Randori
Il problema
Il problema dell'aikido?
Alcuni insegnanti, anche di vaglia e al di sopra di ogni sospetto, osservano nei loro video didattici che in ikkyo non si deve spingere. Altri al contrario affermano o hanno affermato che non si deve tirare, e così via con altri immaginabili e inimmaginabili esempi. Hanno tutti ragione.
Ma anche torto.
E ora vediamo il perché, con l'avvertenza che non semplificherà la vita del lettore anzi probabilmente la complicherà, conducendolo dentro un labirinto senza apparente via d'uscita.
Del resto i labirinti, “venduti” da millenni come un incubo mortale sono in realtà spesso ricercati e utilizzati dagli esseri umani come metodi ricreativi e formativi e gli esempi non mancano. Dal labirinto di Cnosso (chiedere a Teseo) a quelli arborei delle ville rinascimentali dove si introducono giubilanti anche se un po' timorosi frotte di turisti. A quelli che più modestamente ritroviamo nelle pubblicazioni di enigmistica che troviamo sempre maggiormente attraenti man mano che procediamo nel labirinto anzi nei molti labirinti della vita.
Partiamo da una osservazione tecnica: nell'arte della spada giapponese vengono analizzati e codificati sia il taglio a spingere (agaru kiri) che quello a tirare (sagaru kiri). Vanno entrambi bene, così come vanno bene sia le seghe occidentali che lavorano in tiro che quelle giapponesi che al contrario lavorano a spinta. Ma se pensate di avere compreso la logica del tutto fermatevi un attimo: non siete ancora sulla buona strada.
Al contrario, sì al contrario, della pialla nostrana che lavora a spinta – all'opposto della sega – mentre quella giapponese lavora in tiro, e anche qui all'opposto della sega. Ove si dimostra, e il sottoscritto ne sa qualcosa, che per sondare il labirinto della mente umana e dei labirintici strumenti di cui si è dotato nel corso dei millenni a volte torna utile prendersela con un innocente materiale apparentemente inanimato, come un pezzo di legno.
In realtà la “soluzione” dell'enigma è come sempre molto semplice, e proprio per questo di difficile accesso. Come amava ripetere Hosokawa sensei: “Facile? Allora difficile...”
Il punto è che il metodo dell'aikido ricerca la naturalezza e la spontaneità del gesto, dell'azione, non del pensiero che sarebbe un inutile orpello, attraverso la ripetizione incessante di gesti e azioni codificate.
L'apparente incongruenza se non assurdità del sistema crolla immediatamente per lasciare spazio al consenso informato ove si ricorra a qualche semplice esempio, ma vogliamo qui limitarci ad uno.
Chi avesse assunto nel corso del tempo una postura o una camminata non ottimale, come verrà ricondotto sul giusto sentiero? Attraverso l'esecuzione rigorosa e controllata da parte di chi sappia come intervenire di movimenti attentamente codificati, che al paziente (anche quando fosse ben dotato di pazienza) facilmente appariranno innaturali, noiosi, improduttivi.
E' attraverso questo metodo che è possibile ritornare alla naturalezza, alla spontaneità e di conseguenza alla giustizia del gesto e dell'azione.
Certamente l'aikido è soltanto uno dei possibili metodi, ma è quello che abbiamo scelto perché ne proviamo piacere, anche quando non lo comprendiamo appieno.
Ed è giusto e sufficiente così. Che ci venga chiesto di tirare, o che ci venga chiesto di spingere.
Ma concludiamo ritornando al dilemma iniziale: nell'esecuzione di ikkyo si spinge o si tira?
Cambiamo discorso, passando dall'ambiente controllato del tatami a un altro dove nessuno probabilmente vi ha detto cosa fare. Ipotizziamo che siate intenti a tagliare qualcosa - qualunque cosa – e che la vostra lama incontri una moderata resistenza: senza applicare forza sul punto di taglio farete scorrere la lama tirandola delicatamente verso di voi, e il tagliare sarà sicuramente più agevole. Ma se la materia da tagliare offre molta resistenza sicuramente farete scorrere la lama spingendola in avanti. Senza che nessuno ve lo abbia mai detto o spiegato.
Ma l'aikido non si limita al taglio di salami o altri oggetti inanimati e pertanto non reattivi: intende tagliare non l'oggetto apparente delle nostre azioni, il nostro uke, ma soprattutto tagliare dentro di noi. Togliendone il superfluo, l'inutile, il dannoso. Ed è qui che si rivelano i nostri vizi, congeniti o acquisiti, che richiedono per essere corretti l'esecuzione esatta di forme codificate. A volte in tiro... a volte in spinta. Ma questo oltre che dal momento non dipende necessariamente dall'insegnante, ma più probabilmente da noi stessi.