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Kon Ichikawa: Nobi
(Fires on the plain)
1959
Eiji Funakoshi, Osamu Takizawa, Mickey Curtis

 

Kon Ichikawa (1915-2008) è noto fuori del Giappone soprattutto se non esclusivamente per L'arpa birmana (1956). Nel 1959 diresse Nobi, tratto dall'omonimo romanzo di  Shōhei Ōoka (1909-1988) pubblicato in Italia da Einaudi nel 1957 col titolo La guerra del soldato Tamura. Non è mai stato distribuito invece il film di Ichikawa.

 

 

 

Del resto Ichikawa a parte l'episodico successo precedente rimane in Italia un illustre sconosciuto, nonostante sia stato uno dei più prolifici ed apprezzati registi giapponesi del XX secolo. Diresse 89 opere dal 1934 al 2006, opere che vanno dal'animazione al documentario - tra cui L'Olimpiade di Tokyo, per cui trasse ispirazione da un soggiorno a Roma durante le Olimpiadi precedenti e da La grande Olimpiade di Romolo Marcellini -  dalle grandi opere storiche (jidai) a quelle contemporanee (gendai).

Fuochi nella pianura è ambientato nel territorio occupato delle FIlippine, verso l'epilogo della seconda guerra mondiale, e narra la storia del soldato Tamura: dopo aver contratto la tubercolosi viene inviato in ospedale, ma se ne allontana dopo pochi giorni per tornare al suo reparto spinto dal senso del dovere.

Viene però affrontato violentemente dal suo comandante di squadra: gli rimprovera di aver vanificato il sacrificio dei compagni, che si sono privati del rancio per lasciarlo a lui onde riprendesse le forze, e di essere ritornato solamente per essere un peso morto, incapace di compiere il suo dovere ; un peso insostenibile per uomini già molto provati, per una compagnia ridotta ormai ai ranghi di un plotone.

 

 

 

 

Tamura riceve l'ordine di tornare in ospedale per chiedere di esservi riammesso. Non dovrà rassegnarsi ad un primo rifiuto, ma sedersi davanti alla porta finché non verrà ammesso.

In caso di ulteriore risposta negativa, dovrà darsi la morte facendo esplodere la bomba a mano che ogni soldato porta sempre con se.

Cominciamo a renderci immediatamente conto da queste scene iniziali - almeno in parte - delle ragioni che hanno impedito una maggiore conoscenza delle opere di Ichikawa in occidente: sono troppo dure, troppo crude nella trama e nelle situazioni affrontate per il pubblico  cresciuto all'interno della civiltà europea. Eppure abbiamo conosciuto da millenni rappresentazioni di tragedie umane che affondano impietosamente la lama negli angoli più perversi dell'animo umano; dai grandi tragedi greci a Shakespeare ed altri ancora come (negli stessi anni in cui operava Ichikawa ed esprimendosi attraverso il cinema come lui) Ingmar Bergman col suo Il settimo sigillo (1957). E senza dimenticare che proprio nel 1959 Mario Monicelli proponeva il suo La grande guerra, una versione in chiave grottesca di quanto non riuscimmo ad accettare da Ichikawa in chiave realistica; un film che non solo venne premiato con il Leone d'oro a Venezia ma che riscosse nonostante le polemiche un successo di pubblico e di critica non ancora cessato, recentemente inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, i film che "hanno cambiato la memoria collettiva del Paese".

Non fu così per Ichikawa.  Non stupiamoci: anche le opere più impietose dello stesso Akira Kurosawa, sicuramente uno dei più stimati e premiati uomini di cinema del XX secolo, sono state avvolte dallo stesso silenzio od ostilità. In occidente dove pure fu molto apprezzato ma anche, occorre dirlo, in Giappone.

Si potrebbe essere tentati di concludere queste riflessioni accettando l'idea che la cultura nipponica abbia conservato troppe tracce delle spietate autonalisi cui erano avvezzi ed addestrati i componenti della classe samurai, e la porti alle estreme conseguenze con un autolesionismo sconosciuto o dimenticato nella notte dei tempi da noi ma nemmeno più accettato là dove è nato. Non è una riflessione facile, e forse porta alla conclusione che sia propria questa diversità culturale che ci obbliga all'accettazione ed anzi alla ricerca di opere che escano dai nostri schemi, che provengano da culture "aliene" o da culture del passato.

Detto questo, prima di procedere nella illustrazione della trama dell'opera, avvertiamo ancora un volta il lettore che si troverà ad affrontare una prova non facile.

