Inazo Nitobe: Bushidô

Edizioni Sannò-kai, Padova

 

 

 

 

 

 

 

 

Con questo libro bisogna fare i conti, e li deve fare anche il praticante di arti marziali contemporanee, per quanto delle arti marziali moderne (aikido, judo, kendo...) non parli e non ne possa parlare. Fu scritto infatti sul finire dell'epoca Meiji, nel 1899, al termine di un periodo di tormenti e di cambiamenti per il Giappone.

Cambiamenti che portarono anche alla nascita delle nuove arti marziali: prima tra le arti marziali moderne più conosciute e diffuse fu come noto il Kano ju jutsu, poi divenuto Kodokan judo e nato nel 1882.

Risale al 1895 la fondazione della Dai Nippon Butotukai, organizzazione statale dedicata alla promozione ed evoluzione delle arti marziali tradizionali, sciolta dalle autorità di occupazione dopo il termine della seconda guerra mondiale nel 1945, nel tentativo di affievolire se non reprimere del tutto lo spirito marziale del Giappone.

Sotto la coordinazione del Butotukai il gekiken divenne ufficialmente kendo nel 1920, e circa 10 anni dopo iniziò lo sviluppo dell'aikido nella sua forma definitiva da parte di Morihei Ueshiba, per citare solamente le discipline moderne di maggiore diffusione. E' un caso che andrebbe trattato a parte quello del karate, che venne ritenuto adatto ad un suo inserimento nel quadro educativo complessivo ma non fa parte del nucleo storico delle discipline autoctone essendo conosciuto fino al XX secolo solo nell'isola di Okinawa.

Durante il periodo Meiji la nazione giapponese si trovò a dover recuperare nel minor tempo possibile un ritardo tecnologico e sociale accumulato in diversi secoli. Altrettanto di colpo la civiltà occidentale tentava di comprendere nel minor tempo possibile il senso di quanto maturato in Giappone nel corso del lungo periodo di isolamento. E’ significativo che quest’opera sia apparsa per la prima volta in lingua inglese, ad opera di uno studioso giapponese che aveva scelto di cavalcare senza compromessi l’onda del cambiamento senza per questo rinnegare il suo passato, quello della sua gente e quello della sua nazione.

Inazo Nitobe (1862-1933) si era convertito al cristianesimo durante gli studi superiori  che aveva seguito a Sapporo in Hokkaido sotto la guida di insegnanti occidentali. Destinato per desiderio dell'imperatore a continuare la tradizione familiare - le sue origini erano strettamente legate alla tradizione samurai, la famiglia era infatti al servizio dei Daimyo di Nambu e tra i suoi antenati si contavano diversi riformatori agrari - continuò gli studi all'Università di Tokyo ma decise infine di trasferirsi negli Stati Uniti per essere a diretto contatto con la scienza occidentale. Qui si convertì alla religione quacquera -  in precedenza era metodista - e conobbe la futura moglie, Mary Elkinton. Dopo 3 anni ebbe istruzione di continuare gli studi presso l'Università di Halle in Germania, e nel 1891 fece ritorno in GIappone dove gli era destinata una cattedra all'Università di Sapporo. Diede le dimissioni nel 1897 per dedicarsi alla composizione di diverse opere, tra cui Bushido fu una delle prime. Ritornò in seguito all'insegnamento e per tutta la vita proseguì una intensa attività accademica, sociale, politica e diplomatica.

E’  innegabile che gli oltre 100 anni passati dall’uscita di questa opera fondamentale, apparsa per la prima volta in Italia nel 1917, abbiano lasciato qualche segno. D'altra parte non poteva rappresentare certamente Bushidô con le sue scarne 130 pagine un’opera esaustiva sopra la cultura - marziale e non - del Giappone classico: fu un primo importante passo in questa direzione di ricerca, che ha consentito o perlomeno agevolato gli approfondimenti successivi.

Occorre considerare l’epoca in cui è andato alle stampe per comprendere le ragioni dello straordinario impatto che ebbe nonostante tutto e dell’enorme contributo che ha dato alla diffusione nel mondo occidentale delle ragioni del vivere giapponese. Come esplicitamente lascia presagire il titolo quanto mai impegnativo del primo capitolo: Il Bushido come sistema etico. Per la prima volta, con questo testo, il mondo occidentale veniva a conoscenza del complesso sistema di preparazione del guerriero giapponese, e della sua precisa collocazione all'interno della società. Si tratta quindi non di un testo classico propriamente detto, abbiamo visto come risalga ad una epoca in cui la cultura samurai aveva già terminato il suo ciclo, ma di un testo che apre comunque una porta - e per la prima volta - verso i classici.

Giustamente questa edizione, preceduta da una lunga introduzione ad opera di Rinaldo Massi, accompagna il testo di Nitobe con una nutrita serie di appendici, che chiariscono ed integrano quanto detto nel testo e costituiscono altrettanti inviti all’approfondimento. Citiamo tra le altre quelle  dedicate al lungo e cavalleresco rapporto conflittuale tra gli eroi della seconda metà del XVII secoloTakeda Haronobu detto Shingen (1521-1573) e Uesugi Terutora detto Kenshin (1530-1578): erano entrambi divenuti monaci, assumendo un nuovo nome.

Nella stampa di Tsukioka Yoshitoshi vediamo Kenshin intento a contemplare il teatro delle sue battaglie, l'aspro e suggestivo territorio montagnoso ove si estendevano i domini di Echigo (Kenshin) e Kai (Shingen).

