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Kon Ichikawa: Dora Heita (Gatto randagio)

2000

Koji Yakusho, Yuko Asano, Bunta Sugawara

 

Dopo Cane randagio di Kurosawa, ecco Gatto randagio di Ichikawa, a distanza di oltre 40 anni, quando l'Imperatore, così veniva chiamato Akira Kurosawa, era scomparso da tempo. Eppure un legame con Kurosawa c'è, ed è più forte di quanto si possa immaginare a prima vista. In un momento in cui le loro carriere erano ormai avviate per il meglio ma ancora troppo spesso dovevano piegarsi alle logiche commerciali imposte dai produttori, i maggiori registi del cinema giapponese decisero di unirsi per dare vita ad una nuova casa cinematografica ed essere liberi di esprimersi seguendo soltanto la loro ispirazionei.

Erano Akira Kurosawa, Kon Ichikawa, che in occidente era conosciutissimo per L'arpa birmana, e due artisti da noi meno conosciuti: Keisuke Kinoshita e Masaki Kobayashi, regista di Kwaidan, un film che riprende alcune leggende giapponesi raccolte a fine 800 dallo scrittore anglo-giapponese Lafcadio Hearn, di Joiuchi, la disperata ribellione di un samurai alle disumane regole del clan e dell'altra intensa e drammatica storia di ribellione Harakiri.

I quattro decisero in uno slancio di entusiasmo di chiamare la loro casa di produzione Yonki no kai, che è il termine con cui sono conosciuti in Giappone i protagonisti del celeberrimo romanzo di Dumas I tre moschettieri (che come sappiamo in realtà erano quattro, contando nel numero d'Artagnan). Ma la fortuna non fu benigna con i quattro moschettieri giapponesi e in poco tempo la loro impresa chiuse ingloriosamente. Avrebbe sicuramente meritato un esito migliore. Rimasto ormai, alle soglie del 2000, l'unico sopravvissuto di quel gruppo, Kon Ichikawa decise di rendere un tributo postumo alla memoria degli amici scomparsi portando sullo schermo questa sceneggiatura che avevano scritto assieme.

Il plot in realtà non ha nulla di rivoluzionario. A ben vedere richiama molto quello di Yojimbo che a sua volta è un tema ripetuto infinite volte e che proprio Yojimbo ha riportato prepontentemente d'attualità ispirando da allora tante altre opere, anche occidentali: una oscura cittadina di provincia è caduta in potere di diversi gruppi di malfattori che condizionano la vita anche degli onesti cittadini. E' un tema sempre scottante in Giappone ove gli yakuza hanno un tacito accordo con le autorità: in cambio di una sostanziale immunità ed a patto di non creare pubblico scandalo rimanendo confinati in determinati quartieri i malfattori hanno licenza di autoamministrare i loro feudi, lucrando su quelle attività non del tutto lecite che attecchiscono inesorabilmente ovunque si stabilisca una comunità umana, come il gioco d'azzardo o la prostituzione.

Mochizuki Koheita detto Dora Heita (Koji Yakusho, che è riuscito a centrare molto bene il personaggio) arrivando si presenta ad onesti cittadini, malviventi e spettatori come un antieroe: superficiale e concentrato solo, se pure qualcosa riesce a farlo concentrare, sui suoi frivoli interessi personali. Eppure Dora Heita è proprio l'unico in grado di rimettere le cose a posto e lo farà, dimostrando di essere tenacissimo, lucido e spietato esecutore di una strategia altrettanto lucida ed analitica, mettendo in luce ed in ridicolo per contrasto l'inefficienza e la corruzione dei legittimi rappresentanti delle autorità.

Naturalmente la trama serve solo da canovaccio per permettere all'artista di inserirvi le tematiche che gli sono più congeniali, e lo spunto viene fornito dalla singolare figura del protagonista immaginato dallo Yonki no kai: Dora Heita - Gatto dei vicoli, ossia Gatto randagio, ma anche col significato di donnaiolo - arriva preceduto da una sinistra fama di personaggio temibile per la destrezza nell'uso della spada quanto corrotto, interessato solo al sake, al gioco d'azzardo e alle donne. Apparentemente nulla di inedito, sembra di parlare di uno dei tanti ronin vagabondi che abbiamo già conosciuto altrove.

