shogun Minamoto no Yoritomo: suo fratello, cui fa ombra con la sua fama di invincibile guerriero.

Rimarchevole nel film la prestazione di Keniichi Enomoto, famoso mimo frequentemente utilizzato da Yamamoto Kajiro, il maestro dalla cui ombra Kurosawa stava uscendo allora. Recita magistralmente la parte di un buffo portatore, spezzando col riso la tensione emotiva della vicenda. Gli altri protagonisti sono Denjiro Okochi nelle vesti del carismatico monaco guerriero Benkei, e Susumu Fujita in quelle del principe Yasuie Togashi Saemon no jo che ha il compito di arrestare Yoshitsune. Appare per la prima volta, tra i samurai al seguito di Benkei, l'attore che fino alla sua scomparsa nel 1982 accompagnerà Akira Kurosawa: Takashi Shimura.

La vicenda è riadattata da Kanjinchō, opera del teatro kabuki di Namiki Gohei III, a sua volta derivata da Ataka, rappresentazione di autore sconosciuto del più aristocratico teatro no, che prende il nome dal posto di frontiera ove si svolge l'azione.

La prima rappresentazione del Kanjinchō avvenne nel 1840 e i protagonisti furono Ichikawa Ebizō V (Benkei) e Ichikawa Danjūrō VIII (Togashi).

Viiene rappresentato tuttora, e nella foto (tratta da Wikipedia) vediamo Ichikawa Enō, discendente della dinastia, impersonare Musashibō Benkei.

Questo potrebbe fare pensare ad una scelta lungamente meditata e programmata con cura, ma in realtà l'opera ebbe una nascita travagliata e in un certo senso casuale: Kurosawa aveva scritto la sceneggiatura di Dokkoi kono yari (La lancia rubata).

Era ambientata intorno al 1560 e l'episodio saliente trattava della battaglia di Okehazama in cui l'astro nascente Oda Nobunaga si impose all'attenzione del Giappone. Alla testa di uno sparuto esercito di guerrieri di Owari affrontò le ingenti forze dell'invasore Igakawa Yoshimoto, distruggendole completamente con un attacco temerario, dopo avere incitato i suoi uomini con un discorso che così terminava:

Volete veramente spendere l'intera vita pregando di vivere a lungo? Siamo nati per morire! Chiunque sia con me, venga sul campo di battaglia domani all'alba. Chi non lo è, rimanga semplicemente qui dove si trova, ed assista alla mia vittoria!

Ricevuto l'incarico dei preparativi, Kurosawa si recò assieme ai due protagonisti designati, Okochi ed Enomoto, nella regione di Yamagata ove erano soliti girare film in costume, ma si rese ben presto conto che le condizioni belliche non permettevano un'opera ambiziosa. Era impossibile, tra l'altro, reperire i cavalli necessari per ricostruire una grande battaglia di quell'epoca: erano stati quasi tutti requisiti, ed i pochi rimasti non erano in condizioni tali da poter "recitare" la parte di destrieri da combattimento.

Kurosawa scrisse in tre giorni una nuova sceneggiatura, ricavandola dal Kanjinchō ma ridisegnando la parte di una figura di contorno per adattarla alle caratteristiche di Enomoto che era all'epoca uno degli attori più noti del Giappone ed era comunemente chiamato Enoken (un po' come il nostro Antonio de Curtis, universalmente conosciuto come Toto', cui lo accomuna anche la impagabile mimica facciale). Le riprese sarebbero state effettuate al risparmio, utilizzando come unico set la foresta imperiale che si trovava proprio accanto agli studi di produzione e senza alcuna scena di massa, perché la tradizione riportava che solamente sei samurai accompagnavano il principe Yoshitsune in questa impresa.

La foto seguente mostra il trentacinquenne Akira Kurosawa sul set, mentre impartisce istruzioni ad Okochi e Fujita. E' tratta da Something like an Autobiography, dello stesso Kurosawa, ed. Vintage Books, 1983.

L'abito di scena di Okochi è palesemente ispirato al Kanjinchō ma anche gli atteggiamenti scenici dei vari personaggi, le declamazioni e la musica di accompagnamento richiamano il teatro kabuki.

