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Takashi Miike: Sukiyaki Western Django
2007
Quentin Tarantino, Hideaki Ito, Koichi Saito, Yusuke Iseya, Kaori Momoi, Yoshino Kimura

 

Il cinema di Takashi Miike, noto come uno dei tanti enfant terrible del cinema giapponese, è rinomato per essere provocatorio, immaginifico,  sorprendente. Forse come sfida al pubblico e a se stesso, sceglie qui di esserlo ancor di più ma ripescando a piene mani nel già visto, in una pellicola che già nel titolo rivendica di essere una copia di una copia, ispirata al genere spaghetti western di produzione italiana che conobbe effimera vita negli anni 60-70. Un genere tanto incensato dalla critica quando se ne faceva portavoce Sergio Leone quanto biasimato quando vi ponevano mano artisti minori.

Eppure Sergio Corbucci (Roma, 1926-1990), ideatore e direttore nel 1966 di Django, da cui è partita l'idea di Miike, è autore studiato ed imitato da molti colleghi. Già immediatamente dopo l'uscita nelle sale di Django si affollarono nelle locandine i vari Django spara per primo, Django il bastardo, La vendetta di Django e via djangheggiando.

Una ricerca su IMDB permette a chiunque di constatare che digitando la magica parola escono fuori non meno di 80 titoli. Inoltre il suo linguaggio venne precocemente studiato - non meramente imitato - in Giappone. Da Il grande silenzio (1968) Hideo Gosha trasse l'anno seguente Goyokin.

Recentemente Miike ha alzato il tiro con Ichimei, un rifacimento del pregevole Harakiri (Masaki Kobayashi, 1962) presentato al Festival di Cannes, ma sospettiamo che mal gliene incolse. I giornali ne hanno parlato a profusione ma solamente per sottolineare come fosse il primo film in 3d presentato al Festival, mentre il critico Mereghetti nella sua recensione on line ne lamentava l'eccessiva seriosità e i dialoghi irrealisticamente nobili ed elevati dei protagonisti. Se ne conclude che per la critica Miike sembrerebbe indissolubilmente legato al genere pulp - o addirittura trash - e non deve azzardarsi ad uscire dal suo seminato.

Eppure il regista riesce a mescolare proprio in queste sue opere il degrado ed il sublime, lo stilema della rappresentazione popolare e la citazione dotta. Sembrano pochi però gli spettatori ed i critici in grado di cogliere questo aspetto.

Naturalmente ci sono poche speranze che questo film giunga in Italia, attualmente non lo troviamo in alcun catalogo. La recensione è condotta sulla versione francese (la Francia è un paese di veri cinefili) dal curioso involucro metallico che ricorda quello delle confezioni di matite.

Contiene due dischi: la versione destinata alle sale, quella integrale con 30 minuti supplementari, un "dietro le quinte" di 51 minuti ed una intervista col regista Quentin Tarantino, altro cultore del genere pulp che in Sukiyaki Django recita come interprete introducendo ironicamente la vicenda.

Ricordiamo a chi non fosse avvezzo alla cucina giapponese che il sukiyaki è un tipico piatto giapponese composto di carne, che viene di solito affettata direttamente sulla tavola, uova ed altri ingredienti.

Perché non udon-western , assimilabile a spaghetti-western? Azzardiamo l'ipotesi che Miike abbia voluto alludere alla truculenza volutamente esagerata e quindi surreale e non particolarmente fastidiosa, quasi divertente,  di numerose scene. In cui la carne viene tagliata direttamente sullo schermo, davanti allo spettatore/commensale sorridente.

Ma il sukiyaki ha, lo vedremo dopo, la sua importanza anche nella vicenda.

In tanta dovizia di materiale, una clamorosa mancanza: contrariamente a quanto indicato nella tabella riassuntiva in copertina, questa edizione contiene il doppiaggio in inglese e francese (in questa lingua anche i sottotitoli) ma non la versione originale giapponese.

Un vero peccato visto che la prima visione ne era riservata ad Hosokawa sensei, era legittimo il timore che non fosse in grado di seguire la vicenda.

E' stato invece lo spettatore più partecipativo, cogliendo al volo tutti i provocatori - e quindi evidenti - messaggi di Miike. Evidenti tuttavia solo per chi ha una conoscenza non superficiale della cultura giapponese.

Cosa dire della scena iniziale, trucidamente western in ogni suo componente, dai colori esasperati e quasi violenti?

Eppure quei colori sono gli stessi che ritroviamo nel periodo d'oro della stampa ukiyo-e giapponese ed il fondale della scena sembra provenire pari pari dalle vedute del monte Fuji di Hokusai od Hiroshige.

Il suo inserimento in un contesto dichiaratamente avulso ed estraneo, con cui sorprendentemente armonizza, sconcerterebbe lo spettatore comune che se ne rendesse conto, ma normalmente lo lascia indifferente ed ignaro. Diverte invece, costringendoli a ridere fino alle lagrime, molti spettatori colti.

