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La mostra temporanea Samurai! è aperta - ricordiamo che lo sarà fino al 3 novembre 2013 - al primo piano del grande palazzo, che forse Stibbert ha voluto far sottovalutare al visitatore con un ingresso dignitoso ma non sontuoso, che collocato d'angolo nasconde la mole dell'edificio e non lascia immaginare la vastità del parco in cui sorge.

Come se il facoltoso collezionista pregustasse il piacere di sorprendere gli avventori con una una improvvisa non preventivabile maestosità.

Riprende grossomodo gli schemi della precedente mostra La peonia e la spada, allestita nel 1999, ed anche se non vengono citate espressamente - d'altronde sono le armature quelle che richiamano maggiormente l'attenzione del visitatore inesperto, le lame vi sostengono un ruolo importante.

Non era usuale in Giappone assemblare le armature in modo realistico ed in atteggiamento guerresco. Era tuttavia costume in occidente e le maestranze giapponesi si adeguarono, fornendo  dei manichini che costituiscono anche loro una importante testimonianza dell'incontro tra due culture tanto diverse.

La composizione dei vari elementi, probabilmente ad opera dello stesso Stibbert e dei suoi più stretti collaboratori, non fu impeccabile. La trasmissione delle opportune informazioni tecniche non era d'altronde facile nell'ottocento.

E' il caso ad esempio della errata collocazione di alcune parti dell'armamento, come le ebira (faretre da guerra), che si immaginavano portate in modo differente o venivano confuse con quelle da viaggio per il trasporto, o dell'incoccatura al contrario degli archi, profondamente diversi nella concezione da quelli europei.

Un paziente lavoro di analisi ha permesso la correzione di molti di questi errori.

 

 

Alcuni rimangono tuttora terreno di esplorazione. Su richiesta di de Feo sono state fotografati a campione alcuni dei kamon (emblemi di famiglia) presenti sulle armature prescelte per la mostra.

Non è inconsueto trovare sulla stessa armatura diversi mon, per esempio quello pertinente alla casata di famiglia del guerriero e quello del feudatario da cui dipende. Qui un esempio di kabuto (elmo) su cui appaiono tre differenti mon: un gioco di aironi sul maedate (emblema frontale)  che potrebbe essere quello di diverse differenti casate, una libellula sull'hachi (coppo), ma possiamo anche pensare ad un semplice motivo ornamentale, un mon vero e proprio sul mabizashi (visiera) raffigurante un mitsutomoe, in tutto simile alla triskele che si trova in molte raffigurazioni della cultura vichinga, che si sovrappone ad un sakura (fiore di ciliegio).

Altre armature evidenziano incongruenze meno accettabili, come ad esempio la diversità dei mon nelle varie componenti delle spade e particolarmente del tachi (kabuto gane, fuchi, tsuka ai, tsuba, saya, ichi no ashi e ni no ashi, shiba biki, kojiri...). E' possibile che le armature siano già arrivate dal Giappone in queste condizioni, è possibile che queste discrepanze siano frutto della selezione operata dallo stesso Stibbert o comunque da lui approvata.

Ma una attenta e minuziosa opera di riclassificazione, per quanto richieda un lavoro enorme, potrebbe riservare diverse sorprese.

Nella immagine a fianco lo yotsume (quadruplice occhio  od anche quadruplice diamante), kamon anche del leggendario generale Takeda Shingen, nella cui casata si tramandava il daito ryu aikijujutsu da cui discende l'odierno aikidô, riportato sopra il guanto di una armatura.

Accanto alle armature assemblate con gusto occidentale una sezione della mostra mostrava diversi esemplari montati filologicamente alla giapponese ossia semplicemente appoggiati sopra una cassa, che era generalmente quella utilizzata per il loro trasporto, e privi delle armi da taglio a corredo.

Per quanto essenziale questa disposizione non manca di fascino.

Le armature esposte erano del genere tosei gusoku ossia moderne, ma questa denominazione non deve trarre in inganno.

Venivano definite moderne solamente in relazione allo stile antico, perché in realtà risalgono al periodo Edo, grossomodo corrispondente al dominio della dinastia Tokugawa ossia tra il 1603 ed il 1868.

 

Si caratterizzano per l'uso ormai esteso delle protezioni metalliche, che condizionano fortemente anche il loro aspetto generale poiché vengono portate più aderenti al corpo, abbandonando le vistose protezioni in bambu e nastro di seta che tendevano a deviare i colpi nemici più che ad arrestarli.

L'acciaio veniva sovente laccato, per prevenire premature formazioni di ruggine dovute alla forte umidità del clima giapponese oltre che per ragioni estetiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le immagini naturalmente varranno - meglio di ogni aggrovigliato tentativo di spiegazione - a far apprezzare il temibile aspetto di questi magnifici strumenti di guerra.

L'armatura giapponese classica veniva definita o yoroi (grande armatura) per distinguerla dalle rudimentali ed incomplete protezioni che indossavano gli ashigaru, i samurai di fanteria armati di picche e più tardi di fucili ad avancarica.

Queste pur rozze armi da fuoco durante l'epoca Sengoku, ossia dei Regni combattenti  seminavano indiscriminatamente la morte tra le file dei guerrieri più nobili, suscitando lo stesso orrore e disgusto che avevano già provocato nella cavalleria europea.