Strano a dirsi, fu proprio questo adattamento a causare in seguito l'oscuramento dell'opera.

Con le autorità di occupazione americana non ci furono particolari problemi, per quanto fossero molto attente nel controllare ogni tentativo di esaltare lo spirito nazionalista o guerriero del Giappone. Un gruppo di alti ufficiali intervenne addirittura ad assistere durante alcune riprese, facendo osservazioni molto pertinenti e rispettose. Ne faceva parte, ma questo Kurosawa lo venne a sapere solo alcuni anni dopo, il grande regista John Ford che gli inviò anche un biglietto di congratulazioni, peraltro mai consegnato all'interessato.

Sorprendentemente fu la censura giapponese, che già tanti problemi  aveva creato in precedenza a Kurosawa, convinto di essersene finalmente liberato, a bloccare per diversi anni la distribuzione del film. Di fatto è rimasto praticamente inedito fino ai giorni nostri.

Per quanto non ancora aboliti, gli uffici della censura avevano perso praticamente ogni autorità ed avevano dovuto traslocare altrove in condizioni veramente disagiate, tanto che Kurosawa al vederlo non seppe trattenere un istintivo moto di simpatia. Che gli passò ben presto. Negli anni passati aveva avuto seri problemi con la censura, ma i tempi erano cambiati. Il dirigente Iwao Mori gli aveva sempre raccomandato di mantenere il controllo durante le audizioni, sussurandogli "Calmo! calmo..." , ma questa volta fu lui stesso a suggerirgli "Gli dica esattamente cosa pensa di loro".

Gli stolidi burocrati con cui dovette ancora una volta confrontarsi Kurosawa non riuscivano a rendersi conto di quanto fossero cambiati i tempi, e per quanto ridotti a dar fuoco agli incartamenti per riscaldare il gelido ufficio ove erano confinati, non avevano perso nulla della loro arroganza. Criticarono immediatamente l'arroganza di Kurosawa nell'avere preso a modello il Kanjinchō - si sa che facilmente vediamo proiettati negli altri i nostri difetti - e soprattutto l'affronto di avere introdotto in un'opera classica un personaggio comico, per giunta interpretato da quello che abbiamo essere detto l'equivalente del nostro Toto'.

Kurosawa, che era famoso per i repentini cambi di colorazione della sua epidermide nei momenti d'ira - fenomeno che aveva suscitato l'attenzione di numerosi operatori di macchina che lamentavano l'impossibilità di renderne l'effetto in bianco in nero -  ebbe la soddisfazione di vedere ripetersi il fenomeno nel viso dei suoi interlocutori. Disse infatti veramente, e senza perifrasi, cosa pensava di loro.

Sfortunatamente, non sappiamo se fu una dimenticanza voluta ma è noto che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca - gli uffici di censura non trasmisero mai al Quartier Generale delle autorità di occupazione la scheda del film, che si trovò ipso facto ad essere fuorilegge e venne ritirato dalla circolazione. Fu per caso tre anni dopo che un funzionario del Quartier Generale prese visione del film e non vedendo alcuna ragione per proibirne la circolazione lo mise finalmente in regola. Ma il momento era passato, lo stesso Kurosawa aveva già girato altri 5 film e cominciava ad essere riconosciuto come un maestro dell'arte, tuttavia Tora no ofumu otokotachi ha continuato da allora ad essere un'opera che "cammina sulla coda della tigre", conosciuta ed ammirata solo da una ristrettissima minoranza.


 

Sul finire del XII secolo la lunga lotta per il potere tra le potenti famiglie dei Minamoto (chiamati Genji in letteratura) e Taira (Heike) sembra concludersi a favore di questi ultimi. Al massacro dei Minamoto scampano solo due fratellastri ancora giovanissimi: Yoritomo e Yoshitsune. Separati durante la fuga, si incontreranno di nuovo ormai adulti ed insieme condurranno una guerra spietata contro i Taira, in cui Yoritomo si sarebbe distinto per le grandi doti di stratega e Yoshitsune per quelle di invincibile guerriero.

