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Nel giugno 2013 si è tenuto presso il Centro Civico Colonnata Camporella di Sesto Fiorentino il secondo seminario sulla spada giapponese organizzato dalla INTK, Associazione Italiana per la spada Giapponese e tenuto da Francesco de Feo. Il relatore ha voluto per questa seconda sessione di studio un titolo emblematico: All'ombra della spada.

Nel corso della lunga e proficua giornata di studi è stato soprattutto messo in rilievo il particolare carattere delle scuole d'arte giapponesi, e non solo quelle che si dedicano da molti secoli al culto della spada. La spersonalizzazione dell'artista, che al momento di entrare a far parte ufficialmente della scuola ottenendo l'autorizzazione a firmare le sue opere, assume tuttavia un nuovo nome che lo identifica come adepto di quella scuola, portandolo in quel momento ad abbandonare di fatto l'identità precedente per assumerne una competamente nuova al servizio non di se stesso ma dell'arte.

Parte rilevante nel seminario ha avuto lo studio di una importante lama che costituisce un anello di congiunzione tra la tipologia tachi e quelle uchigatana e poi katana che iniziarono a diffondersi ed affermarsi alle soglie del periodo Sengoku.

La montatura, anchessa di grande valore artistico, risale invece al tardo periodo Edo - Shinshinto in termini di epoche di produzione delle lame - se non forse al primo periodo Meiji. In ogni caso precedente all'Haitôrei che ha interdetto nel 1876 il porto della spada.

Sarebbe vano pretendere con le nostre poche risorse di rendere appieno il senso di quanto de Feo, che vediamo nella foto in alto assieme al maestro togishi Massimo Rossi, segretario della INTK,  ha voluto trasmettere agli studiosi ed agli appassionati. Possiamo solamente augurarci che intervengano sempre più numerosi e di vederli progredire costantemente nei loro studi.

La giornata successiva è stata dedicata ad una visita guidata al Museo Stibbert, che ha sede a Firenze, che vanta una delle più importanti collezioni italiane di armi giapponesi. De Feo ha illustrato le preziose lame esposte nella mostra Samurai! Armature giapponesi della Collezione Stibbert mentre il presidente onorario dell'INTK Alberto Roatti oltre ad illustrare convenientemente le armature giapponesi ha saputo guidare i visitatori anche alla scoperta di quelle europee e medio orientali, non meno importanti e numerose.

Non è tuttavia possibile parlare del Museo Stibbert senza un breve accenno al suo creatore: Frederick Stibbert (1838-1906).

Di padre britannico e madre italiana, rimase per tutta la vita legato ad entrambe le nazioni, ma fu a Firenze il centro della sua vita.

Pur non tenendosi in disparte dalle tensioni sociali e politiche del suo tempo, fu volontario nelle formazioni di Garibaldi, Stibbert si dedicò soprattutto al collezionismo, forte dell'imponente patrimonio rimasto nelle sue mani: era infatti l'ultimo discendente di una famiglia molto facoltosa di militari britannici.

 

 

 

 

Concepì e costruì fin dalle fondamenta una grande villa a Montughi, allora nelle vicinanze di Firenze ed ora inglobata nella città, e continuò per tutta la vita ad accumularvi opere d'arte ma soprattutto armi, provenienti da ogni parte del mondo.

Alla sua morte, essendo privo di eredi, lasciò tutto alla corona britannica, ma con facoltà di trasmettere la proprietà al Comune di Firenze, come effettivamente avvenne.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il gusto dell'epoca era per molti versi distante da quello moderno, e Stibbert era naturalmente figlio del suo tempo.

Una sorta di horror vacui serpeggiava all'epoca non solo tra i collezionisti privati ma anche nelle raccolte ufficiali.

Veniva raccolto di tutto, colmando fino all'inverosimile sterminate vetrine prive di alcuna spiegazione sopra quanto esposto, mentre vari oggetti-  anche di provenienze, epoche e stili non omogenei - venivano assemblati artisticamente per comporre magari dei trofei appesi a grande altezza alle pareti senza che il visitatore potesse esaminarli e nemmeno vederli da vicino.