 

HokusaiPioggiaChe comunque non si affollano ai botteghini e non fanno incetta dei dischi, del resto come abbiamo detto nemmeno disponibili in Italia. Miike ha avuto con questo suo film un buon ritorno presso il pubblico generico, cui solo apparentemente è destinato, e rimane ignorato da quello acculturato cui ha inviato tanti messaggi. Ignaro dei possibili risultati di tanta 'provocazione' o incurante di essi?

 


Non sarebbe il caso di cercare una trama vera e propria, Miike preferisce che lo spettatore abbia l'impressione di assistere ad un assemblaggio casuale di situazioni condivisibili tra il genere western e quello chambara.

Si tratta invece di un gioco ad incastri complicato quanto sofisticato, in cui vengono citate e riprese numerose altre  opere in aggiunta al Django di Corbucci. Oltre a citazioni minori ed occasionali che il cinefilo si prenderà il gusto di trovare da solo.

Per rendere conto dello spirito che anima Sukiyaki Western Django ci dilungheremo sulla scena iniziale, il cui protagonista è il noto regista Quentin Tarantino, notoriamente ammiratore del western all'italiana e forse l'esponente più conosciuto del cosidetto genere pulp d'autore. Anche lui aveva reso omaggio a Sergio Corbucci, riprendendo tra l'altro in un suo film il cruento taglio di un orecchio da parte di un bandito che veniva rappresentato in Django, lo ha rinnovato recentemente con il suo Django unchained .

Il film si apre macabramente con la visione di un uomo ucciso, colpito da un colpo di arma da fuoco in mezzo alla fronte.

E' solo una delle molte citazioni ma non proviene da Django: si tratta di una scena ripresa dal secondo film della trilogia del dollaro di Sergio Leone: Per qualche dollaro in più.

Il coprotagonista, il cacciatore di taglie soprannominato il colonnello (Lee Van Cleef), estrae da una borsa celata sotto la sella del suo cavallo un arsenale di armi di precisione ed arresta abbattendogli il cavallo la fuga di un ricercato, che reagisce sparandogli contro rabbiosamente.

Ma è fuori portata e i colpi del suo revolver arrivano solamente ai piedi del colonnello. Questi estrae dal mantello da cavallo - che indosserà praticamente sempre - un revolver a canna lunga inserendovi un calciolo, prenderà accuratamente la mira e con quest'arma di gittata superiore fulminerà il bandito con un colpo alla fronte.

Ricordate questi particolari, li dovrete richiamare alla memoria più tardi.

Accanto al cadavere si trova per terra un uovo, e vediamo le spire di un grosso serpente che vi si avvicina. D'improvviso l'immagine diventa a volo d'uccello: quello di un'aquila, che si avventa sul serpente e lo ghermisce.

Vediamo allora un uomo avvolto nel classico poncho che richiama irresistibilmente a chiunque il pistolero silenzioso protagonista dell'opera che diede la celebrità mondiale a Sergio Leone (Per un pugno di dollari, interpretato da Clint Eastwood e ricavato come molti sanno da Yojimbo, di Akira Kurosawa).

Miike comincia a mostrare le sue carte: lui giapponese si sta ispirando alla copia western, fatta in Italia, di un'opera jindai giapponese.

Però  mescolerà vorticosamente situazioni e citazioni da ognuna delle sue molteplici fonti, fino ad ottenerne una ricetta inedita eppure composta di elementi familiari, in cui il sapore forte - prevalente - si alterna o si sposa con sapori delicati e ricercati.

L'uomo estrae fulmineo la pistola ed abbatte l'aquila, che abbandona la preda.

Il serpente cade nelle mani del pistolero, che afferra il suo coltellaccio e apre la gola del rettile. Ne uscirà il famigerato uovo, evidentemente ingoiato poco prima, rosso di sangue.

 

 

 

A questo punto sopraggiungono gli immancabili malintenzionati senza i quali non sono possibili film del genere.

Il nostro uomo viene messo sotto il tiro di una pistola ed apostrofato bruscamente.

Veniamo così a sapere che il suo nome è Piringo (plateale giapponesizzazione di Gringo o Ringo, appellativi cui rispondevano la maggior parte degli innominati eroi dello spaghetti western).

L'inquadratura nel frattempo si allarga, lasciandoci capire che ci troviamo non nel deserto dell'Arizona, o in qualunque altro luogo deputato del western, ma alle pendici del Fujiyama.

 

Piringo, indifferente all'annuncio della fine della sua strada, ci toglierà ogni dubbio. Che cosa è quel rumore che avverte il capo dei malintenzionati? Sono le campane di Gion Shoja (Tempio di Gion), risponde.

Si tratta di una citazione dell'incipit dell'Heike monogatari. Assieme al più noto Genji monogatari narra l'epopea delle due potenti dinastie che lottarono a lungo per la supremazia del Giappone: gli Heike (o Taira) e i Genji (Minamoto) e rappresentano i primi testi letterari del Giappone.