Una fama che offuscava quella del fratello e suscitava il rancore di molti cortigiani. Sconfitti definitivamente i Taira al termine della guerra Gempei, era inevitabile una resa dei conti. La leggenda si intreccia con gli avvenimenti storici, ed è difficile decifrare ove terminano questi e comincia quella.

Il Kanjinchō narra uno degli episodi più conosciuti: Yoshitsune, accompagnato da un pugno di samurai al comando del fedelissimo Musashibo Benkei, tenta di passare il confine per sottrarsi alla caccia spietata dei suoi nemici.

Benkei, celeberrimo yamabushi (alla lettera guerriero della montagna, ma il significato va reso con monaco guerriero) decide di eludere la sorveglianza travestendo da monaci anche i suoi seguaci.

Pretenderà di essere a capo di una delegazione ufficiale inviata oltre il confine per raccogliere donazioni per la ricostruzione di un tempio (Kanjinchō significa appunto Lista di sottoscrizione).

Il posto di frontiera, comandato dal principe Togashi, è ben presidiato ed è stato avvertito sia del loro arrivo che del loro travestimento. Tuttavia Benkei mantiene un incredibile sangue freddo durante l'interrogatorio, e Togashi ammirato finge di credere alle loro credenziali e li lascia passare.

Qui si arresta il Kanjinchō, ma la caccia a Yoshitsune non si arrestò al confine: un primo tentativo era già stato infruttuoso, era caduto nella rete la guardia del corpo di Yoshitsune, Noda, che ne aveva indossato la rossa armatura per attrarre su di sé i nemici. Si dice abbia ucciso 23 guerrieri prima di cadere trafitto dalle frecce.

La lunga mano di Yoritomo infine raggiunse il fratello. L'edificio ove si era rifugiato venne accerchiato, Benkei oppose un'ultima disperata resistenza difendendo il ponte del castello di Koromogawa,  per dargli il tempo di sottrarsi alla cattura compiendo seppuku.

Yoshitsune aveva iniziato la guerra contro i Taira appena adolescente e aveva al momento della sua morte ventotto anni. Viene considerato il più grande guerriero della storia del Giappone.

 


 

Denjiro Okochi aveva già ricoperto un importante ruolo nel primo film diretto da Kurosawa, Sugata Sanshiro (1942). Impersonava il grande maestro Jigoro kano, fondatore del judo, chiamato però nel film Shogoro Yano.

Nelle vesti di Benkei fornisce una interpretazione misurata ma carismatica, rendendo appieno l'immagine di un uomo chiamato dal destino a prove impervie, nel corso delle quali riesce spesso tuttavia ad accennare un sorriso.

Nella foto si scorge il tokin, tipico cappello nero di piccole dimensioni, usato dai monaci anche come bicchiere. Si dice sia stato introdotto dall'immancabile tengu (folletto delle montagne)

 

 

 

 

 

Benkei era noto per la gigantesca statura e la forza sovrumana, che gli consentiva di maneggiare con disinvoltura una lancia che un uomo normale nemmeno sarebbe riuscito a sollevare.

Dokochi era costituzionalmente inadatto a ricoprire un ruolo del genere pertanto Kurosawa sdoppiò il personaggio inserendo nel gruppetto dei cinque samurai al seguito un gigantesco caratterista, che qui sembra ancora  più colossale confrontandolo con l'esile Enomoto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Keniichi Enomoto, scomparso nel 1970, iniziò la sua carriera come attore teatrale, e ad inizio degli anni 30 aveva fondato una sua compagnia, alternando vari generi fino ad affermarsi finalmente in quello comico. Entrato in seguito nella casa cinematografica PCL, poi diventata Toho, interpretò vari personaggi storici, tra cui Ryoma Sakamoto, Isamu Kondo ed altri ancora.

Erano opere parodistiche - a volte sceneggiate da Kurosawa - che probabilmente ricordavano molto il genere popolare cui appartengono pellicole nostrane come Toto' e Cleopatra o Toto' d'Arabia.