 

 

 

Eppure le camere delle meraviglie ottocentesche hanno un loro innegabile fascino, e quella di Frederick Stibbert ne è uno dei massimi esempi.

I criteri di conservazione e di esposizione di un museo moderno sono certamente altri, non compatibili con quelli romantici dei grandi collezionisti dell'ottocento, cui pure dobbiamo grande riconoscenza.

Anche la disposizione voluta da Stibbert è una testimonianza importante di un tempo passato di cui è necessario conservare memoria.

Ci sembra inevitabile accogliere con favore la proposta di de Feo: conservare il Museo Stibbert così come è ora, esponendo tuttavia a rotazione le opere più significative, rispettando criteri più moderni e scientifici.

Ed è appunto quanto intende fare la mostra Samurai!, che rimarrà aperta al pubblico fino al 3 novembre 2013, esponendo e descrivendo convenientemente settanta dei suoi capolavori.

 

 


La visita al museo inizia da una grande sala in cui sono raccolte numerose pregevoli armature, prevalentemente italiane. Per apprezzarle appieno è indispensabile la guida di un esperto, che era in questa occasione Alberto Roatti.

E' particolarmente percepibile fin da qui la particolare impostazione voluta da Stibbert per la sua esposizione, che lo accomuna agli grandi collezionisti ottocenteschi ma che era, come abbiamo già detto, condivisa anche dai maggiori musei istituzionali.

 

 

 

 

 

 

 

L'ambientazione è innegabilmente  artificiosa: si è voluta ricreare una atmosfera suggestiva.

Le grandi sale sono decorate con gusto arcaicizzante e in alto sulle interminabili pareti, lungo le modanature, corrono file di blasoni di gusto medioevale.

Le opere d'arte esposte sono tuttavia di vario genere e varie epoche.

Qui vediamo come le pareti siano letteralmente ricoperte di tele dipinte,che è però difficile apprezzare per la loro collocazione, per il senso di saturazione che dà il loro affollamento, e perché distolti da altre opere.

 

 

 

 

La parte del leone è riservata infatti alle armi, disposte in modo da incutere all'osservatore stupore, ammirazione, una punta di timore.

Giustamente famosa è la cosidetta cavalcata.

All'interno di una lunga sala è disposto su due file un corteo di  cavalieri rivestiti delle loro armature, impenetrabili dietro le loro celate, ed in atteggiamenti anchessi suggestivi.

In atto di porre la lancia in resta ad esempio o di estrarre la lunga spada, come mostrato nella immagine della pagina precedente.

Non potremmo giurare sulla esattezza filologica degli assemblaggi e delle ricostruzioni, lo testimonia ad esempio la presenza nella fila destra di un cavaliere moro, inspiegabilmente collocato fuori della sua destinazione naturale, l'importante sezione medio orientale, di cui non possiamo accennare per mancanza sia di spazio che di competenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' innegabile che l'impatto estetico ed emozionale voluto e rigorosamente perseguito da Frederick Stibbert - benché a prezzo di non poche  trasgressioni - sia forte.

Per ogni visitatore,  con qualunque grado di preparazione culturale e a prescindere da spiegazioni dettagliate.

 

 

 

 

 

 

 

 

Interminabili corridoi, avvolti da una semi penombra anchessa suggestiva, lasciano immaginare innumerevoli altri tesori non accessibili.

La vastità del museo e la scarsezza di personale non permettono infatti di ammettere il pubblico in tutte le sale.

Oltretutto gli oggetti non racchiusi nelle vetrine rimangono a portata di mano di ogni visitatore malaccorto, se non addirittura malintenzionato.

 

 

 

 

 

 

Opportunamente all'interno di una vetrina un oggetto di straordinario fascino. Un elmo legionario rinvenuto nel Po.

