Questa non sarà una recensione vera e propria, ma ha ugualmente la sua importanza. Le Edizioni Mediterranee sono conosciute da tutti coloro che si interessano di arti marziali (e non solo) per la vasta letteratura pubblicata nel corso degli ultimi decenni.

Ultimamente la casa editrice ha deciso di tentare un coraggioso balzo in avanti, dedicando una collana apposita - Sapere d'Oriente - ai testi fondamentali che ogni praticante ed ogni studioso dovrebbe prima o poi trovarsi tra le mani.

Nel gennaio 2011 la collana è stata presentata al pubblico presso la Libreria Aseq di Roma da Govanni Canonico, responsabile delle Edizioni Mediterranee, Bruno Ballardini, curatore della collana, e Antonio Fichera, studioso di cultura orientale.

I primi titoli presentati nella collana, di cui parleremo nel dettaglio in altra sede, sono:

Takuan Soho:

La mente senza catene

Precetti del grande asceta per chi segue la via della spada

Yamamoto Tsunetomo:

Hagakure

Il testo fondamentale per comprendere gli ideali e lo stile di vita seguiti dai samurai in epoca Edo

Gichin Funakoshi:

I 20 principi del karate

La via per seguire fedelmente il cammino indicato da un grande maestro delle arti marziali moderne

Wilson Scott:

Il samurai solitario

La biografia del più noto e più sconosciuto samurai di tutti i tempi: Miyamoto Musashi

Nel corso della presentazione, a cui erano presenti in pratica, cosa forse comprensibile visto che avveniva in seno ad una libreria specializzata, solo studiosi ed eruditi ma non praticanti di arti marziali, sono emerse diverse problematiche, che confermano l'esigenza di compiere un drastico passo in avanti nello studio della cultura samurai. Studio a cui la nascitura collana potrà sicuramente dare un serio contributo.

E' sempre difficile bilanciare il momento dell'azione e della riflessione, ma la cultura giapponese è molto ricca di discipline - non a caso su questo sito definite Arti del fare - che privilegiano l'azione o perlomeno vi dedicano gran parte del lungo periodo di apprendistato. Da qui l'opinione di molti che gli approfondimenti intellettuali siano inutili. E' mia personale convinzione invece che non si possa nemmeno iniziare a superare questa prima fase se non quando si comincia a riflettere sulle ragioni profonde di quanto si fa. Si potrebbe pensare che sia sufficiente per questo una coscienziosa riflessione interna: rimarrebbe allora da capire come mai tanti grandi maestri del passato, che pure conoscevano perfettamente - e sicuramente meglio di noi - l'importanza della trasmissione diretta da maestro a discepolo, abbiano sentito la necessità di lasciare messaggi scritti che superassero la barriera del tempo, trasmettendo il loro insegnamento fino a noi. Occorre quindi che il praticante seriamente motivato legga quanto ci hanno lasciato i maestri del passato.

Allo stesso tempo, mi sentirei di esortare gli studiosi che hanno privilegiato il rapporto con la parola scritta a dedicare una maggior percentuale del loro tempo e delle loro energie anche alla pratica - non importa di cosa, purché sia pratica di una vera arte trasmessa da insegnanti qualificati - e allo scambio di idee, opinioni e impressioni con i praticanti.

Farò alcuni esempi. Bruno Ballardini, già docente di Tecnica della Comunicazione Pubblicitaria presso l'Università La Sapienza di Roma ed attualmente docente di Scrittura giornalistica, è anche un noto praticante ed insegnante di karate. Sembrerebbe quindi avere tutte le carte in regola per proporre punti di incontro e riflessioni comuni tra i differenti approcci culturali. Eppure una sua affermazione assolutamente scontata per chi abbia avuto sia pure fugaci esperienze di arti marziali, ossia che bisogna accostarsi alla conoscenza spogliandosi integralmente di tutto quanto appreso prima, non è stata accettata così automaticamente presso il pubblico più intellettuale.

