Lo stimolo principale di queste riflessioni è certo stata la recente conferenza di Paolo Bottoni sulla spada giapponese tenuta al Dojo Nozomi, poiché in quell'occasione, tra i molti argomenti toccati, c'è stato anche un interessante ragionamento sulla paura, sulle differenti reazioni ad essa, sull'allenamento in situazioni simulate di attacco che caratterizza la nostra disciplina. In fondo tutto l'ambiente e la filosofia stessa delle moderne arti marziali propone proprio questo: la possibilità di allenare le nostre capacità di reagire a comportamenti aggressivi, a situazioni rischiose e a contesti pericolosi però simulati e controllati, perciò privi degli esiti imprevedibili, disastrosi e anche mortali che possono verificarsi nella realtà.

Questo è particolarmente vero per l'aikido in cui non si contempla la pratica del combattimento e perciò di quell'elemento competitivo e aggressivo che può risultare facilmente incontrollabile e quindi nocivo. Visto in questi termini l'"assenza", nell'aikido, di un vero e proprio confronto con l'avversario di turno, può essere considerato un vulnus della sua pratica e cercherò di spiegare perché prevenendo però preliminarmente le obiezioni più immediate e scontate, dicendo subito che so bene che nell'impianto filosofico e didattico dell'aikido non c'è alcuno spazio per l'inserimento e l'esercizio dei confronti agonistici, e che non è davvero nelle mie più remote intenzioni accarezzare l'idea di un aikido competitivo trasformato in sport, con campionati, coppe, vincitori e vinti! Ci mancherebbe altro!

L'obiettivo di questo scritto sarà invece fornire un contributo di riflessioni su come accettare e padroneggiare la paura e la tensione che si creano quando siamo chiamati a confrontarci con situazioni di rischio (anche controllato), con momenti di contrapposizione a qualcuno o a qualcosa (anche delimitato da regole e svolto in contesti tutelati) e su come si possano migliorare queste esperienze nell'ambito dei nostri allenamenti.

La pratica ordinaria prevede che il maestro esemplifichi una tecnica difensiva relativa ad un preciso tipo di attacco (un colpo dall'alto in basso come shomen, un pugno al viso o all'addome, come jodan o chudan tsuki, una delle tante prese al polso, al bavero, alla spalla, un'aggressione da dietro e così via) e che si passi ad imitarla scambiandoci i ruoli di tori, esecutore della tecnica di difesa e di uke, ricevuitore della tecnica. In questa prassi ognuno sa bene cosa deve fare e cosa può aspettarsi e nel volgere di poche ripetizioni anche le coppie che non si conoscevano prima trovano una loro armonia, per così dire, "operativa".

Una prima complicazione la si incontra quando, ad uno stesso tipo di attacco, il maestro decide di introdurre le "controtecniche", ossia quando vuole insegnare il kaeshi waza: in questo tipo di allenamento i ruoli di uke e di tori si mescolano e la più articolata difficoltà delle contro tecniche richiede una maggiore concentrazione; nel volgere di poche reiterazioni però, i ruoli si chiariscono e la coppia ritrova un suo equilibrio operativo.

Una ulteriore difficoltà viene introdotta ad uno stesso tipo di attacco quando il maestro propone un gruppo di risposte difensive: in questo caso uke può non sapere, né percepire nel giusto anticipo, quale tecnica tori applicherà al suo attacco. Un altro tipo di allenamento, ancora più impegnativo è il jiyuwaza: ad un tipo di attacco ci si può difendere liberamente impiegando tutte le tecniche conosciute e - possibilmente - non meditate prima onde lasciare che si presentino spontaneamente. In questo caso uke non esperti possono avere obiettive difficoltà nelle ukemi e sussiste una certa probabilità di farsi del male, anche se molto contenuto perché la prestazione di tori non deve assumere mai un carattere violento e competitivo.