Si pensa a giudicare dalla fattura, si direbbe del tipo definito imperiale italico risalente al I secolo d.C., che possa essere una reliquia della battaglia di Bedriaco, in cui le armate dell'imperatore Vitellio tentarono inutilmente di arrestare le legioni di Vespasiano.

Era il cosidetto anno dei 4 imperatori in cui salirono al trono dopo Nerone, in rapidissima successione e sempre condannati ad una tragica fine, prima Servio Galba, poi Marco Otone e dopo ancora Aulo Vitellio. Ma le legioni della Pannonia e della Mesia proclamarono imperatore Tito Flavio Vespasiano, che postosi alla loro testa invase l'Italia sconfiggendo Vitellio a Bedriaco.

Immediatamente dopo la battaglia Vitellio abdicò ma ritornato a Roma il suo temperamento indeciso ed incostante prese il sopravvento. Riprese il potere, invano contrastato dal prefetto dell'urbe Tito Flavio Sabino, fratello di Vespasiano. Ma la notizia dell'avvistamento delle avanguardie di Vespasiano lo gettò nel panico.

Si fece portare in lettiga nella sua dimora all'Aventino, barricandosi dentro una stanza nella incomprensibile speranza di non essere lì rintracciato. Non fu così.

Venne trascinato per i capelli e con una spada alla gola, come si usava per i criminali, verso il foro - non distante - ed ucciso ai piedi delle scale Gemonie. In un ultimo soprassalto di dignità, ai legionari che lo avevano scoperto e chiedevano conferma della sua identità, aveva detto: "Sì, io fui una volta il vostro imperatore."

Ma è tempo ora di occuparsi della mostra Samurai! e della sezione giapponese del museo.

 


 

La mostra temporanea Samurai! è aperta - ricordiamo che lo sarà fino al 3 novembre 2013 - al primo piano del grande palazzo, che forse Stibbert ha voluto far sottovalutare al visitatore con un ingresso dignitoso ma non sontuoso, che collocato d'angolo nasconde la mole dell'edificio e non lascia immaginare la vastità del parco in cui sorge.

Come se il facoltoso collezionista pregustasse il piacere di sorprendere gli avventori con una una improvvisa non preventivabile maestosità.

Riprende grossomodo gli schemi della precedente mostra La peonia e la spada, allestita nel 1999, ed anche se non vengono citate espressamente - d'altronde sono le armature quelle che richiamano maggiormente l'attenzione del visitatore inesperto, le lame vi sostengono un ruolo importante.

Non era usuale in Giappone assemblare le armature in modo realistico ed in atteggiamento guerresco. Era tuttavia costume in occidente e le maestranze giapponesi si adeguarono, fornendo  dei manichini che costituiscono anche loro una importante testimonianza dell'incontro tra due culture tanto diverse.

La composizione dei vari elementi, probabilmente ad opera dello stesso Stibbert e dei suoi più stretti collaboratori, non fu impeccabile. La trasmissione delle opportune informazioni tecniche non era d'altronde facile nell'ottocento.

E' il caso ad esempio della errata collocazione di alcune parti dell'armamento, come le ebira (faretre da guerra), che si immaginavano portate in modo differente o venivano confuse con quelle da viaggio per il trasporto, o dell'incoccatura al contrario degli archi, profondamente diversi nella concezione da quelli europei.

Un paziente lavoro di analisi ha permesso la correzione di molti di questi errori.

 

 

Alcuni rimangono tuttora terreno di esplorazione. Su richiesta di de Feo sono state fotografati a campione alcuni dei kamon (emblemi di famiglia) presenti sulle armature prescelte per la mostra.

Non è inconsueto trovare sulla stessa armatura diversi mon, per esempio quello pertinente alla casata di famiglia del guerriero e quello del feudatario da cui dipende. Qui un esempio di kabuto (elmo) su cui appaiono tre differenti mon: un gioco di aironi sul maedate (emblema frontale)  che potrebbe essere quello di diverse differenti casate, una libellula sull'hachi (coppo), ma possiamo anche pensare ad un semplice motivo ornamentale, un mon vero e proprio sul mabizashi (visiera) raffigurante un mitsutomoe, in tutto simile alla triskele che si trova in molte raffigurazioni della cultura vichinga, che si sovrappone ad un sakura (fiore di ciliegio).