E' rievocato anche da Akira Kurosawa nel suo monumentale Kagemusha (1980), in cui peró si concede un omaggio allo spettacolo attribuendo ad Oda Nobunaga il ruolo di maggiore antagonista di Takeda Shingen ed il compianto per la morte del suo “miglior nemico”, rinunciando del tutto a menzionare Kenshin. Un episodio che per Nitobe richiama alla mente, e non ci meravigli, la grandezza morale dell’antica Roma, il dolore di Ottaviano e Marco Antonio all’apprendere la morte di Bruto dopo la fatale battaglia di Filippi.

Ricordiamo che entrambi gli ispiratori della congiura contro Giulio Cesare, Cassio e Bruto, si diedero volontariamente la morte quando le loro legioni vennero sconfitte, seguendo un percorso che non poteva non colpire un giapponese per la sua analogia con la morale samurai.

Vengono riportate alcune corrispondenze dal Giappone dal grande inviato speciale Renato Simoni, risalenti al 1912. In particolare la toccante testimonianza del suicidio rituale del samurai Nogi, che porta Simoni alla riflessione che segue: "Il bushi non ha da aver solo coraggio. E’ capace di coraggio anche l’ultimo villano dalle mani callose. Il coraggio del bushi ha quasi da essere meditativo” … ”deve essere cosciente, sobrio, proporzionato al rischio, opportuno e modesto”.

Il generale Marisuke Nogi (1849-1912) dopo essersi distinto al comando di un reggimento delle forze imperiali contro la ribellione di Satsuma (1876) comandò vitttoriosamente una brigata durante la prima guerra sino-giapponese (1894-1895) e al termine della guerra venne nominato governatore di Taiwan. Durante la guerra russo-giapponese (1904-1905) fu al comando delle Terza Armata che doveva attaccare Port Arthur, potentemente difesa. Gli insuccessi iniziali sembravano dover portare alla sua rimozione ma l'imperatore Meiji lo sostenne fino in fondo e dopo la caduta della fortezza Nogi venne considerato un eroe nazionale. Durante la guerra caddero in combattimento sotto gli ordini di Nogi prima il figlio primogenito e poi il secondo. Gli storici occidentali osservarono che la condotta delle truppe giapponesi durante la guerra fu ineccepibile, dando prova di grande rispetto per le forze nemiche e per la popolazione civile, grazie alla disciplina e alla persuasione morale di Nogi. Al termine della guerra tuttavia Nogi, turbato per la gravità delle perdite subite, al termine del suo rapporto sulle vittoria espresse il desiderio di commettere seppuku per riparare ai suoi errori. L'imperatore glielo proibì, almeno finché fosse stato in vita lui.

Nel 1912 scompariva dopo un lungo regno iniziato quando era ancora adolescente l'imperatore Meiji. Mentre il corteo funebre lasciava il palazzo imperiale il generale Nogi compieva seppuku, e la moglie Shizuko lo seguiva nella morte compiendo il jigai, l'analogo suicidio rituale riservato alle donne di nobile lignaggio. La tradizione di seguire il proprio signore nella morte, il junshi, per quanto formalmente proibito fin da epoca remota si era tramandato attraverso i secoli.

Infine troviamo tra le appendici il Rescritto Imperiale per le Forze Armate del 1882 con cui l’imperatore Meiji - il periodo del suo regno, 1868-1912, da lui prende nome - gettava le basi dell’orgoglioso tentativo nipponico di risollevare la testa di fronte all’invasione militare e culturale dall’occidente, e i Consigli ai soldati sul fronte di battaglia. Vennero emanati poco prima della seconda guerra mondiale, e sono sorprendenti tanto per la loro moderazione quanto, col senno di poi, per lo scarso impatto avuto sulle forze d’occupazione giapponesi, le cui violenze hanno portato in seguito le autorità nipponiche, sia pure a distanza di molti anni da quei fatti, a chiedere pubblicamente scusa alle nazioni ed ai popoli offesi.

Come di consueto il sapore di questo testo fondamentale, che non deve mancare nella biblioteca di ogni serio praticante di arti marziali e di ogni cultore della tradizione giapponese, viene reso non solo attraverso i commenti, piú o meno centrati, ma con la citazione di alcuni passi che hanno lasciato il segno, per un verso o per l’altro, nel recensore.

P.B.

 


 

Mommsen, ponendo a confronto Elleni e Romani, afferma che i primi, quando adoravano il divino, levavano gli occhi al cielo perché la loro preghiera era contemplazione, laddove i secondi si velavano invece il capo, essendo il loro pregare una riflessione. Essenzialmente affine alla concezione romana, la nostra riflessione religiosa dà rilievo preminente non tanto alla coscienza individuale quanto alla coscienza nazionale dell’uomo.

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Qualora ... l’amore non sia sufficiente a indurre l’uomo a comportamenti generosi, egli deve avere modo di fare appello al proprio intelletto e questo, attraverso considerazioni razionali, deve persuaderlo della necessità di operare nobilmente. Quando cioè venga a “pesare” il dovere che incombe, interviene allora la giusta ragione a impedire la nostra tendenza a evitarlo. Inteso in qesti termini il “gi-ri” è come un severo comandante che, munito di una lunga verga di betulla, sopravvenga a spingere gli ignari a compiere il loro specifico dovere.