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Sanshiro è tornato allo Shudokan.

In realtà il dojo di Jigoro Kano si chiamava Kodokan, sala (o edificio) per la pratica della via.

Il Kodokan esiste tuttora in Tokyo ma è diventato un grande complesso con una dojô di circa 1000 tatami. Il primo Kodokan era situato presso il tempio di Eisho-ji e contava solamente 12 tatami.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ll discepolo è ancora una volta di fronte al maestro: Shagoro Yano (Denjiro Okochi).

Un nome di fantasia che non tenta nemmeno di celare il personaggio storico: Jigoro Kano, fondatore del judo e grande innovatore, che trascinò col suo esempio le antiche scuole ancestrali e diede origine alle discipline marziali moderne.

Sanshiro Sugata è alle prese con una crisi di coscienza che sembra irreversibile. Ha accettato di essere detestato non solo dagli avversari ma anche dai loro discepoli, amici e parenti, per l'ideale dell'arte marziale.

Tuttavia le sue vittorie, se hanno accresciuto la fama del judo, hanno avuto effetti negativi sulle persone e le scuole sconfitte. Desidera quindi ritirarsi e dare le proprie dimissioni dal Kodokan.

Le fasi successive della vicenda tentano probabilmente di ipotizzare le ragioni del misterioso abbandono della pratica da parte di Shiro Saigo, il leggendario campione del Kodokan cui la saga di Sugata Sanshiro è ispirata.

Le vicende successive di Saigo, che abbandonò il Kodokan nel 1890, all'età di 24 anni, e scomparve nel 1922, ci sono sconosciute. Non sembrano trovare fondamento le ipotesi che abbia praticato in seguito l'arte del daito-ryu apprendendola dal maestro Sokaku Takeda, che fu anche maestro di Morihei Ueshiba, fondatore dell'aikido. E' verosimile che Tsuneo Tomita nel romanzo che ha ispirato le due opere di Kurosawa abbia utilizzato informazioni di prima mano, ma il suo racconto si arresta prima.

Yano chiede al suo discepolo se questi tormenti sono tutto quello che ha riportato con se dal suo viaggio, durato due anni. E' tutto.

Il maestro confessa di aver nutrito anche lui i dubbi che tormentano Sugata, e di avvertire tuttora gli stessi sentimenti, ma di averli fondamentalmente metabolizzati: solo il combattimento può portare ad una vera pace, il compromesso non porta a nulla. Per questo ha fede nel judo, e nel combattimento, dove non sono in gioco i prestigi personali di Sugata o dello stesso Yano, e nemmeno del judo. Ma l'onore dell'arte marziale del Giappone.

Sugata rimane perplesso dopo il colloquio. Il nuovo Sanshiro ha ancora gli stessi problemi.

L'arrivo di una inserviente che gli chiede ove intende pranzare gli riporta momentanea serenità.

La donna si meraviglia che il famoso Sanshiro, le cui gesta sono oramai celebrate anche dai cantastorie, non abbia l'aspetto formidabile e i vistosi baffi che lei immaginava.

Le descrizioni dell'aspetto di Sanshiro terrorizzavano puntualmente il suo nipotino...

 

 

 

 

 

 

 

 

Incontra immediatamente dopo, mentre i discepoli si ammucchiano esterefatti a sbirciare dall'apertura dello shoji, la parete scorrevole, i suoi vecchi amici: gli altri guardiani dello Shudokan.

I cosidetti quattro guardiani del Kodokan erano Shiro Saigo, Yamashita Yoshiaki, Yokoyama Sakujiro, e Tsunejiro Tomita il cui figlio Tsuneo scrisse il romanzo che ispirò Kurosawa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'incontro con Sayo (Yukiko Todoroki) è inevitabilmente più teso.

Sanshiro è venuto a pregare sulla tomba del padre di lei, Hansuke Murai, che avevamo lasciato sconfitto da Sanshiro e costretto a letto dai postumi del combattimento.

Era però quasi sollevato di avere trovato un degno vincitore e benevolo nei confronti del nascente legame tra Sanshiro e Sayo.

Questo legame sembrava doversi consolidare nella scena conclusiva del primo film in cui partivano assieme per un viaggio in treno, invece è rimasto in bilico nei due anni successivi.

 

 

 

 

 

 

Anche il saggio monaco Osho (Kokuten Kodo) trova, come Yano, che Sanshiro non sia minimamente cambiato.

Ed è indubbiamente una critica: i viaggi servono per fare esperienza e crescere, ad ogni viaggio materiale deve corrispondere un viaggio interiore.

Sanshiro invece, lo ammette lui stesso, è ancora avvolto da dubbi e timori, senza sapere dove indirizzare i suoi passi.