Altre armature evidenziano incongruenze meno accettabili, come ad esempio la diversità dei mon nelle varie componenti delle spade e particolarmente del tachi (kabuto gane, fuchi, tsuka ai, tsuba, saya, ichi no ashi e ni no ashi, shiba biki, kojiri...). E' possibile che le armature siano già arrivate dal Giappone in queste condizioni, è possibile che queste discrepanze siano frutto della selezione operata dallo stesso Stibbert o comunque da lui approvata.

Ma una attenta e minuziosa opera di riclassificazione, per quanto richieda un lavoro enorme, potrebbe riservare diverse sorprese.

Nella immagine a fianco lo yotsume (quadruplice occhio  od anche quadruplice diamante), kamon anche del leggendario generale Takeda Shingen, nella cui casata si tramandava il daito ryu aikijujutsu da cui discende l'odierno aikidô, riportato sopra il guanto di una armatura.

Accanto alle armature assemblate con gusto occidentale una sezione della mostra mostrava diversi esemplari montati filologicamente alla giapponese ossia semplicemente appoggiati sopra una cassa, che era generalmente quella utilizzata per il loro trasporto, e privi delle armi da taglio a corredo.

Per quanto essenziale questa disposizione non manca di fascino.

Le armature esposte erano del genere tosei gusoku ossia moderne, ma questa denominazione non deve trarre in inganno.

Venivano definite moderne solamente in relazione allo stile antico, perché in realtà risalgono al periodo Edo, grossomodo corrispondente al dominio della dinastia Tokugawa ossia tra il 1603 ed il 1868.

 

Si caratterizzano per l'uso ormai esteso delle protezioni metalliche, che condizionano fortemente anche il loro aspetto generale poiché vengono portate più aderenti al corpo, abbandonando le vistose protezioni in bambu e nastro di seta che tendevano a deviare i colpi nemici più che ad arrestarli.

L'acciaio veniva sovente laccato, per prevenire premature formazioni di ruggine dovute alla forte umidità del clima giapponese oltre che per ragioni estetiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le immagini naturalmente varranno - meglio di ogni aggrovigliato tentativo di spiegazione - a far apprezzare il temibile aspetto di questi magnifici strumenti di guerra.

L'armatura giapponese classica veniva definita o yoroi (grande armatura) per distinguerla dalle rudimentali ed incomplete protezioni che indossavano gli ashigaru, i samurai di fanteria armati di picche e più tardi di fucili ad avancarica.

Queste pur rozze armi da fuoco durante l'epoca Sengoku, ossia dei Regni combattenti  seminavano indiscriminatamente la morte tra le file dei guerrieri più nobili, suscitando lo stesso orrore e disgusto che avevano già provocato nella cavalleria europea.

Mentre l'identità del guerriero era desumibile dal kamon, l'appartenenza ad un feudo o ad una armata veniva segnalata mediante i colori della fitta nastratura in seta che ricopriva i pannelli di protezione o della laccatura che la sostituì quasi del tutto sulle parti metalliche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il kabuto (elmo) del guerriero di nobile lignaggio era costituito da un hachi (coppo) a volte laccato, con pronunciata visiera. 

Un vistoso chikoro (paranuca) proteggeva la nuca, ed lo yodare-kake (gorgiera) la gola.

La prima lamina dello chikoro era ripiegata in avanti ai lati della visiera in modo da proteggere il guerriero dai colpi che scivolassero sull'elmo, formando i due fukigaeshi: su questi si era soliti apporre il kamon.

Un emblema frontale, maedate, talvolta accompagnato da due ornamenti laterali, wakidate, permetteva il riconoscimento da lontano.