Lo stupore del capobanda è grande, e gli chiede di cosa stia parlando. Piringo, sempre rimirando l'uovo che tenuto tra le sue mani alterna ora il colore rosso del sangue con quello bianco del guscio, risponde che si tratta di quella storia con gli Heike ed i Genji, terminata a Dan no Ura.

Un po' come quell'altra guerra in Inghilterra: la Guerra delle Rose combattuta tra i bianchi (gli York, il cui stemma era una rosa bianca) ed i rossi (i Lancaster, la rosa rossa).

Intrigato il malvivente chiede chi ha vinto invece la grande guerra tra gli Heike e i Genji: i rossi o i bianchi?

Ed a questo punto, premesso che i bianchi Genji sconfiggeranno i rossi Heike, Piringo declama i versi iniziali dell'Heike monogatari (racconto degli Heike) che così dicono: 

Il suono delle campane del Tempio di Gion riecheggia l'impermanenza di tutte le cose.
Il colore dei fiori di shala rivela questa verità, che anche il potente dovrà vacillare.
Anche l'orgoglioso non durerà, è come il sogno di una notte di primavera.
Ognuno dovrà cadere, ognuno è solo polvere di fronte al vento.

Gli Heike infatti, al termine di un duello che attraversò i secoli, scompariranno annientati dai Genji nella grande battaglia navale di Dan no Ura (1185).

L'improvvisa misteriosa caduta di un fiore che arriva misteriosamente da un cielo dominato da un enorme sole implacabile, in una zona assolutamente desertica ove l'unica pianta visibile è lo scheletro di un albero rinsecchito, fornisce una immediata e sinistra conferma alle parole di Piringo.

E qui si scatenerà l'inferno.

Lanciato in aria l'uovo, Piringo lascia la parola alla sua pistola.

 

 

 

L'uovo verrà passato di mano in mano tra gli aggressori, che lo lanciano in aria negli spasimi dell'agonia quando colpiti dalle pallottole.

Come tradizione del western, dove l'arma di elezione è la pistola, ma anche del chambara ove è la lama della spada a mietere vittime, il protagonista mostra una prontezza di riflessi sovrumana, una spietata freddezza ed una assoluta padronanza delle sue armi.

I suoi avversari vengono abbattuti in meno che non si dica.

 

 

 

Terminata l'ecatombe, Piringo rinfodera fulmineamente la sua pistola ed apre la mano.

Esattamente in tempo per riprendere l'uovo, che terminata la sua tormentata traiettoria sta finalmente per ricadere al suolo.

 

 

 

 

 

 

 

E qui occorrerà che anche lo spettatore, e il nostro lettore, mostrino capacità di freddezza e si tengano pronti ad esercitare la massima prontezza di riflessi.

Potrebbe altrimenti sfuggire loro - a noi era sfuggito alla prima lettura - il significato di quanto Piringo sta per fare.

Con la mossa fatale che idealmente associamo al prototipo del pistolero solitario (Clint Eastwood in Per un pugno di dollari), Piringo sposta il poncho per avere la massima libertà di estrazione.

Ma quella che estrae ora non è la pistola, ma una ciotola. In essa infrange l'uovo, ed estratti anche due ashi (bastoncini da cucina) inizia ad amalgamarlo assieme agli ingredienti già contenuti nella ciotola. Nel dubbio che non ci siate ancora arrivati siamo costretti ad essere espliciti: si sta preparando un sukiyaki!

Appare dal nulla una misteriosa donna che dichiara la sua ammirazione per lui, per poi scomparire di nuovo. Dopo aver cotto sul focolare il suo discutibile intruglio Piringo prende a mangiarlo, con evidente apprezzamento.

Concluderà - naturalmente - con un grido di soddisfazione irrefrenabile che molti riconosceranno. E' il motivo dominante della colonna sonora composta da Ennio Morricone per il terzo ed ultimo film della trilogia del dollaro (Il buono il brutto ed il cattivo).

Tanto basti: riteniamo che il lettore abbia già elementi sufficienti per capire cosa potrebbe capitargli di leggere se andrà avanti a scorrere questa recensione, e sappia regolarsi di conseguenza.

Tutto dipende evidentemente dall'appetito con cui ci si mette a tavola, e chi saprà o vorrà rimanere attratto da questa insolita ricetta a base di sukiyaki  propostaci da Takashi Miike ne rimarrà sicuramente soddisfatto.


La trama come abbiamo detto è molto vaga, eppure segue uno schema preciso, che accomuna vicende minime e grandi sconvolgimenti epocali, gli scontri mortali che mettono in palio un misero pugno di dollari ed un villaggio sperduto immerso nel fango, e la lotta all'ultimo quartiere tra le armate dei Genji e quelle degli Heike per il potere assoluto sopra una grande nazione.

