Jidai

Masaki Kobayashi: 1962 - Harakiri

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Masaki Kobayashi: Harakiri

1962

Tatsuya Nakadai, Rentaro Mikuni, Tetsuro Tamba, Akira Ishihama, Shima Iwashita, Masao Mishima

 

Se la lunga collaborazione tra Akira Kurosawa e Toshiro Mifune ha fatto sì che i due grandi artisti venissero automaticamente associati nella immaginazione degli spettatori, altrettanto proficua fu la collaborazione tra Masaki Kobayashi e Tatsuya Nakadai. 

Anche Kurosawa si avvalse delle straordinarie doti di interprete di Nakadai. Era già presente come antagonista di Toshiro Mifune in Yojimbo (quasi sempre trascritto Yoshimbo nelle edizioni occidentali) e poi in Sanjuro, nonché protagonista nell’opera di ambientazione gendai (moderna) Anatomia di un rapimento. In seguito lavorò soprattutto con Kobayashi prima di tornare  sotto la direzione di Kurosawa prima in Kagemusha e infine in Ran, i due ultimi capolavori jidai, ossia d'epoca (la parola chambara si riferisce invece ad un genere più avventuroso e disimpegnato che potremmo rendere con il nostro "cappa e spada).

Harakiri fu diretto nel 1962 e se non fu la prima opera in cui collaborarono Kobayashi e Nakadai, basti ricordare il celebre ciclo di film gendai La condizione umana, fu la prima con cui varcarono i confini del Giappone riscuotendo un successo internazionale.

Il film arrivò anche in Italia in quanto il successo di critica e di pubblico riscosso da molte (non tutte) opere di Kurosawa autorizzava grandi speranze per il cinema giapponese. Ma circolò invece quasi clandestinamente, scomparendo in breve dalla circolazione: troppo cruda la trama, troppo cruente le rappresentazioni per la sensibilità dell’epoca. Forse la cultura che dava origine e credibilità a questo genere di opere era ancora troppo lontana dalla nostra conoscenza e quindi dalla possibilità di pieno apprezzamento da parte nostra.

Paradossalmente, in una società che si considera più avanzata e più sensibile rispetto a quei tempi, fino al punto di eliminare dal suo vocabolario termini utilizzati per millenni o di coniare definizioni grottesche come “diversamente abili” per timore di rinfacciare a persone innocenti le loro debolezze e le loro sfortune, le cruente scene di Harakiri sembrano ormai banalmente ordinarie. Ai giorni nostri vediamo ben di peggio, quotidianamente, non solo al cinema ma anche ad ogni fascia oraria della tv, e quel che è peggio senza alcuna apparente ragione, senza alcuna giustificazione fornita dalla trama: violenza pura e semplice fornita come intrattenimento.

Naturalmente il pubblico benpensante si scandalizza per i barbari costumi delle società rappresentate sullo schermo, che siano quelli  della antica Roma o del Giappone feudale, ma poi si affolla davanti a schermi e teleschermi per vedere la morte che si fa spettacolo.

Non stupiamoci allora che anche in Gohatto (2001) e Mibugishiden (2003) si rappresenti sullo schermo il seppuku, sia pure in contesti, epoche e trame diverse; ma nemmeno che la macchina da presa invece di arrestarsi al momento fatale ci mostri platealmente due decapitazioni, ugualmente raccapriccianti eppure - ormai - terribilmente banali. E sono, si badi bene, opere di registi di vaglia e che hanno riscosso unanimi consensi di critica,

Ma è il momento di iniziare a parlare di “Harakiri”.

Il termine harakiri (taglio del ventre, (腹 切り) viene considerato scorretto e da evitare in Giappone, ma è il più noto in occidente e probabilmente per questo il film è conosciuto col titolo Harakiri. Il titolo originale che viene  riportato nei titoli di testa e nella locandina originale è invece Seppuku (切 腹, scritto con gli stessi ideogrammi ma invertiti), quello più appropriato

L’azione si svolge nel 1630 quindi agli inizi dell’epoca Tokugawa, circa una generazione dopo la battaglia di Sekigahara che ponendo fine alla lunga guerra di successione segnava l’inizio dell’epoca Edo, che venne definita anche l’era della “pax Tokugawa”.