Il divertimento dei quattro moschettieri avrebbe dovuto iniziare proprio da lì: Dora Heita non è un ronin che agisce semi clandestinamente per impulso personale, è il legittimo rappresentante delle autorità inviato in missione ufficiale: il magistrato titolare dell'inchiesta sulla corruzione della cittadini. Un personaggio strano, che si toglie appena possibile le sue vesti ufficiali: le due spade, l'hakama, il kamishino con lo stemma di famiglia, il ventaglio, la lettera di credenziali

Scopriremo immediatamente che le "credenziali" di Dora Heita sono costruite ad arte: è stato proprio lui a farsi precedere dalla fama di magistrato corrotto e facilmente manovrabile, per avere maggiore libertà d'azione e per non elevare la soglia di attenzione degli avversari.

Dora heita alterna momenti in cui mostra il volto autoritario della legge utilizzando con durezza i suoi poteri (ma scopriremo alla fine che anche quelli se li era in gran parte autoattribuiti), ad altri in cui sembra interessato solo a farsi i fatti suoi, e arriva velocemente al nocciolo del problema: la corruzione non è un male entrato nell'organismo dall'esterno.

Sono gli stessi personaggi incaricati di amministrare la cittadina e mantenere l'ordine pubblico ad essere stati contaminati per primi dal morbo e a stringere un patto scellerato con la malavita.

Di più: anche le stesse autorità "superiori" sono in qualche modo complici se non addirittura causa della corruzione e del degrado sociale: attraverso le tangenti che la malavita organizzata paga alle autorità locali, il feudo contribuisce generosamente alle casse dello stato, e naturalmente lubrifica generosamente la classe politica.

Dora heita si ad esplorare con attenzione ad esplorare il mondo del vizio e della droga, varcando spesso l'ipocrita posto di blocco che dovrebbe separare dal resto della città il quartiere proibito di Horisoto, interdetto ai samura.

Ma che chiunque è lbero di entare celandosi sotto l'anonimato: basta lasciare a casa le due spade e celare l'acconciatura sotto un cappuccio, le guardie all'imboccatura del ponte nel dubbio faranno finta di nulla.

 

 

 

 

Il regista descrive l'ambiente di Hashimoto sia mostrandone singoli squarci.

Un quartiere dei divertimento come ne esistono ancora tanti oggi, in ogni parte del mondo, o un quartiere di ristoranti oppure botteghe: potrebbero essere tranquillamente immagini di Forcella a Napoli o Vernaison a Parigi.

 

 

 

 

 

 

Sia isolando tra la folla vari tipi umani caratteristici.

Le fisionomie sono orientali, i vestiti sono diversi, le acconciature bizzarre, i mestieri non sono più gli stessi.

Ma sono gli stessi tipi umani in fin dei conti che possiamo trovare anche a casa nostra, ovunque essa sia.


Dora Heita farà un uso limitato del suo addestramento marziale, limitandosi a disarmare e stordire i numerosi aggressori. Salvo estrarre finalmente la spada quando viene aggredito da un numero irrealistico di malvimenti, con intento chiaramente satirico contro gli eccessi sanguinolenti di certo cinema chambara ed ovviamente annientandoli tutti, dal primo all'ultimo.

Saggiamente Ichikawa, non disponendo di protagonisti credibili marzialmente come i grandi Mifune e Nakadai sfuma le scene di combattimento e lascia immaginare più che mostrare.

Per i praticanti di arti marziali segnaliamo che le tecniche di disarmo ed atterramento mostrate sembrano spesso varianti più o meno credibili de kotegaeshi dell'aikido, indecifrabili invece le tecniche di proiezione, salvo un momento in cui si può ipotizzare un empinage di aikido o più probabilmente un seoinage di judo, mentre i combattimenti di spada sono avvolti dal buio della notte e lasciano quasi tutto all'immaginazione.

L'approccio di Ichikawa ci sembra saggio: la diffusione della cultura marziale, ormai capillare, non consente più le licenze poetiche del passato. meglio allora astenersi dai trucchi mirabolanti ed alludere, più che tentare di esibire quello che non si ha.

Dopo aver dimostrato di avere capacità di indagine, coraggio al limite della temerarietà e grandi doti di combatente, Dora Heita è solo a metà del compimento della sua missione: l'elite corrotta che ha trascinato al degrado la città deve essere chiamata a pagare. Dietro la perfezione formale dei loro abiti, dei loro gesti, del loro parlare - della loro etichetta insomma - si cela il male assoluto.

La sentenza di Dora Heita è allo stesso tempo più mite e più dura del previsto: non la prigione, segno tangibile di infamia ma soluzione comoda, che esonera dal riparare al male fatto o anche dal sopportarne le conseguenze, ma l'esilio. Esilio dalla terra e dalla casta, costretti a cominciare una nuova vita subendo quello che fino ad allora hanno inflitto ad altri.

Malvagi e corrotti, gli uomini che Dora Heita ha di fronte non sono comunque sciocchi. Capiscono immediatamente la gravità della pena, e si oppongono, minacciano ricorsi.