Quest'ultimo tipo di esercizio può essere aperto ad un gruppo: tori al centro subisce l'attacco in sequenza di più uke, cosa che lo mette abbastanza sotto pressione per la velocità e la differenza di approccio che scaturiscono da questa modalità di azione. Infine è possibile essere attaccati da più uke contemporaneamente: di solito ci si limita a due o tre e si fa ricorso solo a pochi tipi di attacco, ma questa modalità di allenamento è potenzialmente disponibile a molte variazioni sul tema e rappresenta comunque il livello tecnicamente più alto e impegnativo. Viene spesso definita randori (alla lettera difesa da confusione, da lotta senza regole). 

Questa gerarchia di complessità corrisponde anche ad una gerarchia di frequenza dei rispettivi allenamenti (e non entro nemmeno nel merito delle tecniche di aiki-jo e aiki-ken che meriterebbero una trattazione a parte): più sono difficili e complesse da praticare e gestire, più raramente vengono proposte, con qualche eccezione che conferma la regola.

Tuttavia in nessuna di queste situazioni si verifica che tori ignori quale tipo di attacco subirà! Ecco il punto su cui vorrei concentrare l'attenzione di chi legge: nei nostri allenamenti i movimenti di uke sono sempre previsti, il suo attacco non è mai libero e libero anche di cambiare, ossia di modificare la sua azione in base alla reazione difensiva di tori. Questo e precisamente questo è, a mio avviso, il lato vulnerabile della nostra pratica, soprattutto se si pensa che nelle memorie di o sensei, spicca come fondante proprio la sua capacità di percepire in anticipo, di presentire non solo il tipo di attacco che il suo avversario avrebbe sferrato, ma anche le linee di forza, la direzione che avrebbe impresso a tale assalto!

Non è davvero un caso che l'aikido basi la sua efficacia proprio sulla possibilità di inserirsi armoniosamente nello slancio dell'avversario, cosa che esercitiamo anche egregiamente conoscendo in anticipo le intenzioni di uke, ma che non siamo in grado di eseguire se l'attacco di uke diventa spontaneo. Va detto che ai livelli più avanzati si è in condizioni di far fronte ad una certa variabilità degli attacchi, come accade quando uno si aspetta una presa od un atemi sul lato destro e invece gli viene porto sul quello sinistro, ma questa capacità di reagire fulmineamente alle improvvisazioni non viene sistematicamente allenata.

Un modo di controllare l'iniziativa aggressiva dell'uke è quello di provocare o favorire un determinato tipo di attacco: avanzando o retrocedendo, allungando un braccio, effettuando uno spostamento, assumendo una posizione di guardia si induce nell'uke una sorta di preferenza per un colpo di taglio, per una presa al bavero o al polso o per un'altra qualsiasi forma di assalto e queste strategie anche se non sempre e non da tutti i maestri, pure vengono insegnate o esemplificate; per fare solo un esempio si può indurre l'uke a portare uno Yokomenuchi perché gli si sbarra la via diretta dello shomen brandendo il braccio teso davanti al suo viso.

Quello che non viene preso in considerazione è che in un confronto più realistico, l'avversario non si "abbandona" alla tecnica, come gli viene chiesto di fare durante gli allenamenti, ma la contrasta e, soprattutto, mette subito in atto altre azioni offensive connesse con la tecnica stessa che tori sta eseguendo sul suo primitivo attacco. Ovviamente non è mia intenzione ridurre o tradurre l'aikido in un corso di difesa personale, ma ritengo si possa prendere in considerazione un comportamento non precisamente collaborativo da parte di uke, sia nel seguire le linee di forza della reazione di tori, sia nel rendere imprevedibile il suo attacco, sia nel modificare la sua iniziativa aggressiva in relazione a quella difensiva di tori. Talvolta i gradi più avanzati, di fronte ad un'erronea applicazione della tecnica da parte di principianti, tentano di correggerli resistendo o sfuggendo alla loro difesa, o contrattaccando con tecniche di kaeshi waza, proprio quello che penso debba o possa affiancarsi alla pratica ordinaria.