Il volto del guerriero era protetto dal menpo, una maschera in acciaio, con la parte superiore asportabile per agevolare la respirazione oppure monoblocco nel tipo denominato somen.

 

Quando costruito con molteplici lamelle, il kabuto era talvolta fittamente ricoperto dai kyo, spuntoni di acciaio ribattuti che avevano il compito di arrestare i fendenti,  talvolta spezzando perfino la spada del nemico o rendendola comunque quasi inservibile.

L'hachimanji, una apertura sulla sommità ,aveva oltre al compito di permettere l'areazione quello di richiedere la protezione degli dei.

 

 

 

 

 

 

 

Uno o più nodi rituali, pendenti da un anello posto sullo chikoro  oppure  - in questo caso di dimensioni molto maggiori - dal dorsale dell'armatura, avevano la stessa funzione apotropaica.

E' evidente come il profilo dell'armatura giapponese tosei gusoku sia attentamente studiato per deviare i colpi, allontandoli dai punti vulnerabili mediante una opportuna inclinazione verso l'esterno delle differenti componenti.

Gli o yoroi dei periodi precedenti erano dotati piuttosto di grandi pannelli di protezione che mascheravano i contorni del corpo ed erano lasciati liberi di basculare quando ricevevano un colpo, che difficilmente di conseguenza manteneva la linea di taglio o di penetrazione ideali. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimarrebbe molto da dire sulle lame esposte nella mostra, ma ce ne manca la competenza.

Tralasciamo del tutto di menzionare quelle racchiuse dentro i loro koshirae per accennare brevemente a quelle esposte, finalmente, come si conviene: assolutamente nude, così come furono concepite dai maestri forgiatori.

Solamente quattro, tutte della tipologia katana, ma di grande levatura.

In alto: Suishinshi Fujiwara Masatsugu (Kao). Appartenente alla scuola di Taikei Naotane. 1838 (epoca Shinshinto).

In basso: Sakon Korekazu. Atttribuita alla scuola Ishido in Musashi. Seconda metà del XVII secolo (epoca Shinto).

 

 

Particolare del nakago (codolo) della lama di Masatsugu con il mei (firma) dell'artista. Il nakago è ubu: la lama non è stata mai manomessa accorciandolo.
 
E' invece suriage (accorciata) la lama sottostante di Korekazu, come testimoniato visibilmente dai due diversi mekugi ana (fori di fissaggio del manico), di cui il posteriore non distinguibile nella foto. La firma è assente, forse perduta nell'accorciamento del codolo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Particolare dell'horimono (incisione) sulla lama di Masatsugu.
 
E' uno dei temi più ricorrenti, il drago d'acqua.
 
 Evidente la linea di tempera sul tagliente finale, boshi. La linea perpendicolare chiamata yokote separa il corpo della spada, il boshi e lo shinogi - piano di raccordo tra il lato ed il dorso (mune) della lama - che incontra nel punto chiamato mitsukado.
 
 
 
 
 
 
 
 
In alto: Mutsu no Kami Tachibana Terumasa. Scuola Kuniteru di Setsu. Seconda metà del XVII secolo (epoca Shinto). Suriage.
 
In basso: Bizen no Kuni no ju Osafune Sukesada saku. Scuola Sue Bizen. 1571 (epoca Koto).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nakago della lama di Terumasa, con tre mekugi ana ed il mei.
 
Apparentemente la spada è stata accorciata due volte, ma è probabile che sia stata in realtà adattata dalla montatura tachi, che ha due mekugi ana di cui uno in prossimità del nakago jiri (l'estremità), a quella katana che ne ha uno solo; e che in quella occasione sia stata leggermente accorciata, presumibilmente della distanza che corre tra i due ana anteriori.
 
In caso di accorciamento maggiore non sarebbe stata possibile la conservazione del mei.
 
 
 
 
 
 
Particolare della lama di Terumasa.
 