Il personaggio silenzioso e senza nome che vediamo arrivare al villaggio è chiaramente ricalcato sulla figura del colonnello di Sergio Leone, ne abbiamo già parlato. Indossa lo stesso impermeabile nero e cavalca con la medesima flemma che in origine derivò, chi lo immaginerebbe, da una invincibile fobia di Lee Van Cleef nei confronti dei cavalli.

Ogni tentativo di convincerlo a folli cavalcate e agili discese dalla sella fu vano, e il regista dovette cambiare sul campo la sceneggiatura, facendo della lentezza di movimenti del personaggio - legata ad un vecchio incidente e all'impaccio e timore dell'interprete - un marchio di fabbrica che ne dimostrava l'impassibilità e la padronanza di se.

Lo accoglie al villaggio il solito forte messaggio che introduce una vicenda drammatica: il corpo di un impiccato che penzola dalla porta, che è tuttavia di foggia chiaramente nipponica per quanto le scritte in sovrimpressione avvertano che ci troviamo nel Nevada.

Si tratta di una nuova citazione, e ne seguiranno tante altre che seguirle tutte ci sarà - lo diciamo immediatamente - impossibile.

Le vicende di Armonica, protagonista di C'era una volta il west, il western più ambizioso tra quelli diretti da Sergio Leone, partono dalla ricerca della vendetta contro chi spietatamente ha impiccato suo padre, cancellando così il rimorso e la vergogna di avere in qualche modo dovuto collaborare alla sua morte, sotto la minaccia delle armi e con la cinica promessa di una speranza di salvarlo mentre invece lo perdeva.

Sergio Leone, era facile prevederlo, fece scuola e non sono stati i primi a scoprirlo né Takashi Miike né Quentin Tarantino, il cui film più noto (Kil Bill, 2003, di ambientazione giapponese e con le spade giapponesi protagoniste assolute) poggia su una vicenda analoga: la terribile vendetta della Sposa contro chi le ha annientato le persone più care.

Già nel 1995, e troppi altri esempi scopriremmo ma citiamo solo questo perché a sua volta citato da Miike, nel surreale The Quick and the dead (Pronti a morire), in cui l'eroe è una eroina interpretata da Sharon Stone, troviamo questo filo conduttore nella storia.

Chi volesse approfondire la ricerca vi troverebbe numerose altre citazioni dal filone degli spaghetti western, oltre che rendersi conto di quanto lo citi a sua volta Takashi Miike, al quale ora torniamo.

Il paesino composto di poche case affollate su un'unica via, deputata ad ogni azione ma soprattutto a duelli e scontri all'ultimo sangue, squassata dal vento o affondata nel fango a seconda degli umori del tempo, è sempre lo stesso che appare in ogni vicenda analoga.

All classiche baracche del west si affiancano però in Sukiyaki Django edifici di chiaro stampo giapponese.

Il villaggio è apparentemente deserto ma gli abitanti, sempre e con ogni ragione timorosi del peggio, scrutano dalle finestre ogni nuovo evento, ogni nuovo arrivo dal deserto a perdita d'occhio che circonda da ogni parte le poche case, la stalla, la locanda.

Si ripete quanto già visto in Yojimbo, quanto già visto in Per un pugno di dollari. Le uniche persone che sembrano abitare quel paese di fantasmi sono dei tracotanti malviventi, che escono ad affrontare il nuovo venuto.

Come anticipato nel prologo dalle parole di Piringo, sono due bande rivali che si contendono quel luogo desolato.

Perché il villaggio cela un tesoro, o forse solo il miraggio di un tesoro: dei giacimenti d'oro pronti ad essere sfruttati dal primo che allunghi le mani.

Sono prima i rossi a farsi avanti: un nugolo di ceffi abbigliati nei modi più fantasiosi, che possono evocare indifferentemente qualunque epoca e qualunque parte del mondo, ma dove ovviamente spiccano i riferimenti al selvaggio west e al Giappone feudale.

Hanno comunque qualcosa in comune nel loro variegato abbigliamento, per tutti predomina il rosso (l'idea, magistralmente ampliata, viene dal Django originale, in cui sciarpe e cappucci rossi identificavano la banda del maggiore Jackson). Sono infatti la banda dei Rossi, il colore degli Heike. Il loro capo, che cerca di attirare lo sconosciuto tra i suoi uomini, dopo averlo visto reagire arma alla mano e con incredibile maestria alle provocazioni dei suoi accoliti, è Taira no Kiyomori (Koichi Sato).

Dalla parte opposta, con analoghe offerte al misterioso pistolero, si avanza la schiera dei Bianchi, il colore dei Genji. Li comanda Minamoto no Yoshitsune (Yusuke Iseya), affiancato dal leggendario gigante Benkei, per l'occasione trasformato da monaco guerriero armato di lancia a guerriero indiano armato di fucile Winchester.