Certo occasionalmente può essere già stata sperimentata e proposta, da questo o da quel maestro, una forma allenamento in cui si è lasciato libero l'Uke di portare l'attacco che riteneva più idoneo, ma si è appunto trattato di una rara e circoscritta esperienza, un'esperienza che non è diventata metodo, modalità sistematica e condivisa, di allenamento. In definitiva bisogna portare maggiore attenzione all'esperienza decisiva che ha consentito al maestro fondatore, Morihei Ueshiba, di elaborare l'essenza stessa dell'aikido come "Via": presentire in anticipo il come e il cosa da cui si sarebbe dovuto difendere, ossia il prerequisito che gli consentiva di sfruttare lo slancio del suo aggressore e renderlo innocuo senza opporvisi.

Nella meticolosa ricostruzione delle origini dell'aikido che la dottoressa Chiara Bottelli sviluppa nella sua tesi di laurea, quell'esperienza è riportata dettagliatamente ed è qui sufficiente sintetizzare come segue: sfidato ad un duello di spada da un esperto ufficiale di marina, o sensei lo affrontò senza armarsi; questa sottovalutazione rese furiosi gli attacchi dell'ufficiale che, invece, o sensei si limitò ad evitare con grande facilità. Quando esausto si dichiarò sconfitto e chiese a Morihei come aveva potuto fare ciò che aveva fatto, egli rispose che vedeva chiaramente, come un raggio di luce che rivelava in anticipo la direzione in cui lo avrebbe attaccato!

Per allenarsi a questo obiettivo è indispensabile che le intenzioni dell'uke non siano dichiarate, che quest'ultimo cerchi davvero di superare le difese di tori e che sia pronto a reagire alle sue tecniche, modificando il suo stesso attacco. La mia idea è perciò di affiancare alla didattica tradizionale, in modo organico e sistematico, dei momenti in cui l'uke possa attaccare con qualche grado di libertà (variare il tipo di presa o di atemi, ad esempio), dosando opportunamente tale grado in funzione del livello tecnico raggiunto dai praticanti coinvolti, sia come tori che come uke.

La situazione didattica che ipotizzo prevede un attacco libero o quasi libero da parte di uke a cui tori reagisce subitaneamente senza prefigurarsi mentalmente una tecnica difensiva: se la sua difesa è adeguata e sufficientemente armoniosa bene, altrimenti ci si ferma e si replica cambiando ancora: in nessun caso deve scaturirne una colluttazione, sia per la sua bruttezza, sia per la sua inutilità, né in alcun modo deve emergere una sorta di gara a chi è più bravo o furbo; l'obiettivo deve rimanere l'armonia, il ki no nagare, proprio come nell'originale esperienza vissuta da o sensei.

Dobbiamo liberare la mente di tori dal suo schema precostituito di difesa, provocare il suo vuoto mentale: solo così sarà veramente pronto a qualsiasi tipo di attacco poiché vi reagirà istintivamente in quanto la sua competenza tecnica è diventata parte integrante della sua persona e non ha più bisogno di pensare, volere, progettare una strategia difensiva. In questo modo possiamo anche alzare il livello di impegno e di rischio della situazione didattica e sollecitare emozioni più intense, più vicine all'eventuale conflitto reale, allenando così meglio la nostra risposta alla paura o, almeno, alle preoccupazioni che un simile scontro può suscitare in noi.

 

 


 

Questa riflessione di Roberto Sabatini merita non solo attenta considerazione ma anche un tentativo di risposta. Non una "soluzione" del mistero, non è quella che va ricercata. Casomai, al contrario, una integrazione a queste riflessioni che renderà il problema probabilmente meno agevole da risolvere ma forse ancora più interessante da analizzare. Trovate qui le mie personali post-riflessioni. Chi altri ancora voglia intervenire nel dialogo, ovviamente con un contributo significativo, si senta libero di fare le sue proposte.

P.B.