Come molti attori hanno fatto notare, se commuovere il pubblico è relativamente facile, farlo ridere - e senza volgarità ma allo stesso tempo senza censure -  è un'arte estremamente difficile cui si possono accostare in pochi.

Enomoto fu indubbiamente un grande artista, per comprenderlo basta vedere Tora no ofumu con occhio disincantato. Davanti alla censura, scandalizzata dalla sua presenza nel Kanjinchō, Kurosawa andò su tutte le furie, chiedendo a quei burocrati, ignoranti al punto da ignorare di esserlo, con quale diritto assegnavano voti di merito a questo o a quel genere artistico, e come avrebbero giudicato un capolavoro dell'umanità come il Don Qujiote di Cervantes, connotato dalla onnipresenza di un personaggio surrealisticamente comico: Sancho Panza.

Susumu Fujita ebbe il ruolo di protagonista nel primo film di Kurosawa (Sugata Sanshiro) e poi nel seguito (Zoku Sugata Sanshiro). Interpreta qui con molto equilibrio la parte del principe Togashi, combattuto tra il dovere cui deve assolvere e il dovere altrettanto imprescindibile di solidarizzare con un eroe ingiustamente perseguitato.

La nobiltà d'animo, il fermo coraggio, l'imperturbabilità e la prontezza di spirito di Benkei, deiberatamente da lui messo alla prova, fanno pendere il piatto della bilancia verso la conclusione più difficile, l'unica giusta: Benkei e Yoshitsune verranno lasciati passare.

Va osservato che la storia era universalmente conosciuta e l'epilogo già noto a tutti. Mantenere la giusta dose di suspence durante la visione non era impresa facile. Solo un ben riuscito equilibrio tra sceneggiatura, direzione ed interpretazione lo ha reso possibile.

 

Di Takashi Shimura disse lo stesso Kurosawa: era un leader, e la sua vera forza era di non averne l'aria.

Fu perfettamente credibile in ogni sua interpretazione, dal primo ruolo importante come angelo ubriaco nell'omonima opera del 1948 fino all'ultimo, il generale Taguchi di Kagemusha, poco prima della scomparsa nel 1982.

Dobbiamo soprattutto a lui la piena riuscita di molti dei capolavori di Kurosawa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Yasuo Hisamatsu è immediatamente riconoscibile anche dal pubblico meno smaliziato come il cattivo della situazione. Kurosawa ne ha voluto esasperare il trucco e l'espressione per renderlo identificabile senza alcuna esitazione come la rappresentazione del male.

In realtà il suo personaggio, l'inviato del principe Kajiwara incaricato di controllare che Yoshitsune non sfugga alla spietata caccia, sta eseguendo fedelmente degli ordini cui non può derogare.

Ma lo fa con compiacimento, ed astenendosi da ogni autonoma riflessione, e questo lo rende improponibile come modello e fondamentalmente odioso a prescindere dal suo comportamento effettivo.

In fondo non possiamo escludere che gli stolidi censori abbiano avuto una qualche ragione nel cogliere il potenziale eversivo del messaggio di Kurosawa.

Nei panni dell'arrogante inviato di Kajiwara potremmo benissimo vedere quegli stessi censori, tanto indaffarati a cogliere il male altrui da essere completamente ignari dei propri limiti e dei propri mali.

Hanshiro Iwai, che impersona il deus ex machina Yoshitsune, appare sempre inquadrato di spalle, o da una certa distanza, o celato da un grande cappello, o chinato al suolo per nascondersi.

Solamente in una breve sequenza finale svela il suo aspetto, e notiamo con stupore che non ha nulla dei canoni dell'eroe tradizionale come lo immaginiamo noi.

E' ancora un ragazzo, il suo aspetto è esile, i suoi modi gentili e timidi. Si tratta di un canone estetico asessuato conosciuto come bishōnen (bel giovane) che ricorre spesso in varie culture popolari asiatiche. Non corrisponde affatto all'aspetto reale di Yoshitsune come tramandato da documenti d'epoca.

