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Hiroshi Inagaki: L'uomo del ricsciò

1958

Toshiro Mifune, Hideko Takamine, Kaoru Matsumoto

 

Presentato al Festival di Venezia questo film vi riportò il massimo alloro: il Leone d'oro. Negli anni precedenti vi era stata grande attenzione nei confronti della cinematografia giapponese, soprattutto verso il veterano Kenji Mizoguchi prematuramente scomparso e l'astro nascente Akira Kurosawa. Probabilmente anche la presenza come protagonista del più noto degli artisti legati a Kurosawa, Toshiro Mifune, ha contribuito a richiamare l'attenzione su questa opera di Inagaki. Il regista, già famoso in patria per la sua trilogia sul grande samurai Miyamoto Musashi, era fino ad allora sfuggito all'attenzione del pubblico occidentale.

Sembrava con questo prestigioso riconoscimento che le sorti dovessero cambiare invece l'opera venne distrattamente distribuita in Italia e non riscosse grande successo venendo presto dimenticata, né si sentì più parlare molto di Inagaki.

Matsugoro, detto Matsu il selvaggio, non poteva essere altri che Toshiro Mifune. Attaccabrighe, irruento e screanzato ma anche operoso, genuino, gentile e disinteressato, non potrà però superare l'ostacolo della sua bassa condizione sociale e la sua vita rimarrà incompiuta. L'opera è ambientata nel difficile quanto affascinante periodo di passaggio attraverso tre diverse epoche: il periodo Edo, che era  tramontato già nel 1868 ma continuava a permeare di se le città, le campagne e gli animi dei giapponesi, il periodo Meiji che intendeva guardare al futuro ma senza rinunce preconcette del passato, ed infine il periodo moderno.

Durante l'epoca Edo (1600-1868) per ragioni di sicurezza le vie di comunicazione erano strettamente controllate dal governo dello shogun e gli spostamenti contingentati: raramente era consentito costruire ponti ed occorreva quindi ricorrere quasi sempre ai traghettatori. Inoltre ogni tipo di veicolo a ruote era proibito.

Le uniche alternative allo spostarsi a piedi, oltre ovviamente al cavallo, erano il kago, la portantina a noleggio portata da due uomini utilizzata prevalentemente in città, e quella con equipaggio più numeroso di cui si servivano le personalità di spicco per gli spostamenti da una località all'altra.

All'approssimarsi della restaurazione del potere imperiale (epoca Meiji appunto) il Giappone accettò o piuttosto dovette accettare l'apertura delle frontiere ed un rapido ma traumatico adeguamento al 'progresso' occidentale.

Uno dei simboli di questo cambiamento fu l'apparire di un nuovo veicolo munito di ruote, un leggero carrozzino a trazione umana: il jinrikisha, che venne chiamato in inglese rickshaw e in italiano probabilmente tentando di riprendere la fonetica inglese, ricsciò.

Fu inventato da un samurai del clan Fukuoka di nome Izumi Yosuke, che in viaggio ad Edo  per ordine del suo signore ebbe l'ispirazione vedendo una carrozza di farne una versione più leggera adatta ad essere trainata da un uomo (jinriki = uomo forte).

Muniti di una licenza lui e i suoi soci iniziarono la produzione nel 1870 e nel 1876 (9. anno Meiji) in quella che era diventata nel frattempo la capitale dell'est ossia Tokyo si contavano 10.617 jinrikisha ad un posto e 13.853 a 2 posti (Dictionnaire Historique du Japon, Maisonneuve & Larose, ed. 2002)

Quel veicolo fino ad allora inesistente non ebbe vita lunga in Giappone, ben presto sorpassato dalla meccanizzazione dei trasporti, ma venne esportato dapprima in Cina poi in numerose altre nazioni asiatiche ed in Sud Africa, ove conobbe lunga ed onorata carriera. 

Gli uomini del ricsciò - i jinriki - sono di conseguenza figure emblematiche di quel periodo in cui sia i giapponesi che gli occidentali iniziarono a scoprire il Giappone. Forse, troppo spesso, per cambiarlo inconsapevolmente, fino al punto da stravolgerlo e quasi distruggerlo culturalmente.

Fortunatamente la cultura giapponese aveva radici talmente radicate e diffuse nell'animo della popolazione che nonostante tutto non solo sopravvive ma è ancora attiva e vitale. Il rozzo Matsugoro, il jinriki presentatoci da Inagaki, è indubbiamente un rappresentante tipico di quella parte del Giappone destinata a scomparire per sempre eppure ancora viva nell'animo dei giapponesi.