Indice articoli

Kenji Mizoguchi: Meitô Bijomaru (La spada Bijomaru)
1945
Shotaro Hanayagi, Isuzu Yamada, Ichijro Oya, Eijiro Yanagi, Kan Ishii

Il successo del cinema giapponese presso il pubblico occidentale sarebbe probabilmente stato maggiore, o addirittura trionfale, se il destino avesse concesso a Kenji Mizoguchi una carriera artistica lunga quanto quella di Akira Kurosawa. L'opera che viene considerata il suo capolavoro, Ugetsu - una lunga saga ambientata in epoca Edo - ottenne il Leone d'argento a Venezia nel 1951. L'anno precedente era stato Rashomon di Akira Kurosawa ad ottenere il Leone d'oro, avendo uno straordinario impatto sia presso il pubblico che presso la critica. Lo stesso Kurosawa ha sempre citato Mizoguchi tra le presonalità che hanno maggiormente influenzato la sua visione artistica,

La parabola di Mizoguchi doveva però concludersi di lì a poco: scomparve nel 1956 a soli 58 anni, vittima di una leucemia, lasciando comunque una prolifica produzione di oltre 90 opere, per la maggior parte completamente sconosciute al pubblico occidentale. Mizoguchi era solito ricordarne 75 circa, ma molte delle pellicole degli esordi sono andate distrutte durante la guerra. Le sue opere sono complemento ideale a quelle di Kurosawa. Basti pensare alla importanza data da Mizoguchi alla figura della donna, spesso protagonista assoluta delle sue opere, mentre Kurosawa riconosceva di non essere in grado di rappresentare  degnamente l'universo femminile e le protagoniste delle sue opere appaiono quasi sempre comprimarie, 

Le azioni dei personaggi di Mizoguchi vengono guardate dall'esterno, asetticamente,  senza gli approfondimenti psicologici cui Kurosawa ci ha abituato per i suoi eroi, che siano volgari malfattori di strada o grandi daimyo.

Meitô Bijomaru è una caratteristica produzione del tempo di guerra: si trattava di opere basate su sceneggiature accuratamente vagliate dalle autorità militari e spesso pesantemente "corrette" per conformarle alla volontà di esaltare le caratteristiche eroiche del popolo giapponese, girate con mezzi ridotti se non addirittura di fortuna e con durata limitata ad un'ora circa data la scarsità di pellicola. Anche Tora no o fumu otokotachi, di Akira Kurosawa, appartiene a questo periodo e a questo genere.

Mizoguchi sembra però allontanarsi da ogni tentazione guerresca e costruisce piuttosto una apologia della via della spada. La trama è semplice, lineare. Kiyone Sakurai è un giovane e promettente artigiano, che apprende l'arte dal maestro spadaio Kiyohide Yamatomori, assieme all'altro apprendista Kiyotsugu. Il lettore avvertito avrà già compreso che l'assonanza dei nomi non è casuale: era la norma che l'apprendista cambiasse il suo nome, gliene veniva assegnato uno nuovo derivato da quello del maestro che lo identificasse immediatamente come suo allievo e successore.


Sakurai forgia una nuova magnifica spada per il suo protettore, Kozaemon Onoda, della cui figlia Sasae è visibilmente innamorato. Amore destinato a non avere un seguito, essendo improbo colmare la differenza di rango esistente tra i due.

Sfortunatamente durante il servizio di scorta al suo signore Onoda deve fronteggiare un agguato: siamo al termine del periodo Edo, all'epoca della sanguinosa guerra civile tra i partigiani dello shogunato Tokugawa e i seguaci dell'imperatore che avrebbe dovuto riprendere il potere temporale. Ma nel pieno della lotta la spada si spezza, e solo l' intervento degli altri samurai salva il signore dalla morte sicura.

Onoda per quanto incolpevole viene rimosso e confinato agli arresti domiciliari. Gli viene offerta dal consigliere Daito una possibilità di uscita, ma l'intercessione di Daito è condizionata: chiede in cambio la mano di Sasae. Onoda rifiuta di considerare sua figlia merce di scambio. Accecato dall'ira Daito lo assale a tradimento e lo uccide.

Ogni speranza o progetto di vita degli eroi della vicenda sembra crollare. Sasae si rifugia in un convento, meditando la vendetta. Il maestro Kiyohide si uccide, sopraffatto dalla vergogna di avere fabbricato spade prive di anima, poste al servizio di cause indegne.

Chiede in punto di morte ai due allievi di continuare la sua opera, ma di forgiare solamente spade che siano al servizio dell'imperatore. I due non si sentono all'altezza del compito: è possibile dare un'anima ad un oggetto, quando si è privi di un ideale e di uno scopo nella vita?

Ma lo scopo lo fornirà Sasae: chiede di forgiare una spada destinata ad uccidere Daito, servendo la causa della sua vendetta e quella dell'imperatore: Daito era diventato uno dei primi partigiani dello shogun.


La fabbricazione della spada, che riesce solo dopo numerosi vani tentativi, occupa la parte principale del film ed è per certi versi quella più interessante, per quanto sia stata rimproverata a Mizoguchi l'eccessiva insistenza su questo tema, che secondo alcuni critici fa pensare ad un documentario sulla fabbricazione della spada giapponese.

Ma la ricerca della perfezione nell'opera materiale è chiaramente la ricerca della perfezione e della purezza dentro se stessi, e i frustranti insuccessi dei due maestri spadai sono il necessario preludio al successo finale, ottenibile affrontando i propri problemi e le proprie contraddizioni interne e non ignorandoli.

L'ultima spada, ricavata dall'ultimo lotto di acciaio che era rimasto, supera la prova del kabuto jiri (taglio di un elmo di acciaio) e viene consegnata nelle mani di Sasae.

Non sarà facile raggiungere Daito: si trova a Kyoto, ove comanda un reparto dello shogun che si trova sotto assedio. Ma il comandante delle truppe imperiali acconsente a richiedere ad una tregua e fa accompagnare Sasae e i due spadai oltre le linee nemiche.

Sasae avrà finalmente la sua vendetta, ed al termine di un combattimento privato che si svolge nel bel mezzo della sanguinosa guerra civile, tra il fischio delle pallottole e l'esplosione delle granate, la spada Bijomaru toglie la vita a Daito. Sasae sarà forse attesa da un futuro più roseo, al fianco di Sakurai: quella battaglia ha segnato la nascita di un nuovo Giappone, in cui ci sarà posto anche per la loro storia.