L'aspetto di Yoshitsune, comunque singolare,  rendeva necessario nasconderlo agli occhi di tutti: nessun travestimento avrebbe potuto celare la sua vera natura, tanto più rara in un mondo dominato dalle armi e dalla violenza.

Eppure una natura luminosamente vincente, a dispetto del tragico destino che lo attende. Yoritomo ha vinto sulla terra, sarà lui lo shogun. Ma a distanza di tanti secoli, il mondo ancora sogna di Yoshitsune.

 


 

Al comando di sei sottoposti un monaco si dirige attraverso la foresta verso il posto di blocco di Ataka, un valico che si trova in mezzo ad aspre montagne; il loro aspetto ed il loro armamento non lasciano alcun margine di dubbio, sono degli yamabushi: dei monaci guerrieri.

La guida è un omino dalla loquela instancabile di cui non sapremo il nome. Lo chiameremo quindi Enoken, come l'attore che lo impersona. Kurosawa creando un affascinante contrasto tra i rudi e taciturni uomini d'arme e questo popolano linguacciuto, lo utilizza allo stesso tempo come voce narrante.

E' la guida, chiacchierando senza interruzione, ad informare lo spettatore che Minamoto no Yoritomo ha lanciato una caccia spietata al fratello Yoshitsune, e che si sospetta che assieme ai suoi fedelissimi,  sette in tutto e travestiti da yamabushi, stia tentando di raggiungere la frontiera.

 

Ce ne sarebbe già abbastanza per decifrare il contesto, ma Enoken toglie ogni dubbio con la sua mimica: non ha ancora finito di parlare che si rende conto, con terrore, che è finito proprio in mezzo a quel gruppetto di disperati, braccati da un intero esercito e che nessuno può aiutare pena la morte immediata.

Perso per perso, Benkei decide di tentare ugualmente la sorte, celando il principe Yoshitsune nelle vesti di un portatore. I commenti di Enoken hanno infatti lasciato il segno: il principe, che qui vediamo di spalle, ha un aspetto troppo diverso dagli altri, troppo aristocratico, per non essere immediatamente notato.

Il vero portatore viene lasciato libero: è ormai inutile, ed in più non dà alcun affidamento: lingua lunga, comprendonio corto, irrimediabilmente fifone,

Anticipando un tema che verrà ripreso e sviluppato poi nei Sette samurai col personaggio di Kikuchiyo, magistralmente interpretato da Toshiro Mifune, e da allora copiato innumerevoli volte, sarà invece proprio quello che sembrava l'elemento meno affidabile a rivelarsi soprendentemente pronto ad aderire ad un ideale, a lanciarsi in una folle avventura in cui non ha nulla da guadagnare e tutto da perdere.

Enoken tormenterà Benkei e tutti quanti per essere riammesso: vuole seguirli fino in fondo, e li seguirà, per ragioni che nemmeno tenta di comprendere tanto gli sembrano imperative.

Il gruppetto dei sette disperati, con il nuovo imprevedibile acquisto, si dirige verso il posto di blocco ove sa di essere atteso in armi. Un coro fuori campo canta la loro epopea:

Pensavano di essere sfuggiti alle fauci del serpente.

Ma camminano ora sulla coda della tigre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al termine di una lunga marcia attraverso la foresta, Benkei ed il pugno di disperati arrivano ad Ataka no seki: il posto di blocco di Ataka. La radura è circondata da una palizzata, coperta da schermi con il mon (emblema araldico) di Togashi: il sole contornato da otto pianeti, noto soprattutto perché utilizzato anche dalla famiglia Hosokawa.

Una fitta schiera di ashigaru armati di lancia si tiene pronta ad intervenire ad un cenno del comandante: forzare il blocco sarebbe assolutamente impossibile.

Benkei ed i suoi uomini attendono pazientemente in seiza, sul nudo suolo, che arrivi il principe Togashi ad esaminare le loro credenziali.

 

 

 

 

 

Le rovine di Ataka no seki sono ancora oggi meta di numerosi viaggi: vi sono state collocate delle statue in bronzo che rappresentano, da sinistra, Yoshitsune, Benkei e Togashi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Arrriva infine Togashi: a suo fianco l'ufficiale del signore di Kajiwara, con l'incarico di controllare che nulla rimanga intentato per la cattura di Yoshitsune.