La sceneggiatura  è tratta come abbiamo detto da un romanzo di Shohei Ooka che se non autobiografico (non abbiamo potuto prenderne visione per averne conferma), ha certamente molti elementi tratti da esperienza di vita vissuta, avendo lo scrittore militato nell'esercito in tempo di guerra, negli stessi territori delle Filippine ove è ambientata la vicenda.

L'arpa birmana proponeva una discesa agli inferi della guerra, di una guerra persa sorprendentemente ed irrimediabilmente da una cultura che si stava credendo superiore ed invincibile. Ma proponeva anche una espiazione ed una risalita verso la vita, sia attraverso il misticismo di Mitsushima che attraverso il semplice ed ingenuo realismo dei soldati od il travaglio interno del loro comandante,

Nobi è invece una discesa irreversibile verso l'inferno, che tutto annienterà nelle sue fiamme eterne, non lasciando alcun margine alla speranza.

 


Il sergente (interpretato da Mantaro Ushio, mentre il soldato Tamura è Eiji Funakoshi), non è stato certamente diplomatico. Ma la sua posizione non è condivisa dal comandante della compagnia, che pure lo giustifica con la necessità di tenere unito il reparto in condizioni di estrema difficoltà. Assicura che i commilitoni di Tamura sarebbero pronti a sacrificare ancora il loro cibo per lasciarlo restare nel reparto.

Dopo aver acccettato del cibo dal comandante, Tamura si rende conto però che i suoi ex compagni, che stanno scavando delle trincee con mezzi di fortuna, sono ridotti ormai allo stremo delle forze, indifferenti a qualunque cosa; sembranon non rendersi nemmeno conto della sua presenza.

Si allontana senza dire nulla, inoltrandosi nella giungla per fare ritorno all'ospedale. A nulla varrà l'incontro con una pattuglia isolata, evidentemente composta dagli uomini in migliori condizioni di fisico e di spirito, che lo invita a restare.

Tamura ringrazia silenziosamente, accennando un inchino, ma volge le spalle e si allontana, per fare ritorno là dove gli è stato ordinato dal sergente.

Il viaggio assomiglia ad un sogno: Tamura, stremato dalla malattia e dalla denutrizione, non sembra cosciente a se stesso e viene mosso solo dagli impulsi più primordiali.

La paura, quando sento passare sopra di se degli aeroplani, che possono essere solo nemici vista la piega disastrosa che ha assunto la guerra in quei primi mesi del 1945.

La fame: ha con sé solo una misera scorta di yam, una sorta di patata dolce povera di elementi nutritivi.

E lo sconcerto. Quando uscito dalla giungla si inoltra in una pianura un fuoco si scorge a distanza, senza che nulla indichi chi lo abbia acceso e perché. E' solo la prima di una lunga serie di inquietanti apparizioni di fuochi nella pianura.

L'incontro casuale con un abitante dei luoghi non lo incoraggia a ripetere l'esperienza; costui lo invita cordialmente a restare, fa capire che sta preparando il pasto per un gruppo di contadini intenti al lavoro nei dintorni, e si allontana per andare a cercare di qualcosa da mangiare più adatto per lui.

Tamura lo segue insospettito e scopre che l'uomo sta fuggendo; appena giunto a distanza di sicurezza inizia a gridare, per avvertire della presenza di un soldato giapponese.

Tornato indietro Tamura rovescia rabbiosamente sul fuoco il cibo, che malgrado la fame gli riusciva disgustoso ed immangiabile, e fugge.

 

 

 

 

 

Riuscirà finalmente, ormai allo stremo delle forze, a raggiungere l'ospedale. Ma nemmeno là c'è posto per lui.

Non è veramente malato, toglierebbe solo spazio, cibo e cure a chi sta peggio di lui, e non è nemmeno un uomo valido che possa dare una mano.

"Chi è in grado di camminare non è malato!" gli rinfaccia il dottore (Kyû Sazanka).

Rendendosi conto di essere stato troppo duro a questo punto il dottore lo invita a restare qualche giorno per riprendere le forze prima di tornare al reparto.

Scavalcando i corpi dei malati accatastati per terra, Tamura esce dalla baracca che ospita il cosidetto ospedale.

 

 

 

Raggiunto il gruppo degli sbandati che attendono il loro destino ai margini della zona riservata ai malati ed unitosi a loro, Tamura è testimone della loro disperazione.

Si rende conto di essere un privilegiato anche per quel poco cibo che ha su di se; tra gli altri c'è chi non esita ad andare di notte a rubare il cibo ai malati.