Anche l'uso del termine "via del samurai" al posto del più conosciuto bushido - nella edizione dell'Hagakure - ha suscitato qualche mormorio. In realtà, se possiamo essere ragionevolmente sicuri di qualche cosa a proposito delle versioni occidentali dell'Hagakure, è proprio l'introduzione forzata e a posteriori di questo termine, utilizzato probabilmente per la prima volta da Inazo Nitobe nell'opera omonima pubblicata - in inglese e non in giapponese - nel 1899, e divenuto ben presto universalmente conosciuto e diffuso. Nei tempi in cui Yamamoto lasciò la sua testimonianza si sarebbe più probabilmente parlato di kyuba no michi, via del cavallo e della spada.

Il pur comprensibile desiderio di una versione condotta sul testo originale, manifestato da gran parte delle persone intervenute alla presentazione, rivela anche esso in realtà una insufficiente conoscenza della cultura giapponese. Le riforme introdotte nel sistema di scrittura all'inizio dell'epoca Meiji (1868-1912) hanno fatto sì che anche per la maggior parte dei giapponesi il testo sia inaccessibile nella sua forma originale.

Di conseguenza il testo cui fanno riferimento le versioni moderne, tutte riduzioni più o meno arbitrarie di una opera molto più vasta, è quello di Kurihara Koya che pubblicò lo Hagakure Shinzui (Essenza dell'Hagakure) nel 1935 e Kochu Hagakure (Interpretazione dell'Hagakure) nel 1940. Però si trattava non di una semplice trascrizione ma, per i motivi che abbiamo appena indicato, di una vera e propria traduzione, e talmente impegnativa da occupare Kurihara per gran parte della sua vita.

In realtà anche questa versione è ormai proibita al grande pubblico: l'ulteriore riforma della scrittura giapponese sopravvenuta nel 1948, che ha ridotto i kanji utilizzati nella scrittura corrente a 4000 circa, l'ha resa inaccessibile. Le riduzioni che sono reperibili in Giappone sono di conseguenza ulteriori traduzioni di una traduzione. Non esiste al momento un testo originale di riferimento.

Condivisibile quindi la scelta dei curatori di questa nuova edizione di prendere in esame tutte le traduzioni attualmente esistenti per tentare di ricavarne, attraverso un approfondito esame del messaggio, una ipotesi di lettura attendibile priva quanto più possibile delle interpretazioni sovrapposte dai troppi passaggi, chiaramente identificabili quando portino ad affermazioni in contrasto con la dottrina di riferimento, quella samurai del medio periodo Edo (XVIII secolo della nostra era).

Questa fin troppo lunga riflessione ci porta a concludere che esiste ancora tra i due mondi un divario non colmato, e che figure come Ballardini, ed ovviamente collane come Sapere d'Oriente, possono contribuire a colmare. Purché si accetti di spogliarsi di ogni nozione antecedente quando si affrontano da prospettive inedite argomenti anche già conosciuti.

Ha destato stupore in alcuni anche la possibile esistenza di "donne samurai":  lacuna culturale inquietante in quanto proveniente da persone interessate alla cultura orientale tradizionale e che probabilmente si ritengono sufficientemente bene informate.

Ricordiamo brevemente che samurai normalmente non si diventava per scelta deliberata: erano samurai fin dalla nascita tutti gli appartenenti ad una famiglia samurai, tantevvero che il bambino samurai riceveva la sua prima spada ed il suo costume rituale durante la festa del koi matsuri, nel mese di maggio, con l'obbligo di indossarli sempre, e che una precisa etichetta, descritta proprio nei testi che la collana man mano presenterà,  regolava nei dettagli abbigliamento, acconciatura, comportamento di uomini e donne samurai.

Come esempio che ci auguriamo non sembri estremo ricordiamo quello di 3 donne samurai di cui in questo sito abbiamo già parlato: tutte hanno compiuto jigai, ossia la forma di suicidio rituale riservato alle donne samurai, facendo uso del kwaiken, un pugnale di dimensioni minori del tanto riservato agli uomini (la lama era generalmente inferiore ai 7 sun, circa 21 cm). Il kwaiken venne adottato a causa del ridotto ingombro dai piloti di caccia nella seconda guerra mondiale, compresi quei kamikaze di cui fin troppo si parla senza avere ben compreso da quale cultura provenivano, e viene tuttora utilizzato - ovviamente in legno - nell'allenamento delle arti marziali sia pure impropriamente definito tanto.