Togashi chiede di mostrare le credenziali di viaggio. Benkei non può che ammettere di non averne.

Rivendica però la facoltà dei monaci di viaggiare liberamente ovunque, per compiere la propria missione

E' incaricato di viaggiare oltre confine a raccogliere sottoscrizioni per la ricostruzione di un tempio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nulla da fare: le lance si puntano minacciosamente contro Benkei. Sembra che nessuna possibilità sia rimasta, che tutto sia perduto.

I samurai, disperati, accennano ad estrarre le spade. I due gruppi si fronteggiano minacciosamente.

Ma infine Togashi evita il peggio, invitando Benkei a mostrare almeno la lettera di accredito del suo abate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Impassibile Benkei ordina al portatore di recargli lo zaino. Sbirciando dentro Enoken vede che è pieno di armi, e che il rotolo estratto da Benkei è completamente in bianco: la sua espressione dice tutto.

Sulla tradizione di ogni teatro popolare, Enoken funge l'importantissimo ruolo del suggeritore, rivolto però non agli attori, bensì al pubblico, anticipando emozioni e sensazioni che sarebbero comunque evidenti, ma che è importante che il pubblico colga immediatamente o addirittura preveda, per non rallentare il tempo dell'azione.

 

 

 

 

 

 

 

Benkei, senza mostrare alcun cenno di turbamento, senza alcuna fretta, si accinge a leggere il rotolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non vi è scritto assolutamente nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eppure Benkei legge.

Legge con voce stentorea, con declamazione di circostanza, rispettando formalismi e convenzioni, ma soprattutto con tono sdegnato ed irritato, un interminabile appello a sottoscrivere la lista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Togashi ha sicuramente capito la verità. In realtà non ha nemmeno bisogno di capire, sapeva già tutto fin dall'inizio, da prima ancora che Benkei arrivasse al suo cospetto.

Ma esita.

 


 

Probabilmente Togashi ha già deciso. Eppure prolunga volutamente la sfida con Benkei.

Forse per il desiderio di misurarsi ancora, forse per comprendere fino in fondo quell'uomo con cui il destino ha voluto che affrontasse un lungo ed estenuante duello.

Senza tuttavia che alcuna lama venga mai estratta dal fodero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo la lunga titirera di Benkei, è ora la volta di un fitto scambio di domande e risposte.

Apparentemente Togashi sta saggiando la preparazione teologica del suo antagonista, per verificare che sia veramente quello che dice di essere.

Ma sappiamo, e naturalmente lo sapeva lui per primo, che Benkei era veramente un monaco, e su quel terreno non sarebbe stato possibile coglierlo in fallo.

E' quindi chiaro che Togashi sta prolungando il duello per il piacere di confrontarsi, e per gustare le abili mosse di un contendente  di classe superiore.

Naturalmente questa discussione torna molto utile per dare un senso didascalico all'opera, illustrando oltre che la fierezza e la prontezza di spirito anche la dirittura morale del protagonista principale.

 

 

 

Il duello volge al termine, senza che ci sia stato un vinto: entrambi possono ritirarsi invitti dal cimento.

Togashi ordina ai suoi uomini di lasciar passare Benkei ed i suoi seguaci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Proprio in quel momento però la situazione sembra precipitare.

Yoshitsune è rimasto fino a quel momento perfettamente immobile, continuando a celare il volto sotto l'ampio cappello, in mezzo alle manacciose lance della guarnigione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora l'ufficiale di collegamento, che non intende stare al gioco di Togashi, si scaglia contro il finto portatore, sicuro che sotto quelle spoglie si celi il fuggitivo.

Viene fermato dal bastone del gigantesco samurai, impugnato come una lancia, prima ancora  che arrivi a sfiorarlo, ma ha ormai gettato l'ombra del sospetto.

Davanti all'evidenza Togashi dovrà cedere al senso del dovere ed arrestare i nemici.

Di fronte ai samurai fuggiaschi già si addensano le lance nemiche.