Una mattina di nuovo un fuoco misterioso, acceso su un altopiano. Si pensa ad un segnale, ma possibile che gli americani ricorrano a mezzi di segnalazione così primitivi?

 

 

 

 

 

 

Forse non c'è alcun collegamento tra le due cose, ma un pesante bombardamento di artiglieria si abbatte all'improvviso sull'ospedale.

Chi può fugge, gli altri vengono falciati dalle esplosioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tamura si lascia cadere al suolo, senza più nemmeno cercare un riparo, che la furia dell'artiglieria sembra rendere vana ogni speranza di sopravvivere.

Si sveglierà invece dopo molto tempo, forse stordito a lungo da una esplosione, ma vivo.

Intorno a lui solo macerie e morte. Dovrà riprendere il suo cammino solitario.


Comincia a chiedersi se abbia un senso tutto questo. Tentare continuamente di sfuggire alla morte, senza sapere dove andare e se vivere non sia solo la continuazione di un incubo.

Forse la risposta giusta è quella che porta sempre nel suo zaino: la bomba a mano con cui porre fine a quel vagare senza meta e senza speranza.

Colto da un attacco di risa isterico, Tamura si arresta di colpo quando il vento, portando via il fumo delle esplosioni, gli rivela la carneficina che ha lasciato dietro di se, nell'ospedale bombardato.

 

 

 

 

 

 

 

Attirato da una luce proveniente da un campanile, che svetta sopra le cime degli alberi, Tamura si dirige ora verso dove presumibilmente sorge un villaggio, seguendo il corso di un fiume.

SI chiede ancora il perché di tutto questo, se abbia un senso.

Gli abitanti probabilmente lo considereranno un nemico, gli spareranno addosso. Perché andarci? Eppure ci va.

Il villaggio è completamente deserto, le case vuote ed abbandonate.

L'unico essere vivente è un cane randagio, che assale Tamura. E' costretto ad abbatterlo con la baionetta.

 

 

 

 

Si dirige poi verso la chiesa che aveva visto da lontano.

L'orrore lo fa cadere in ginocchio.

Sulle rovine della chiesa si accatastano i corpi accatastati alla rinfusa di decine di soldati giapponesi.

Giacciono lì sicuramente da molti giorni: sono in stato di avanzata putrefazione, immobilizzati dalla morte in pose forse casuali ma disperate, angoscianti.

 

 

 

 

 

 

 

 

La vista di una barca che si sta avvicinando alla riva del mare lo obbliga a riscuotersi

Allarmato, si nasconde.

Si tratta in realtà solo di una giovanissima coppia.

Tenendosi teneramente per mano corrono allegramente nelle strade deserte del villaggio fantasma.

La loro meta è un edificio ben preciso. Vi entrano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tamura li segue. Li saluta, tenta di stabilire con loro un rapporto amichevole.

La ragazza vede in lui in quel momento solo un nemico armato. Urla disperatamente.

Tamura, forse senza sapere nemmeno perché, le spara e la uccide.

Il ragazzo fugge e riguadagna la barca allontanandosi nel mare, invano inseguito dai colpi di fucile di Tamura.

Quello che erano venuti a cercare era un piccolo tesoro nascosto: un deposito di sale, raro e prezioso in tempo di guerra, celato sotto il pavimento della capanna.

Tamura, pentito del suo gesto, se ne accorge solo quando cerca di ricomporre pietosamente il corpo della ragazza.

Il soldato se ne serve, riempiendo per quanto può il suo zainetto, poi si allontana prima che il ragazzo arrivi a dare l'allarme e il nemico lo venga a cercare.

 

Deve ritornare sui suoi passi, varcare di nuovo il fiume e cercare la salvezza altrove.

Su un ponticello di fortuna, si rende conto che prima di proseguire deve liberarsi di quanto gli pesa, sulla coscienza prima ancora che sulla spalla.

Si toglie il fucile e lo lascia cadere nell'acqua.

 

 


 

Sulla continuazione dell'odissea del soldato Tamura dovremo essere reticenti. Per una  questione di rispetto: dovuto allo spettatore ma anche e soprattutto all'autore. Ci sono opere in cui il susseguirsi dei fatti è prevedibile e scontato, altre come questa in cui l'autore ha deciso di mettere in discussione la volontà stessa dello spettatore, costringendolo a confronti con situazioni ed eventi non prevedibili dagli antefatti e rappresentati senza alcuna forma di compiacimento estetico o censura nei punti più scabrosi. Delineeremo quindi per grandi linee la trama, ma omettendo il dettaglio.