Yoshitsune è probabilmente - assieme a Miyamoto Musashi -  la figura più leggendaria della cultura giapponese ma non abbondano i film in cui appaia, probabilmente per la difficoltà di ricreare sullo schermo le grandi battaglie dell'epoca . Quindi si portano sullo schermo di preferenza solo episodi minori della sua vita. Ricordiamo tra gli altri Tora no ofumu Otokodachi (1942), il primo film epico jidai di Aikira Kurosawa e forse uno dei più belli o il più recente Gojoe (2000) diretto da Gakuryu Ishii che narra in una atmosfera gotica e trasognata del suo incontro col monaco Benkei, futuro inseparabie compagno nella vita e nella morte.

Taira no Kiyomori, comandante dell'armata dei Taira (Heike) nacque nel 1118 e scomparve di malattia nel 1181 prendendo parte solo alle fasi iniziali della guerra Gempei, nome che deriva da una pronuncia alternativa degli ideogrammi Taira e Minamoto, in cui dovevano decidersi una volta per tutte i destini dei due feudi rivali . In realtà non ebbe quindi occasione di scontrarsi a fondo col principe Minamoto no Yoshitsune (1159-1189), generale impavido ma subordinato nella linea di comando Minamoto (Genji) al fratello maggiore Yoritomo. Fu lui tuttavia che annientò i rivali a Dan no ura.

Completano l'elenco dei protagonisti due donne, che assumono ruoli che erano maschili negli archetipi, a testimonianza della sempre crescente visibilità - ed importanza - che si tende a dare ai ruoli femminili nella società e di conseguenza nella cultura moderna.

Ruriko (Kaori Momoi) prenderà la parte del paesano che si trova suo malgrado ad ospitare lo straniero, rimanendone allo stesso intimorito dalla violenza ed imprevedibiltà delle sue azioni ed attirato dalla intuizione che dietro quelle decisioni apparentemente casuali ci sia un freddo piano di battaglia, e battaglia dalla parte dei deboli.

E' un personaggio, una figura, che trovammo in Yojimbo per rivederlo poi in Per un pugno di dollari e ritrovarlo anche in Nathaniel, il padrone della taverna di Django.

Shizuka (Yoshino Kimura) ha nella vicenda una parte meno facilmente identificabile, in quanto in lei si fondono differenti personaggi e differenti situazioni di diverse opere precedenti.

E' la donna che viene salvata con tutta la sua famigliola dal pistolero silenzioso o dal samurai scontroso, a prezzo del fallimento sia pure momentaneo del loro gioco.

O la vittima del tragico trauma che cerca la sua vendetta, che deriva da C'era un volta il west. Ma l'abbiamo già vista in Pronti a morire nei panni della Signora , che però veste come il Colonnello di Sergio Leone e sa difendersi da sola con la sua pistola.

E se la rivediamo ancora in certi atteggiamenti del pistolero di Sukiyaki Django, è anche la Maria del Django originale, destinata ad essere un fuscello trascinato qua e là dalla violenza degli uomini.


Il personaggio di Ruriko è ricalcato come abbiamo detto su quello di Gonji, il locandiere di Yojimbo che si confida col samurai errante capitato per caso nel villaggio e gli fornisce le informazioni necessarie per comprendere quanto sta accadendo intorno a lui.

Il ritrovamento dell'oro nei paraggi ha attirato prima centinaia di cercatori, e con loro la cupidigia e l'aggressività legate indissolubilmente alla speranza di cambiare con un colpo di fortuna la propria vita, sottraendo agli altri quello che solo il più forte ha il diritto di avere.

E ben presto sono arrivate, attirate anchesse dall'oro, le due bande rivali degli Heike e dei Genji, che insanguinano quotidianamente le strade con la loro lotta senza quartiere. Tutto là.

E' però un elemento che permette di ricollegarsi al Django originale, dove il movente di ogni personaggio era la conquista di un cassa piena d'oro, che il protagonista (Franco Nero) per trafugarlo ripone  - con una equivalenza simbolica ma eloquente -  nella bara che si trascina sempre appresso, dove in precendenza nascondeva un'altra sua arma segreta: una mitragliatrice a canna rotante.

L'equivalente della pistola di Unosuke in Yojimbo o del fucile di Ramon Rojo in Per un pugno di dollari: uno strumento che travalica ogni rapporto di forza e rende materialmente invincibile chi lo possiede, rendendolo in realtà vulnerabile proprio per questa sua sensazione di onnipotenza che gli fa perdere il contatto con la realtà.

Ma non sarebbe nemmeno necessario l'oro per scatenare cupidigia e violenza. Nel modello da cui sono partite tutte le variazioni sul tema, Yojimbo, erano ben più misera la  posta in palio. Mentre in Pronti a morire addirittura non esiste: è solo il desiderio di essere il più veloce con la pistola (o con la spada, poco cambia.)

Certamente, l'oro od il denaro sono un di più.

Un altro tratto caratteristico di questo genere di racconti, sempre diversi ma sempre uguali, è che l'autorità, misero vaso di coccio a confronto con i vasi di ferro dei grandi interessi privati, scende subito a patti con coloro su cui dovrebbe vigilare.