Dora Heita ha già pronta una alternativa, e ha predisposto nel cortile tutto quanto serve per metterla in atto: chi vuole può sottrarsi sia al disonore che agli stenti di una vita "normale" ponendo fine ai suoi giorni con un onorevole seppuku.

Le nude lame sono già là che attendono. Ma atenderanno invano, i dignitari preferiranno tutti l'esilio.

 

 

Al termine della sua missione, come tutti gli eroi di queste storie, Dora Heita riprende le sue cose, volge le spalle al villaggio e se ne va senza indugi e senza rimorsi per il suo destino. I burocrati incricati di tenere aggiornato il fascicolo non si sono nel frattempo accorti di nulla: la loro ultima annotazione sul registro è che Mochizuki Koheita durante il periodo del suo mandato non si è mai presentato una sola volta in ufficio, rappresentando in definitiva anche da quel lato un caso unico.

Non che la cosa li meravigli più di tanto o che pensino per questo di dover fare qualcosa: per i burocrati la sola cosa che conta è che i moduli giusti siano debitamente compilati.

 

 

La figura femminile rimane in secondo piano in questa opera, come quasi sempre nel cinema chambara (o jidai), dedicato quasi sempre all'azione.

Tuttavia Ichikawa preferisce sfumare sarcasticamente la chiusura su una imprevista fuga di Dora heita di fronte ad un nemico più forte di lui.

La sua donna Kosei (Yuko Asano) che abbandonando Edo è riuscito a scovarlo fin lì e lo segue dappertutto, intralciandone ovviamente i piani.

Dora Heita non abbandona il paese ormai pacificato e sanato accompagnato dalle note di una musica trionfale: si dà vigliaccamente alla fuga inseguito da Kosei. E sappiamo, ovviamente, che ben presto verrà raggiunto e catturato.

O, più probabilmente, che si lascerà docilmente catturare, come in fondo tanti gatti randagi vogliono.

Per esserne sicuro il regista prende le sue precauzioni: invece del focoso destriero che sarebbe stato necessario, Dora Heita compra da un mercante di soja un bolso ronzino che indifferente ai colpi di sprone potrà essere facilmente raggiunto anche da una "fragile donna".

Termina qui l'opera. Un divertissement, un intervallo ricreativo in mezzo alle molte opere "impegnate" di Ichikawa? Eppure sappiamo che l'idea nasce dalla mente di quattro grandi artisti, che non hanno mai trascurato in alcuna loro opera di puntare su temi importanti, e non sembra credibile che Ichikawa nel rendere omaggio alla memoria dei suoi compagni d'arte abbia voluto tradire le loro intenzioni. Insomma: un'opera che dovremmo guardare con maggiore attenzione, che dice più di quanto appare all'occhio distratto dello spettatore comune?

P.S.:

Rivedere queste opere assieme al maestro Hideki Hosokawa aggiunge sempre preziose osservazioni: molte sfumature sfuggono all'osservatore occidentale, come probabilmente sfuggirebbero ad ogni giapponese "moderno" che non avesse una profonda cultura sul passato della sua nazione. Le reazioni del maestro indicano frequentemente quello che prima ci era sfuggito o ci sembrava marginale, non importante. Dora heita in particolare potrebbe anche essere interpretato come una delicata e tutto sommato affettuosa satira di alcune esagerazioni formali dell'etichetta giapponese che fanno perdere di vista la realtà, e che debbono essere ricondotte sui giusti binari da provocatorie e deliberate "anarchie" da parte di persone che sappiano mettere gli strumenti al servizio dell'uomo e non viceversa.

Meriterebbe un discorso a parte la posizione della donna in epoca Edo; per quanto si tratti soprattutto di un'epoca avventurosa - nonostante la denominazione di "pax Tokugawa" - e quindi le opere che trattano di quell'epoca siano piene di azione e lascino spesso la donna in posizione defilata, il loro spazio vitale è molto più vasto di quello che sembri, ed il loro "potere" si estende molto al di là di quello che indicherebbero le apparenze.

Quando appare Kosei di fronte a Dora heita, ma anche Karu di fronte al carismatico Oishi Kuranosuke nei 47 ronin, sempre di Ichikawa, dovremmo capire fin dal primo attimo, da precisi ed inequivocabili segnali, che quelle fragili donne dal sorriso sempre pronto, apparentemente dimesse e sottomesse, comanderanno con mano ferma gli uomini senza che questi possano o vogliano fare nulla di più che abbandonarsi a plateali reazioni, tanto più vistose ed inutili quanto più si rendono conto di avere incontrato una volontà più forte ed allo stesso tempo più serena della loro.