Goyokin
Hideo Gosha, 1969
Tatsuya Nakadai, Tetsuro Tamba
Le autorità di occupazione americane in Giappone proibirono dopo la seconda guerra mondiale la produzione e la proiezione di pellicole d'epoca che rappresentassero l'epopea dei samurai, considerati rappresentanti per antonomasia di una mentalità nazionalista e militarista che andava definitivamente estirpata dalla nazione. Col cessare del divieto, ufficialmente nel 1949 ma con numerosi episodi di censura ancora negli anni seguenti, arrivarono i grandi film epici di Akira Kurosawa ed altri.
Fu proprio Kurosawa ad inizio degli anni 60 a cercare una rottura col genere tradizionale, presentando prima con Yojimbo (1962) e poi con Sanjuro (1964) personaggi di samurai lontani da ogni eroismo, figure solitarie di perdenti che hanno rinunciato alle loro battaglie per vivere una vita randagia, ma trascinati loro malgrado ad impugnare ancora la spada per difendere violentemente, in un mondo violento, le ragioni della giustizia.
E' noto come Yojimbo sia stato il modello dell'opera Per un pugno di dollari di Sergio Leone, ambientata in ambiente western e che ridisegnava completamente il modello del western all'italiana avvicinandolo - e di molto - a quello giapponese. Un altra opera italiana di Sergio Corbucci, Il grande silenzio (1968) interpretato da Jean Louis Trintignant e Klaus Kinsky, propone un nuovo ulteriore scenario: non le assolate praterie del far west ma un ambiente di montagna dominato dalla neve ove il solitario Silenzio, reso muto dalla terribile vendetta dei suoi nemici, fa sbrigativa giustizia dei malfattori.
L'anno seguente viene prodotto in Giappone Goyokin e lo si vuole tributario del Grande Silenzio, di cui riprende l'ambientazione nel freddo nord dominato dai ghiacci e le scene di cieca violenza ad opera di uomini senza scrupoli legati agli apparati di potere, ricambiati da una mirata e deliberata violenza del protagonista. Lo dirige Hideo Gosha, che ha esordito pochi anni prima riprendendo alcuni stilemi di Akira Kurosawa e di Masaki Kobayashi che in Harakiri (1962) propone una ipotesi alternativa, più psicologica e conseguentemente con minore azione sulla scena, di presa di coscienza da parte di un samurai, costretto da ricorrenti ingiustizie a ribellarsi alla società che aveva giurato di difendere a costo della vita.
La trama:
Il samurai Magobei Wakiwaza ci viene presentato da Gosha come un uomo ormai alla deriva, autentico uomo onda - ronin - portato qua e là dal vento, senza più alcuno scopo nella vita. La spiegazione quando arriva è terribile: da quando ha assistito, complice involontario, allo sterminio di una povera comunità di pescatori che sopravviveva a stento in una costa fredda, arida ed inospitale, ha sentito la necessità di abbandonare il suo clan e la sua casta, e sta per abbandonare anche la sua spada. Lo ferma in extremis il sospetto che si stia di nuovo perpetrando una strage di persone innocenti, e la sua spada tornerà ad essere impugnata, a difesa non dell'ordine costituito ma dei deboli.
Hideo Gosha sa rendere adeguatamente anche le ragioni dei personaggi negativi, costretti loro malgrado a commettere crimini a catena per pura sopravvivenza, dovendosi adeguare alle regole di una società profondamente ingiusta. Non sappiamo se questa sia una prova tutto sommato di fiducia nei confronti del genere umano, e quindi di ottimismo, o piuttosto la prova di un fondamentale incrollabile pessimismo.