Non si tratta in realtà di veri e propri patti, ma di assoluto ed incondizionato allineamento alle posizioni dei prevaricatori, che sia ottenuto con il terrore, con la corruzione o con un ben dosato miscuglio di entrambi.

Lo sceriffo del villaggio (Teruyuki Kagawa) è pronto a trovare un accordo immediato con Taira no Kiyomori: sarà il loro uomo, e solamente perché loro sono arrivati per primi: si sarebbe venduto ai Minamoto, se non addirittura offerto, con la stessa prontezza.

Anche questo personaggio ha il suo equivalente in molte altre storie a noi raccontate.

La serietà di fondo del soggetto non impedisce a Miike di abbandonarsi al consueto gioco di citazioni ove la gara è fondamentalmente a chi la spara (in tutti i sensi) più grossa, togliendo drammaticità alle scene cruenti che ci verranno proposte, talmente truculente da diventare divertenti.

Ecco infatti come viene ridotto, e ha ben donde a sembrarne non soddisfatto, il Protesilao ° della situazione, la prima vittima Heike della guerra tra le armate rivali: malamente sforacchiato dal primo colpo esploso dai Genji.

  • Ricordiamo a chi si fosse messo in onda solo adesso che un vaticinio aveva predetto alla flotta Achea, che stava per riversare i suoi guerrieri nella pianura di Troia, che il primo uomo a mettere piede a terra sarebbe stato anche il primo a morire. Fu appunto Protesilao il solo che ebbe il coraggio di accettare la morte, scavalcando la sponda della nave per balzare sul bagnasciuga. Dove lo avrebbe immediatamente abbattuto la spada di Ettore. Il tutto, nel 1200 circa avanti Cristo.

 

Non che Takashi Miike voglia farsi bello con le penne altrui.

Il riferimento a Pronti a morire è talmente evidente da diventare un esplicito omaggio a chi ha avuto per primo la graziosa idea.

Nello specifico, nel fotogramma tratto da questo film, attraverso il clamoroso buco aperto nella scatola cranica del pistolero nero suo avversario, scorgiamo in lontananza Herod (un nome a caso?), il cattivo dei cattivi interpretato da Gene Hackman.

E' lui che ha appena esploso il micidiale colpo.

 

 

 

Mentre Taira no Kiyomori viene dipinto da Miike come un bulletto da quartiere che al momento che volano le pallottole (e frecce, verrettoni, accette, colpi di spada...) si ripara dietro al primo suo accolito che si presti a fargli da scudo, o vi venga obbligato, Minamoto no Yoshitsune ci viene rappresentato come una persona dai gusti decadenti ed esagerati ma con un certo carisma.

La realtà era ben diversa, Kiyomori fu un fine stratega e fu anche il primo condottiero a rivestire una carica che gli desse un potere effettivo sopra l'intero Giappone, venendo nominato nel 1167 dajō daijin (Ministro degli Affari Supremi) alla corte del Tennō. L'unico suo errore fu probabilmente quello di risparmaire Minamoto no Yoritomo e il fratello minore Yoshitsune, gli unici Minamoto rimasti in vita dopo che Kiyomori  ne aveva annullato le forze combattenti.

E furono invece proprio Yoritomo, innanzitutto uomo politico, e Yoshitsune, innanzitutto e forse solamente guerriero, a rovesciare la situazione ed annientare nel giro di pochi anni i Taira. Ma Kiyomori era come abbiamo detto già scomparso, vittima di una febbre tanto alta da incenerire - secondo la leggenda - chiunque gli si accostasse sul letto di morte.

Yoshitsune si ritiene uno degli ultimi mononofu, termine arcaico che designava i guerrieri poi designati come samurai, che lui considera persone vacue che danno troppa importanza all'apparenza.

Per questo impone ai suoi uomini ferrea disciplina e li sottopone a dure prove. Come arrestare con le mani, ad occhi chiusi o bendati, la lama di una spada vibrata contro di loro per tagliarli in due.

Invano: per quanto le sue motivazioni e le sue ambizioni siano elevate, è circondato da una massa di cialtroni che nella migliore delle ipotesi falliranno la prova trovando una morte grottesca.

Miike sembra volerci dire che anche per seguire la via della mano sinistra, la via del male, il percorso è lungo e difficile, e se molti saranno i chiamati, perfino lì pochi saranno gli eletti.

Sono ugualmente grottesche le pretese intellettuali del grezzo Kiyomori. Dopo avere declamato ai suoi uomini i versi inizialli dell'Heike monogatari, che noi già conosciamo, annuncia orgoglioso di avere trovato un nuovo testo sacro di riferimento, e lo mostra.

Si tratta dell'Enrico VI di Shakespeare, che canta la vittoria dei rossi - e rosso è il colore degli Heike. D'ora in poi vuole di conseguenza essere chiamato non più Kiyomori ma Enrico.