Mentre l'identità del guerriero era desumibile dal kamon, l'appartenenza ad un feudo o ad una armata veniva segnalata mediante i colori della fitta nastratura in seta che ricopriva i pannelli di protezione o della laccatura che la sostituì quasi del tutto sulle parti metalliche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il kabuto (elmo) del guerriero di nobile lignaggio era costituito da un hachi (coppo) a volte laccato, con pronunciata visiera. 

Un vistoso chikoro (paranuca) proteggeva la nuca, ed lo yodare-kake (gorgiera) la gola.

La prima lamina dello chikoro era ripiegata in avanti ai lati della visiera in modo da proteggere il guerriero dai colpi che scivolassero sull'elmo, formando i due fukigaeshi: su questi si era soliti apporre il kamon.

Un emblema frontale, maedate, talvolta accompagnato da due ornamenti laterali, wakidate, permetteva il riconoscimento da lontano.

Il volto del guerriero era protetto dal menpo, una maschera in acciaio, con la parte superiore asportabile per agevolare la respirazione oppure monoblocco nel tipo denominato somen.

 

Quando costruito con molteplici lamelle, il kabuto era talvolta fittamente ricoperto dai kyo, spuntoni di acciaio ribattuti che avevano il compito di arrestare i fendenti,  talvolta spezzando perfino la spada del nemico o rendendola comunque quasi inservibile.

L'hachimanji, una apertura sulla sommità ,aveva oltre al compito di permettere l'areazione quello di richiedere la protezione degli dei.

 

 

 

 

 

 

 

Uno o più nodi rituali, pendenti da un anello posto sullo chikoro  oppure  - in questo caso di dimensioni molto maggiori - dal dorsale dell'armatura, avevano la stessa funzione apotropaica.

E' evidente come il profilo dell'armatura giapponese tosei gusoku sia attentamente studiato per deviare i colpi, allontandoli dai punti vulnerabili mediante una opportuna inclinazione verso l'esterno delle differenti componenti.

Gli o yoroi dei periodi precedenti erano dotati piuttosto di grandi pannelli di protezione che mascheravano i contorni del corpo ed erano lasciati liberi di basculare quando ricevevano un colpo, che difficilmente di conseguenza manteneva la linea di taglio o di penetrazione ideali. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimarrebbe molto da dire sulle lame esposte nella mostra, ma ce ne manca la competenza.

Tralasciamo del tutto di menzionare quelle racchiuse dentro i loro koshirae per accennare brevemente a quelle esposte, finalmente, come si conviene: assolutamente nude, così come furono concepite dai maestri forgiatori.

Solamente quattro, tutte della tipologia katana, ma di grande levatura.

In alto: Suishinshi Fujiwara Masatsugu (Kao). Appartenente alla scuola di Taikei Naotane. 1838 (epoca Shinshinto).

In basso: Sakon Korekazu. Atttribuita alla scuola Ishido in Musashi. Seconda metà del XVII secolo (epoca Shinto).

 

 

Particolare del nakago (codolo) della lama di Masatsugu con il mei (firma) dell'artista. Il nakago è ubu: la lama non è stata mai manomessa accorciandolo.
 
E' invece suriage (accorciata) la lama sottostante di Korekazu, come testimoniato visibilmente dai due diversi mekugi ana (fori di fissaggio del manico), di cui il posteriore non distinguibile nella foto. La firma è assente, forse perduta nell'accorciamento del codolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Particolare dell'horimono (incisione) sulla lama di Masatsugu.
 
E' uno dei temi più ricorrenti, il drago d'acqua.
 
 Evidente la linea di tempera sul tagliente finale, boshi. La linea perpendicolare chiamata yokote separa il corpo della spada, il boshi e lo shinogi - piano di raccordo tra il lato ed il dorso (mune) della lama - che incontra nel punto chiamato mitsukado.
 
 
 
 
 
 
 
 
In alto: Mutsu no Kami Tachibana Terumasa. Scuola Kuniteru di Setsu. Seconda metà del XVII secolo (epoca Shinto). Suriage.
 
In basso: Bizen no Kuni no ju Osafune Sukesada saku. Scuola Sue Bizen. 1571 (epoca Koto).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nakago della lama di Terumasa, con tre mekugi ana ed il mei.
 
Apparentemente la spada è stata accorciata due volte, ma è probabile che sia stata in realtà adattata dalla montatura tachi, che ha due mekugi ana di cui uno in prossimità del nakago jiri (l'estremità), a quella katana che ne ha uno solo; e che in quella occasione sia stata leggermente accorciata, presumibilmente della distanza che corre tra i due ana anteriori.
 
In caso di accorciamento maggiore non sarebbe stata possibile la conservazione del mei.
 
 
 
 
 
 
Particolare della lama di Terumasa.
 
Presenta uno hi (scanalatura o sguscio) con funzioni allo stesso tempo di alleggerimento, irrobustimento e decorazione, che corre lungo lo shinogi.
 
L'importanza dell'hamon (linea di tempera) che in questo esemplare raggiunge quasi lo shinogi si dimostrò talvolta controproducente in battaglia, causando una eccessiva fragilità della lama.
 
L'epoca Shinto (dall'inizio del dominio Tokugawa, 1603, fino all'ultimo quarto del  XVIII secolo) fu tuttavia fondamentalmente un periodo di pace, ed in diversi casi è possibile che si sia privilegiato l'aspetto estetico delle lame piuttosto che quello funzionale.