Gracia Hosokawa (1563 - 1600) si diede la morte mentre il castello da lei difeso era ormai preda del nemico, esempio tanto più significativo in quanto convertita al cristianesimo, ma samurai per nascita prima ancora che credente per scelta; la sposa di Onodera Junai Hidetomo, uno dei celeberrimi 47 ronin, volle raggiungere lo sposo dopo la sua morte per seppuku (primavera del 1703).

Shizuko, la sposa del generale Marisuke Nogi, si diede la morte assieme al suo uomo mentre la salma dell'imperatore Meiji lasciava il palazzo imperiale, nel 1912. Nogi aveva chiesto di compiere seppuku per espiare la colpa di avere perso numerosi uomini (compresi i due figli) nella suo vittorioso assedio di Port Arthur. L'imperatore glielo aveva proibito finché lui fosse stato vivo.

Come spesso accade ancora oggi in Giappone il matrimonio era stato organizzato dai genitori. Marisuke Nogi, che aveva allora 28 anni, aveva posto una sola condizione alla madre: la futura sposa avrebbe dovuto provenire da una rispettabile famiglia samurai di Satsuma, in modo che la loro unione rispecchiasse quella delle regioni di Choshu (ove risiedeva la famiglia Nogi) e Kyushu, ossia quelle che avevano fornito il nerbo dell'esercito imperiale. La prescelta fu l'allora ventenne Shizuko.

Una domanda molto interessante da parte del pubblico è stata invece quella che richiedeva chiarimenti sulla necessità di approfondire e studiare sui testi arti che dovrebbero nascere spontaneamente e naturalmente

La risposta non può che essere complessa: solo la conoscenza diretta e priva di pregiudizi della cultura giapponese permetterebbe di bypassare nozionismo e testi, ma esistono sia un problema quantitativo - chi viveva da samurai in epoca samurai aveva minori bisogni di spiegazioni e approfondimenti - che un problema qualitativo.

Non è pensabile di immergersi completamente in una cultura diversa soltanto attraverso un approccio intellettuale, e la cultura giapponese in particolare ha dimostrato una capacità sconosciuta al mondo occidentale di integrazione tra il sottofondo ideologico, morale etico, ed un conseguente stile di vita. Lo dimostrarono ad esempio grandi maestri del te come Rikyu che arrivarono a sacrificare la vita in nome della rigorosa adesione ai principi dell'arte, trascinando con l'esempio anche i loro migliori discepoli (vedi la recensione del film Morte di un maestro del te).

Chi tra i moderni praticanti occidentali del chanoyu riuscirebbe a frenare la sua perplessità sentendosi chiedere se sarebbe pronto a compiere seppuku in nome dell'arte?

Esiste poi e non va sottovalutata una componente gerarchica: se il sistema didattico giapponese richiede durante il periodo di apprendistato di spogliarsi rigorosamante da ogni pregiudizio ed ogni precedente esperienza, ricominciando dal nulla, da una pagina rigorosamente nuova e vuota, limitandosi a fare senza chiedersi il perché di quanto si fa, non solo rinunciando a chiedere al proprio maestro ma anche a cercare la scorciatoia di un testo di riferimento, questo non toglie che il prosieguo del cammino richieda di ritornare su quello cui inizialmente si era richiesto di rinunciare: l'approfondimento intellettuale.

E questo passaggio è assolutamente irrinunciabile per chi è chiamato a svolgere funzioni di responsabilità. Se in epoca Edo quindi non si richiedevano particolari impegni intellettuali ad un ashigaru (samurai di basso lignaggio), l'impegno era via via crescente man mano che si risaliva nella scala gerarchica per i samurai, per gli shomyo (piccolo nome, termine considerato non cortese e spesso sostituito dal più diplomatico e conosciuto hatamoto = a lato dello stendardo), per i daimyo, grandi nomi, ossia titolari di estesi feudi con centinaia e migliaia di famiglie samurai ai propri ordini.

Pensiamo di avere detto abbastanza. Speriamo di averlo detto convincendo il lettore della necessità di conoscere quanto hanno voluto tramandarci i grandi saggi ed i grandi guerrieri della tradizione marziale giapponese.

P.B.