La gaffe di Kiyomori può non sembrare evidente, sarà bene quindi tentare di renderla esplicita. L'Enrico VI, una delle prime opere di Shakespeare, divisa in tre parti, narra appunto della Guerra delle due rose tra i Rossi (Lancaster) e i Bianchi (York). Ma si conclude con la morte di Enrico VI e la definitiva sconfitta dei Rossi!

Ipotizziamo che Miike abbia giocato uno scherzo allo spettatore regalandogli un senso di superiorità sull'ignorante Kiyomori, mentre con un pizzico di perfidia prende invece in giro proprio noi, spettatori, che non ne sappiamo di più. Ma come si spiega allora l'abbaglio di Kiyomori? Non era arrivato a leggere la fine... I Lancaster infatti ad un certo punto sembravano avere la vittoria in mano proprio come gli Heike in Giappone esattamente 300 anni prima: la guerra Gempei si concluse nel 1185 con la vittoria dei Bianchi (Genji), quella delle Due Rose nel 1485 ugualmente con la vittoria dei Bianchi (York).


Heihachi è figlio di Shizuka, che è la nuora di Ruriko la locandiera. Discendono dagli Heike come tutti gli abitanti del luogo, ma un giorno suo figlio Akira tornò portando con se Shizuka, una Genji.

Shizuka ha trovato riparo tra i Genji dopo la brutale uccisione di Akira da parte di Kiyomori, ma Yoshitsune la tratta con la medesima brutalità che le mostrava la gente nemica.

Sulla tomba del padre di Heihachi - che indossa blu jeans e scarpe da jogging come un bambino dei giorni nostri, sono infatti piantate delle rose rosse.

Heihachi ha perduto la parola il giorno in cui ha dovuto assistere alla morte del padre. E' il frutto dell'unione tra una rosa rossa ed una rosa bianca, dell'amore che sfida le fazioni in lotta (Giulietta e Romeo?...).

Il pistolero decide di passare dalla parte dei Genji, chiedendo in compenso la donna.

Vince facilmente la resistenza di un bandito che la vuole per se, ma tra lui e Yoshitsune è evidente che esiste una incompatibilità assoluta. Il loro duello è solo rimandato, Yoshitsune non avrà pace finché non lo vedrà morto.

Prima di vedere lui solamente un altro combattimento a morte aveva desiderato: quello contro Benten la sanguinante,  misterioso demone marino raffigurata con una spada nella mano di una delle sue molte braccia.

 

 

La parte centrale del film è dedicata all'azione pura, e vi si moltiplicano gli episodi e le citazioni.

Non avrebbe alcuna possibiltà il tentativo di darne un resoconto dettagliato senza annoiare il lettore. Basterà accennarne per sommi capi.

Continuando nel suo doppio gioco lo sconosciuto tenta di provocare uno scontro sanguinoso tra le due bande, approfittandone per mettere il salvo le due donne ed Heihachi. Ma questa sua insolita prova di generosità, come negli archetipi, sarà la sua rovina.

Shizuka, Ruriko ed Heihachi vengono catturati dagli uomini dei Genji che minacciando di ucciderli costringono il pistolero ad arrendersi.

Nel frattempo gli Heike, allertati da un biglietto anonimo inviato dal pistolero, si sono messi sulle tracce di una misteriosa arma che sta per essere consegnata ai Genji.

Si tratta finalmente della famosa cassa da morto di Django, all'interno della quale si trova una micidiale mitragliatrice Gatling.

Gli assalitori però non riescono a strapparla in tempo alle mani di Benkei, che fa pagare loro un duro prezzo prima di scomparire nell'esplosione del carro delle munizioni, incendiato da una freccia. 

L'esplosione fa comicamente cadere la mitragliatrice accanto a Kiyomori, che se ne stava prudentemente al riparo attendendo la fine della gragnuola di colpi.

Il sopraggiunto Yoshitsune, troppo lontano per intervenire di persona, dopo aver accuratamente valutato con la scrupolosità di un giocatore di rugby che si appresta alla trasformazione distanza, direzione ed intensità del vento ed altre condizioni ambientali, arresta con infallibili colpi di pistola la fuga di Kiyomori.

Il suo braccio destro Shigemori arriva in soccorso, caricandolo sul suo cavallo per prendere la fuga.

Scatta immediatamente l'omaggio al grande Sergio Leone: Yoshitsune si avvicina al suo cavallo e svolge rapidamente l'involto che si trova al lato della sella, evidentemente già predisposto per quell'uso.

Appare una panoplia di armi a canna lunga, adatte per tiri alle grandi distanze. La scena è ripresa tale e quale da Per qualche dollaro ancora .

Nel modello originale non era un bandito ad escogitare questo stratagemma, era invece il Colonnello, ossia l'uomo dall'impermeabile nero, ad estrarre il suo arsenale per fermare il bandito cui stava dando la caccia per poterne riscuotere, come ovviamente farà, la ricca taglia.

Tra gli aneddoti curiosi sparsi tra le memorie dei collaboratori di Sergio Leone viene anche spiegata la probabile origine di quella caratteristica tenuta.