 

 

 

 

 

 

Benkei ha la prontezza di spirito di reagire senza alcun indugio. Come si fa a pensare che sotto quelle umile spoglie, sotto quell'aspetto insignificante, si celi un principe di sangue reale, un leggendario guerriero?

Batte pesantemente il malcapitato col suo bastone, a riprova di quello che dice. Nessun samurai oserebbe mai colpire il proprio signore.

E' la prova inconfutabile che quello è veramente nulla più che uno dei tanti servitori di un monastero di scarsa fama.

 

 

 

 

 

 

 

 

Togashi è chiamato per l'ultima volta a riflettere sulla portata della sua decisione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non c'è alcuna possibile alternativa per un uomo della dirittura morale di Togashi. Affronta duramente l'ufficiale e si assume la responsabilità di lasciar passare il gruppetto.

Il destino di Yoshitsune non si deve ancora compiere.

 


Le loro avventure sembrano almeno per il momento concedere un momento di pausa.

Anche il cammino si fa più facile, dopo avere superato il passo di Ataka si esce dalla foresta e si percorrono dei vasti altipiani rigogliosi di verde.

Ma alla prima sosta, qualcosa sembra turbare la ritrovata serenità e gettare l'allarme.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' Benkei: si è gettato a terra in lagrime, e chiede perdono al suo signore.

Non riesce a perdonarsi l'inammissibile oltraggio di averlo percosso, sia pure a fine di bene, sia pure salvandogli la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' lo stesso Yoshitsune, ed è che qui che lo vediamo per la prima volta, sia pure per pochi secondi, a rincuorarlo.

Come sappiamo, Benkei gli sarà accanto fino alla fine, e tratterrà col suo corpo una marea di nemici per dargli il tempo di sottrarsi con una morte onorevole all'oltraggio della cattura.

Sul ponte di accesso al castello di Komorogawa la furia degli assalitori si fermò a lungo: nessuno aveva il coraggio di affrontare ancora la micidiale lancia di Benkei, ancora apparentemente e saldamente in piedi a sbarrare la strada a chiunque.

Era già morto, trafitto da innumerevoli frecce. Ma nemmeno la morte era riuscita ad abbatterlo al suolo.

 

 

 

 

In quel momento si scorge un drappello in avvicinamento. Sono gli uomini di Togashi, e vengono con qualcosa di pesante, una lunga cassa  con l'emblema di Togashi, portata da due uomini.

Evidentemente qualcosa di molto pesante.

Il comandante si presenta e spiega lo scopo della loro missione. Portano semplicemente del sake, con i complimenti del principe Togashi, come viatico per la piccola comitiva di monaci guerrieri.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma non riescono a trattenere i loro sguardi: è evidente che praticamente tutti gli uomini di guarnigione ad Ataka no seki si sono resi conto di essersi trovati di fronte al principe Yoshitsune.

E continuano a guardarlo di sottecchi, mentre lui si è di nuovo rifugiato sotto il capello, lo sguardo chinato al solo ed in atteggiamento dimesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stavolta finalmente si può dire che tutto è finito, l'insopportabile tensione si può allentare.

Il servizio da sake del principe Togashi viene appoggiato al suolo: anche nella grande coppa destinata a Benkei spicca il simbolo della casata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Benkei accetta di buon grado il dono. La prima coppa di sake è naturalmente destinata alle sue mani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' anzi non solo il primo ad approfittare del dono, è quello maggiormente privo di complimenti.

D'altra parte il peso del confronto è gravato completamente su di lui.

E' comprensibile che senta il bisogno di approfittare di ogni possibilità di recupero, sappiamo che altre durissime prove lo attenderanno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Va da sé che ne approfitterà - e volentieri - anche Enoken, bevendo direttamente dal recipiente destinato a riscaldare il liquore, senza perdere tempo a travasarlo nella coppa.

Si addormenterà come un sasso, ed al suo risveglio si ritroverà solo, con accanto un dono di commiato lasciatogli dai samurai.

Anche lui ha partecipato alla grande battaglia. Anche lui l'ha vinta.