Presenta uno hi (scanalatura o sguscio) con funzioni allo stesso tempo di alleggerimento, irrobustimento e decorazione, che corre lungo lo shinogi.
 
L'importanza dell'hamon (linea di tempera) che in questo esemplare raggiunge quasi lo shinogi si dimostrò talvolta controproducente in battaglia, causando una eccessiva fragilità della lama.
 
L'epoca Shinto (dall'inizio del dominio Tokugawa, 1603, fino all'ultimo quarto del  XVIII secolo) fu tuttavia fondamentalmente un periodo di pace, ed in diversi casi è possibile che si sia privilegiato l'aspetto estetico delle lame piuttosto che quello funzionale.

 


 
Il secondo piano della grande villa ai piedi di Fiesole è stata dedicato da Frederick Stibbert alla collezione di armi giapponesi, e quasi nulla è cambiato da quando gettò un ultimo sguardo soddisfatto alla sua realzizzazione, prima di aprirla finalmente ai visitatori.
 
Un drappello di guerrieri giapponesi, che qui Alberto Roatti sta illustrando al gruppo degli studiosi dell'INTK, è schierato in atteggiamento di battaglia nella vasta sala d'ingresso. In analogia con la cavalcata medioevale e la cavalcata islamica esposte al piano terra, il gruppo viene definito cavalcata giapponese.
 
 
 
 
 
Spicca tra le altre figure per naturalezza e qualità della realizzazione quella dell'arciere, realizzata in Giappone intorno al 1870 da Kisaburo Matsumoto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Per quanto la richiesta di realizzare un manichino fosse assolutamente inusuale le maestranze giapponesi, fino ad allora avvezze ad una relativa stabilità nella tecnologia di produzione dei manufatti, si adeguarono prontamente.
 
L'apparente contraddizione tra la fedeltà alle tradizioni e la capacità di adattamento alle innovazioni più drastiche è la chiave di lettura dei molti successi che può vantare la società giapponese dal momento della sua apertura al mondo esterno.
 
 
 
 
 
 
 
Il particolare permette di apprezzare la qualità di realizzazione ed il realismo dell'opera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Una descrizione anche parziale di quanto racchiudono queste ennesime camere delle meraviglie del Museo Stibbert richiederebbe molte più energie di quelle di cui disponiamo.
 
Sono del resto ben pochi quelli che ne potrebbero disporre: lo Stibbert sembra che abbia nella sua collezioni circa 10.000 armi, e non abbiamo accennato se non di sfuggita alle importanti raccolte di quadri, mobili d'epoca, capi di costume storici ed altro ancora.
 
Solo il contenuto di questa vetrina, una delle minori, richiederebbe giorni e giorni di studi. Notare che quelli appesi sul fondo non sono scudi ma jingasa: cappelli corazzati da guerra, ma talvolta portati anche in abiti civili.
 
 
Occorre soprattutto arrendersi senza condizioni anche soltanto alla visione delle vetrine più grandi ed affollate.
 
Analizzarle è al di sopra delle nostre forze.
 
Segnaliamo però almeno un altro articolo di questo sito, che prende lo spunto da una armatura di tipo inconsueto, esposta in posizione un po' defilata nella sala della cinesina, per poi abbandonarsi ad altre considerazioni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E' doveroso aprire una finestra sulla collezione di tsuba, le guardie amovibili e sostituibili di cui è dotata la katana giapponese. Quelle riservate al tachi hanno caratteristiche diverse e le segnaleremo eventualmente di volta in volta.
 
Rinunciamo irrevocabilmente ad ogni pretesa di commento tecnico, lasciando eventualmente posto a qualche apprezzamento personale. Ugualmente personali sono stati i criteri di selezione.
 
In questa tsuba, a sezione yuko ito gata con lobatura agli angoli, è molto gradevole il contrasto tra la la superficie liscia dei fiori, esaltata dalla laccatura, e quella scabra del fondo che separando i due piani aggiunge profondità all'opera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ogni tsuba è esposta allo Stibbert dal lato omote, quello normalmente più ricco e dove viene apposta la firma dell'artista.
 