Continuando nel suo alternarsi tra solitudine assoluta e scomode compagnie, Tamura trova dei nuovi compagni di viaggio: è una pattuglia rimasta isolata, che tenta di raggiungere filtrando tra le linee nemiche la zona ove si pensa ci sia ancora una sacca di resistenza giapponese.

Hanno già comunque cambiato irreversibilmente le loro attitudini mentali, sono già un gruppo di sbandati e non più un reparto di soldati. Non sono interessati all'inserimento di persone inutili come Tamura. Che tuttavia ha di che pagare, e generosamente l'ammissione: la sua provvista di sale.

La lunga terribile marcia verso l'annientamento morale, prima ancora che fisico, è resa da Ichikawa anche attraverso una metafora: il percorso di un oggetto. Si tratta di scarpe, una probabile citazione di alcune scene iniziali dell'opera di esordio di Akira Kurosawa, Sugata Sanshiro. Là erano dei geta (zoccoli) abbandonati per strada dal protagonista, che mostratici sotto la pioggia e sotto il sole, d'estate e d'inverno danno allo spetttatore il senso del tempo che passa, e del percorso di crescita che ha nel frattempo seguito Sanshiro.

Qui sono delle scarpe. Durante la terribile marcia sotto una pioggia incessante, lungo un sentiero appena tracciato nella jungla, convergono da ogni parte soldati in fuga.

Molti cadono al suolo estenuati lasciandosi morire, senza che nessuno si curi di loro se non eventualmente per sottrarre al cadavere o all'agonizzante quanto ancora può servire.

E' così che un soldato sottrae gli scarponi ad un cadavere, lasciando a terra i suoi più malridotti. Che vengono tuttavia raccolti e riutilizzati da qualcuno le cui calzature stanno ancora peggio. E così via, a dimostrare che al peggio non c'è, non ci sarà mai, fine.

 

 

 

 

 

L'accettazione nel gruppo ormai sterminato di soldati alla deriva permette a Tamura anche un riconoscimento a cui sicuramente non teneva.

Gli viene assegnanto un fucile, appartenuto ad uno dei tanti soldati caduti esausti nel fango a lasciarsi morire.

Non ha mai confessato di averlo gettato volontariamente, e si giustifica di non aver pensato da solo a prenderne uno abbandonato: non ne aveva mai visti.

La risposta è rude, ma non ostile: Tamura non sa dove guardare.

Ma più probabilmente, non vuole guardare.

 

 

 

 

 

 

La lunga tragica odissea non avrà un lieto fine: le truppe nemiche presidiano la zona, ed il tentativo di passare di notte attraversando un fiume, per guadagnare la relativa sicurezza della foresta, si arresta sotto un pesante fuoco di sbarramento.

Tamura si salva ancora una volta.

Assiste da lontano all'inutile tentativo degli infermieri statunitensi di soccorrere qualcuno dopo quel simulacro di battaglia: gli uomini erano giunti fin là già al limite della sopravvivenza.

Forse il crollo delle loro speranze li ha uccisi prima ancora delle pallottole anonime venute dal buio.

 

 

 

 

 

 

A questo punto anche l'addestramento militare che lo ha condizionato per tanto tempo è svanito nel nulla.

Se ne deve solamente rendere conto, ed esattamente questo accade quando un veicolo americano si arresta, per un problema di poco conto, e ne escono alcuni soldati ed una donna in uniforme dalle fattezze filippine.

Tamura capisce in un attimo cosa vuole, cosa deve fare: non combattere, ma arrendersi.

Però è preceduto di un attimo, prima che esca dal suo nascondiglio, da un altro soldato, che accorre a braccia alzate dichiarando la sua resa,

La donna, evidentemente condizionata da paure incontrollabili o dai ricordi di precedenti brutalità subite, apre il fuoco e lo abbatte, inutilmente trattenuta dagli altri soldati.

 

 

Non è possibile uscire dall'inferno, non è ancora possibile nemmeno entrarvi.

Tamura dovrà continuare la sua discesa: incontrerà di nuovo sia alcuni dei vecchi compagni che altri sbandati, ognuno dei quali sposta più avanti il livello di degrado, segnando all'orrore un nuovo limite, che resterà invalicato solo per poco.

Utilizzerà di nuovo il suo fucile, lo getterà di nuovo.

Infine si dirigerà con le ultime sue forze verso le linee nemiche, con le braccia alzate in segno di resa.

Continuerà ad avanzare anche quando cominceranno a fischiare le pallottole intorno a lui.