Le sue esperienze non lo hanno portato da nessuna parte.

Se il judo è una via, Sanshiro ancora non l'ha imboccata con decisione e coerenza.

 

 

 

 

 

 

Osho, nella tradizione dell'impietoso quanto salutare metodo zen, non è diplomatico: Sanshiro non è capace nemmeno di innamorarsi sul serio. Non andrà lontano con questa sua pigrizia mentale.

E' disponibile tuttavia a fare un ultimo tentativo: il vestito di Sanshiro merita da tempo di andare in pensione, e Sayo ha intenzione di regalargliene uno nuovo.

Troncando brutalmente ogni obiezione di Sanshiro, Osho gli impone di accettarlo.

Dovrà accettare assieme a quel dono anche l'obbligo di guardarsi dentro, senza timore, e di accettarsi.

O correggersi.

 

 

 

 

L'intervento di Osho previene di un filo la prova che attende Sanshiro. Sono alla porta del dojo due strani visitatori.

Tesshin Higaki , dall'aspetto minaccioso ed aggressivo, è il fratello di Gennosuke Higaki, l'acerrimo avversario di Sanshiro nel primo episodio della saga, ed è interpretato dallo stesso attore, Ryûnosuke Tsukigata.

Lo accompagna il terzo fratello Genzaburo (Akitake Kôno), dal comportamento bizzarro ed inquietante e sul cui personaggio dovremo soffermarci.

Spesso nelle rappresentazioni giapponesi appaiono figure enigmatiche di adolescenti androgini dai capelli incolti e dal comportamento imprevedibile, in cui si incarnano le tensioni della vicenda. Ne costituiscono a volte il catalizzatore, a volte ne divengono la vittima sacrificale ed incolpevole. Un analogo personaggio, il flautista cieco Tsurumaru, lo troviamo in un'opera di Kurosawa molto più tarda, Ran (1985).

Il comportamento dei due, invitati a visitare liberamente il dojo, è arrogante e scortese; entrano senza soffermarsi nel saluto formale, violando apertamente regole tramandate e consolidate nei secoli.

Gli insegnanti presenti ordinano di lasciar correre, presumendo che vengano da un dojo straniero ove vigono usanze diverse, ma anche per non venire meno alla propria etichetta che conformemente all'uso giapponese prescrive di non mettere a disagio il visitatore facendogli notare le sue mancanze o la sua ignoranza.

I visitatori sfrontatamente leggono ad alta voce dai nafuda kake appesi alla parete i nomi dei discepoli del dojo. L'ultimo in quanto più alto in grado è Sugata Sanshiro. E individuatolo si dirigono immediatamente verso di lui, con aria minacciosa.

 

 

 

Kurosawa aveva voluto Genzaburo apparisse sullo schermo con un ramo di bambu nella mano, il segnale che indica nel teatro noh i personaggi affetti da follia.

Ora dopo avere provocato Sanshiro con un atteggiamento intimidatorio, di aperta sfida, viene colto da una crisi, probabilmente di natura epilettica.

Prende ad aggirarsi senza pace per il dojo, come un lupo in trappola, strappando poi una tavola di legno dalla parete, dopo un urlo disperato e raggelante.

 

 

 

 

 

 

 

Gli uomini dello Shudokan lo attorniano, giudicando di avere sopportato fin troppo, eTesshin si mette in posizione di guardia a sua difesa.

Il sopraggiunto Yano cerca di calmare gli animi.

Chiede se l'arte praticata dagli Higaki è il karate. Sì, il karate della scuola Higaki, ribatte Tesshin presentandosi e scusandosi per il comportamento del fratello, che soffre di una misteriosa malattia.

Il loro fratello più anziano, Gennosuke, sconfitto da Sanshiro Sugata, era un debole. E ora sono lì, dopo un lungo viaggio dalla lontana Kyushu (Okinawa, da dove il karate venne introdotto in Giappone solo nel XX secolo, diversi decenni dopo le vicende narrate).

Il loro scopo è sfidare Sanshiro e dimostrare la superiorità della loro scuola.

 

 

Sanshiro tuttavia rifiuta.

Yano concorda: il karate praticato dagli Higaki non è, secondo lui, un'arte marziale.

Lo prova il fatto che non salutino entrando nel dojo. Nel Giappone di una volta chi si comportava così non avrebbe potuto essere guerriero né samurai.

Yano rifiuta quindi di concedere l'autorizzazione al combattimento, e invita a non insistere: Sugata è un discepolo, il suo parere rimarrà sempre allineato a quello della scuola.

Tuttavia Higaki è certo che Sugata ami le sfide: gli è bastato vederlo.

Gli sarà sufficiente attendere per ottenere quanto vuole.