Naturalmente non è possibile apprezzare una tsuba senza prendere visione anche del suo lato ura, come non è possibile pensare di comprendere il mondo conoscendo solo il sole e la luce e non la notte e le tenebre.
 
Ancora una volta la fruibilità di preziosi oggetti d'arte è fortemente compromessa dalla loro collocazione: andrebbero disposti in verticale entro vetrine accessibili da entrambi i lati.
 
In altri casi come già detto sarebbe preferibile mantenere la disposizione originale voluta dallo Stibbert. Qui ci sarebbero i margini per intervenire.
 
La tsuba a lato è del tipo maru gata (rotonda) con un evidente mimi (anello perimetrale) ed in acciaio, con riporti in oro e, probabilmente, shakudo.
 
 
 
 
 
 
Ancora una marugata in acciaio, con riporti in oro e shakudo.
 
Come nella grande maggioranza di questi oggetti il tema è ispirato alla natura, questa volta alla vita marina, sempre importante in una nazione circondata dall'oceano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questa tsuba di morfologia mokko (quadrilobata) mescola elementi fantastici, la fenice in oro visibile in alto, e scorci della natura, come l'inconfondibile pino giapponese il cui tronco è reso in shakudo o forse rame puro, mentre la chioma è in shibuichi.
 
Leghe rispettivamente - lo shakudo - in  oro, argento e bronzo,  da cui si ottiene una lega dal caratteristico colore marrone caldo e - lo shibuichi - in argento e rame, per un prodotto finale dalle affascinanti tonalità bluastre.
 
Evidenti i sekigane, scivoli in metallo morbido che facilitano l'inserimento della tsuba nel nakago della lama nonché l'adattamento a differenti lame.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Relativamente rara nella collezione la tsuba di tipo sukashi ossia lavorata a traforo, che pure era molto apprezzata in Giappone.
 
E' possibile che questa lavorazione sia stata considerata troppo povera dai fornitori di Stibbert, che non ebbe mai occasione di recarsi di persona in Giappone.
 
Gli furono forse proposti soprattutto oggetti ricchi nei materiali e complessi nella lavorazione, che erano effettivamente quelli che maggiormente attraevano i collezionisti europei.
 
Questa tsuba sukashi riprende un tema molto popolare, la pianta di aoi (malva). Tre foglie di aoi appaiono anche nel mon della famiglia Tokugawa, che ebbe il dominio assoluto del Giappone per tutta l'epoca che dalla dinastia prende il nome.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un solo esemplare, perlomeno ad una occhiata superficiale, della tsuba maggiormente apprezzata dal guerriero.
 
E' in tamahagane, la preziosa barra di acciaio multistrato a partire dalla quale si forgiano le lame, e la rifinitura volutamente grezza ne lascia ben visibile la complessa struttura.
 
Non ha ornamenti, non ha orpelli. In altri esemplari spesso mancano anche kozuka ana e kogai ana: l'arma del samurai è solamente un'arma e non monta accessori.
 
Presenti invece in basso gli udenuki ana che servono ad assicurare la lama con un cordino in modo che non esca accidentalmente dal fodero o non possa essere estratta volontariamente senza rompere un sigillo; precauzione che era frequente anche in occidente fin da tempi remoti.
 
Erano sigillati salvo che sui  campi di battaglia i gladi dei legionari romani, e in epoca più vicina a noi Benvenuto Cellini venne perseguito dalla giustizia perché il sigillo della sua spada era manomesso.
 
Non è un caso secondo lo scrivente che questa tsuba sia forse la sola fra tutte quante che rechi segni visibili - è percepibile l'impronta lasciata dalla seppa sul seppadai - di essere stata veramente montata su una spada.
 
E con questa considerazione che forse non è priva di rilevanza si chiude questo impegnativo ma forse fin troppo succinto resoconto di una visita al Museo Stibbert.