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Il film ci fornisce un esempio, realistico per quanto non reale, delle motivazioni che possono portare un uomo, od una donna, a praticare l'arte marziale: trovarsi nelle migliori condizioni, di corpo ma soprattutto di spirito, per essere capaci di prendere le decisioni più giuste nei momenti supremi, rispettando le posizioni altrui e difendendo le proprie; se necessario fino alle estreme conseguenze, ma rispettando le idee e soprattutto le persone che si trovano dall'altra parte.

Dopo aver assistito a rappresentazioni di questo genere si rimane ancora più perplessi nell'apprendere che tante persone si preoccupino di praticare arti marziali per difendersi nelle risse da taverna o del "realismo" delle tecniche senza proccuparsi molto del realismo e della sincerità del proprio atteggiamento interiore

Propongo al lettore queste riflessioni, questi spunti, perché così abbiamo deciso di fare ogni volta che ce ne capiti l'occasione: io ed Hosokawa sensei; e mi prendo volentieri questo difficile compito che mi affida il mio maestro; si tratterà infatti di un dialogo impervio, in condizioni molto difficili, e che richiederà disponibilità, sensibilità, pazienza.

Una lunga intervista a Tatsuya Nakadai accompagna il dvd; Nakadai, personaggio sinistro in tutti i suoi primi film e povero vecchio, fuscello sballottato dagli eventi,  in Kagemusha e soprattutto in Ran, è nella realtà - nel 2005 quando venne girata l'intervista - uno splendido signore di 73 anni, con una corta barba bianca e un sorriso contagioso ad illuminare gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali.

Ricorda con grande umorismo i bei tempi in cui girava queste "penose scene di duello" con Mifune, dopo che avevano passato la notte in bianco bevendo sake e dandosi bel tempo.

Tanto poi nel duello finale - commenta sarcastico - "mi si uccide, come d'abitudine”.

Ha esordito, pochi se ne sono resi conto, in un film celeberrimo: I sette samurai.

E' proprio lui il giovane samurai che appare per primo durante la ricerca per le affollate strade del paese.

Pochi istanti mentre cammina ignaro e spensierato, sottoposto a sua insaputa agli sguardi indagatori di Kanbei alla ricerca di guerrieri da assoldare per il suo difficile incarico.

Ha avuto pochi anni dopo Joi-uchi - probabilmente a causa della notorietà arrivatagli anche in occidente dopo essere stato l'antagonista in Yojimbo - una partecipazione in un western all'italiana diretto da Tonino Cervi in cui faceva la parte di un messicano; ha conosciuto quindi l'Italia, e ne conserva un ricordo molto piacevole: trova che i tanti paesini italiani abbarbicati sulle montagne ricordino molto i paesi giapponesi dell'epoca Edo, vicini tra di loro fisicamente ma allo stesso tempo molto lontani culturalmente: quasi diverse nazioni, nonostante il Giappone non avesse frontiere nazionali.

Non ha mai parlato italiano o inglese (l'intervista è in giapponese e io seguo attraverso i sottotitoli in francese), quindi per forza di cose se ne stava quasi sempre zitto senza poter scambiare una parola, atteggiamento che a sentirlo invece parlare nella sua lingua con tanta naturalezza e simpatia dovrebbe essere molto lontano dal suo vero modo di essere; osserva che girare un film in Italia gli sembrò molto differente da quello cui era abituato.

Durante le riprese tutti parlavano, tutti si davano da fare, e al momento di girare nessuno era al suo posto, nessuno stava zitto; il povero regista si doveva ogni volta sgolare per richiamare tutti all'ordine e pregare di piantarla con quella confusione per mettersi a lavorare. Una volta che proprio non gliela faceva più, indicò col dito Nakadai, di cui sappiamo ora che non apriva bocca perché non avrebbe proprio potuto, dicendo: "Guardate Nakadai, sta lì zitto ed aspetta gli ordini: è un vero samurai!"

Il racconto ci ha molto divertito, al punto di sentire il bisogno di scambiare un'occhiata, densa di significato, con Hosokawa sensei: quanto volte abbiamo preso fischi per fiaschi gli uni degli altri, fidandoci delle apparenze? certo, da quando conosco il maestro molta acqua è passata sotto i ponti, e perlomeno tra noi due questo genere di equivoci è diventato meno probabile.

Non si creda che Nakadai sia solo un buontempone. Nell’intervista esprime diversi concetti complessi e profondi, lamentando la scomparsa della cultura del bushido in cui lui è cresciuto. Ritiene che i film chambara abbiano sì cercato di soddisfare la voglia di evasione del pubblico, ma si siano spesso richiamati anche ad una cultura samurai che merita la conoscenza ed il rispetto  dei moderni.

Cita ad esempio il grande affresco corale di “Sichinin no samurai”, cui ha partecipato in quel ruolo minore: quale grande lezione quella dei samurai che accettano di lottare e di morire in cambio di tre pasti al giorno, per difendere chi non è in grado di farlo da solo.

 

 

Anche i suoi frequenti duelli con Toshiro Mifune, vengono da lui analizzati con notevole spessore psicologico e morale.

Un suo personaggio, il samurai senza scrupoli  Hanbei Muroto, viene definito dal protagonista Tsubaki Sanjuro, dopo averlo ucciso nel cruento duello finale, come un nukimi: una “spada nuda”.

Nakadai spiega che si tratta di un tipico modo di dire samurai, che indica la persona che non riesce a stare nel suo “fodero”, lasciando uscire dall’animo quanto dovrebbe rimanere dentro, sotto controllo.

 

 

 

 

Infine, la sua analisi del difficile ed intenso rapporto tra due uomini che si rispettano e provano simpatia ma devono confrontarsi in un duello mortale, che si ripresenta anche nel caso di Joiuchi, è assolutamente degna di rispetto e condivisione.

Per fortuna ce l'ha voluta proporre non con un interminabile pappone filosofico, ma attraverso una piacevole chiacchierata non priva come abbiamo visto di sottile umorismo.