Indice articoli

 

Denjiro Okochi aveva già ricoperto un importante ruolo nel primo film diretto da Kurosawa, Sugata Sanshiro (1942). Impersonava il grande maestro Jigoro kano, fondatore del judo, chiamato però nel film Shogoro Yano.

Nelle vesti di Benkei fornisce una interpretazione misurata ma carismatica, rendendo appieno l'immagine di un uomo chiamato dal destino a prove impervie, nel corso delle quali riesce spesso tuttavia ad accennare un sorriso.

Nella foto si scorge il tokin, tipico cappello nero di piccole dimensioni, usato dai monaci anche come bicchiere. Si dice sia stato introdotto dall'immancabile tengu (folletto delle montagne)

 

 

 

 

 

Benkei era noto per la gigantesca statura e la forza sovrumana, che gli consentiva di maneggiare con disinvoltura una lancia che un uomo normale nemmeno sarebbe riuscito a sollevare.

Dokochi era costituzionalmente inadatto a ricoprire un ruolo del genere pertanto Kurosawa sdoppiò il personaggio inserendo nel gruppetto dei cinque samurai al seguito un gigantesco caratterista, che qui sembra ancora  più colossale confrontandolo con l'esile Enomoto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Keniichi Enomoto, scomparso nel 1970, iniziò la sua carriera come attore teatrale, e ad inizio degli anni 30 aveva fondato una sua compagnia, alternando vari generi fino ad affermarsi finalmente in quello comico. Entrato in seguito nella casa cinematografica PCL, poi diventata Toho, interpretò vari personaggi storici, tra cui Ryoma Sakamoto, Isamu Kondo ed altri ancora.

Erano opere parodistiche - a volte sceneggiate da Kurosawa - che probabilmente ricordavano molto il genere popolare cui appartengono pellicole nostrane come Toto' e Cleopatra o Toto' d'Arabia.

Come molti attori hanno fatto notare, se commuovere il pubblico è relativamente facile, farlo ridere - e senza volgarità ma allo stesso tempo senza censure -  è un'arte estremamente difficile cui si possono accostare in pochi.

Enomoto fu indubbiamente un grande artista, per comprenderlo basta vedere Tora no ofumu con occhio disincantato. Davanti alla censura, scandalizzata dalla sua presenza nel Kanjinchō, Kurosawa andò su tutte le furie, chiedendo a quei burocrati, ignoranti al punto da ignorare di esserlo, con quale diritto assegnavano voti di merito a questo o a quel genere artistico, e come avrebbero giudicato un capolavoro dell'umanità come il Don Qujiote di Cervantes, connotato dalla onnipresenza di un personaggio surrealisticamente comico: Sancho Panza.

Susumu Fujita ebbe il ruolo di protagonista nel primo film di Kurosawa (Sugata Sanshiro) e poi nel seguito (Zoku Sugata Sanshiro). Interpreta qui con molto equilibrio la parte del principe Togashi, combattuto tra il dovere cui deve assolvere e il dovere altrettanto imprescindibile di solidarizzare con un eroe ingiustamente perseguitato.

La nobiltà d'animo, il fermo coraggio, l'imperturbabilità e la prontezza di spirito di Benkei, deiberatamente da lui messo alla prova, fanno pendere il piatto della bilancia verso la conclusione più difficile, l'unica giusta: Benkei e Yoshitsune verranno lasciati passare.

Va osservato che la storia era universalmente conosciuta e l'epilogo già noto a tutti. Mantenere la giusta dose di suspence durante la visione non era impresa facile. Solo un ben riuscito equilibrio tra sceneggiatura, direzione ed interpretazione lo ha reso possibile.

 

Di Takashi Shimura disse lo stesso Kurosawa: era un leader, e la sua vera forza era di non averne l'aria.

Fu perfettamente credibile in ogni sua interpretazione, dal primo ruolo importante come angelo ubriaco nell'omonima opera del 1948 fino all'ultimo, il generale Taguchi di Kagemusha, poco prima della scomparsa nel 1982.

Dobbiamo soprattutto a lui la piena riuscita di molti dei capolavori di Kurosawa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Yasuo Hisamatsu è immediatamente riconoscibile anche dal pubblico meno smaliziato come il cattivo della situazione. Kurosawa ne ha voluto esasperare il trucco e l'espressione per renderlo identificabile senza alcuna esitazione come la rappresentazione del male.

In realtà il suo personaggio, l'inviato del principe Kajiwara incaricato di controllare che Yoshitsune non sfugga alla spietata caccia, sta eseguendo fedelmente degli ordini cui non può derogare.

Ma lo fa con compiacimento, ed astenendosi da ogni autonoma riflessione, e questo lo rende improponibile come modello e fondamentalmente odioso a prescindere dal suo comportamento effettivo.

In fondo non possiamo escludere che gli stolidi censori abbiano avuto una qualche ragione nel cogliere il potenziale eversivo del messaggio di Kurosawa.

Nei panni dell'arrogante inviato di Kajiwara potremmo benissimo vedere quegli stessi censori, tanto indaffarati a cogliere il male altrui da essere completamente ignari dei propri limiti e dei propri mali.

Hanshiro Iwai, che impersona il deus ex machina Yoshitsune, appare sempre inquadrato di spalle, o da una certa distanza, o celato da un grande cappello, o chinato al suolo per nascondersi.

Solamente in una breve sequenza finale svela il suo aspetto, e notiamo con stupore che non ha nulla dei canoni dell'eroe tradizionale come lo immaginiamo noi.

E' ancora un ragazzo, il suo aspetto è esile, i suoi modi gentili e timidi. Si tratta di un canone estetico asessuato conosciuto come bishōnen (bel giovane) che ricorre spesso in varie culture popolari asiatiche. Non corrisponde affatto all'aspetto reale di Yoshitsune come tramandato da documenti d'epoca.

L'aspetto di Yoshitsune, comunque singolare,  rendeva necessario nasconderlo agli occhi di tutti: nessun travestimento avrebbe potuto celare la sua vera natura, tanto più rara in un mondo dominato dalle armi e dalla violenza.

Eppure una natura luminosamente vincente, a dispetto del tragico destino che lo attende. Yoritomo ha vinto sulla terra, sarà lui lo shogun. Ma a distanza di tanti secoli, il mondo ancora sogna di Yoshitsune.