Un periodo ininterrotto senza guerre durato circa 200 anni, che paradossalmente creò non poche e non lievi crisi di assestamento nel sistema sociale giapponese poiché furono gettati di colpo nella povertà più assoluta, e con l’interdizione rigorosa di dedicarsi ad attività di lucro, le centinaia di migliaia di samurai che erano stati reclutati nel torbido periodo precedente, quando si richiedevano grandi masse di guerrieri libere da ogni vincolo economico e sociale, che si dedicassero completamente alla formazione prima e alla battaglia poi.

Nel 1630 ci troviamo nel periodo più critico di questo processo di assestamento, quando ancora non sono concluse le sanguinose guerre con cui Tokugawa e i suoi alleati consolidarono il potere eliminando le ultime sacche di resistenza o liberandosi di alleati infidi e allo stesso tempo numerosi clan vengono sciolti perché legati al feudatari sconfitti o perché non più considerati necessari nel crudele gioco politico. Assieme ai daimyo e samurai ritrovatisi di colpo senza terra e senza rendite, ma ancora soggetti alla interdizione di lavorare, precipitarono nella miseria le loro famiglie. 

Nel registro del clan Iyi, che è sopravvissuto alle tempeste epocali anzi ne esce rafforzato predando le ricchezze dei clan disciolti, in quella giornata del tredicesimo giorno del quinto mese si segnala che non è successo nulla di particolare.

Si ricorda solamente che la giornata è stata torrida e che in mattinata il feudatario Bennosuke ha portato in omaggio al signore di Doi delle trote fresche pescate nel fiume Shirakawa, nel dominio del clan. Tra le annotazioni minori si segnala tuttavia  l'arrivo nel pomeriggio di un samurai già alle dipendenze della casata dei Fukushima in Hiroshima.

 

 

E' divenuto un ronin, un “uomo onda”, un samurai senza più padrone; ridotto allo stato di indigenza dopo lo scioglimento della casata cui prestava obbedienza, senza più alcuna speranza di riscatto sociale. Chiede che gli venga concesso l'uso della corte della dimora per compiervi seppuku, terminando il suo percorso su questa terra con un onorevole suicidio per mezzo della sua lama più fidata: il wakizashi , che il samurai non abbandona mai, mentre la lunga katana viene lasciata all’ingresso delle case private e dei luoghi pubblici. L'uomo si presenta infatti con il daito, la spada lunga, già impugnata con la mano destra in posizione neutrale e non portata alla cintura.

Il wakizashi (脇差:わきざし) ossia “arma da lato” è una lama compresa tra 1 e 2 shaku di lunghezza utile (30-60 cm), portata in coppia con la katana con cui costituisce il dai-sho (grande-piccola, sottintendendo il termine spada). Il porto di questo tipo di daisho, obbligatorio per la classe samurai, si afferma a partire dal XVII secolo. Continuò ad essere utilizzato ai soli fini cerimoniali il daisho precedente, costituito dal lungo tachi (di solito oltre 2 shaku e 5 sun, circa 75 cm) e dal tanto (sotto 1 shaku, ossia 30 cm).

Come detto prima lo scioglimento di numerose casate aveva di colpo precipitato in una situazione drammatica decine di migliaia di samurai assieme alle loro famiglie. Di conseguenza questo genere di richieste si era talmente diffuso da creare un notevole allarme in tutte le casate privilegiate, scosse anche emotivamente dal vedere uomini d’onore abbattuti dallo stesso destino che sarebbe potuto toccare da un momento all’altro anche a loro, e divise tra due tendenze contrastanti e inconciliabili.

Mossi da pietà alcuni daimyo avevano offerto ai ronin disperati l’assunzione nei loro ranghi. Moltiplicandosi a dismisura questi casi non fu più possibile provvedere a tutti; si iniziò a elargire somme di denaro che permettessero ai disederati di rimandare per qualche tempo la decisione estrema, per poi tuttavia congedarli senza acconsentire alla richiesta. Ma questo aveva causato una ulteriore esasperazione del fenomeno: molti disperati si presentavano senza alcuna intenzione di compiere veramente seppuku ma solo per la speranza di essere assunti o perlomeno di ricevere l’offerta in denaro.

Alcune casate decisero allora una linea di fermezza, obbligando i seppukusha ad eseguire immediatamente, e con le più rigide modalità tradizionali, quanto da loro richiesto. Tra queste, nella trama dell'opera, la casata di Iyi.

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