Alla ricerca di un attore americano che fosse in grado di sostenere la parte, ed avendo già ricevuto un diniego da parte dell'attore che costituiva la prima scelta, Leone riuscì a fissare un appuntamento con Lee Van Cleef in un bar, senza molte speranze perché da diversi anni era fuori dal giro per problemi di alcolismo e non sembrava affidabile.

Cadeva una fitta pioggia, e l'attesa fu lunga. All'improvviso entrò dalla porta un uomo alto, che indossava un impermeabile nero. Leone lo fissò a lungo e decise evidentemente non solo che quello era il suo uomo, ma che quell'impermeabile sarebbe stato il suo marchio di fabbrica.

E non basta: stiamo vedendo che l'impermeabile ha fatto carriera come il suo proprietario, anzi ne perpetua la memoria ad aeternum.

Per finire il suo avversario il Colonnello selezionava una pistola a canna lunga, vi applicava con attenzione il calciolo per il tiro di precisione, prendeva accuratamente la mira ed infine lasciava partire un unico colpo, che aveva il micidiale effetto che abbiamo visto all'inizio colpendo il bandito in piena fronte.

In Sukiyaki Django ci troviamo davanti il biancovestito Yoshitsune, che inforca un bianco cavallo, e non il nero Colonnello con il suo nero destriero.

Lo stratagemma e la scelta dell'arma finale sono tuttavia esattamente gli stessi.

Non sarà lo stesso il risultato: Kiyomori gli sfugge, pur ferito, allontandosi a cavallo con la mitragliatrice.

 

 

 

 

La resa dei conti si avvicina. Il pistolero viene come sempre succede catturato (in questo caso dai Rossi) e sottoposto ad un durissimo pestaggio, su cui il regista non tralascia alcun particolare.

E' un ingrediente necessario in praticamente tutte le vicende umane rappresentate sullo schermo ma anche sul palcoscenico o sulle pagine di un libro: l'eroe deve passare attraverso l'inferno per potersi redimere, rendersi conto dei suoi errori e delle sue debolezze umane, e nonostante tutto conquistare infine la vittoria.

Ma l'elemento catalizzatore della vicenda è qui invece la donna, limitata usualmente alle parti di preda e vittima innocente della follia degli uomini. Ruriko rivela la sua vera identità: è lei Benten la sanguinante, il demone contro cui Yoshitsune ha deciso di combattere pur senza averla mai incontrata. Impossessatasi di un'arma Ruriko uccide i Rossi che hanno appena infierito sul corpo della agonizzante Shizuka e libera il pistolero.

Inizia ora, ma concentrato in poche scene, il consueto vorticoso giro di agnizioni e rivelazioni che inquadra la vicenda in un contesto del tutto diverso da quello immaginato fino ad allora. Ruriko invia un messaggio per chiedere l'intervento in suo aiuto di un misterioso personaggio.

Quando lo vediamo, immobilizzato su una immaginifica sedia a rotelle meccanizzata, ci rendiamo conto che non è altri se non Piringo, ormai vecchio.

E' lui che ha addestrato Benten la sanguinaria (di cui vediamo una rappresentazione sullo sfondo). E' lui che l'ha resa madre di Akira.

Ed è lui infine che furioso per l'imperdonabile errore le diede una sonora lezione per ricordare questo precetto: nel sukiyaki non bisogna esagerare con lo zucchero! Ci vuole soprattutto la carne, il sangue...

L'esplosivo fornito da Piringo permette a Ruriko di darsi da fare, mentre in una capanna isolata, ricalcata da quella utilizzata da Sanjuro in Yojimbo il pistolero guarisce dalle sue ferite e riprende le forze.

Anche gli altri protagonisti della vicenda si preparano, ognuno a suo modo, alla catarsi finale che darà in premio al vincitore il tesoro.

Perché un tesoro materiale, custodito in segreto da Ruriko,  esiste davvero: una cassa stracolma di pepite d'oro (ed ovviamente identica a quella del Django di Corbucci), e scatenerà l'inferno.

Sarà sufficiente depositarlo in una giornata umida e ventosa in cui si azzarda ad uscire in mezzo allo stradone del paese, annunciandolo a quel che resta delle due bande con un colpo di pistola in aria. Il resto verrà da solo: si stermineranno tra di loro, con la fattiva partecipazione di Ruriko e del pistolero.

Alla inevitabile carneficina, in cui le morti grottesche si alternano in continuazione a quelle truculente, solamente il pistolero e Yoshitsune sono rimasti in vita. Per affrontarsi nell'immancabile duello da uomo ad uomo.

Per l'occasione inizia a cadere una fitta nevicata che in men che non si dica ricopre tutto con il suo manto. Non giureremmo che i fiocchi di neve siano gli stessi utilizzati negli altri innumerevoli film chambara dove non manca mai il duello o l'agguato sotto la nevicata. Ma certo che gli assomigliano molto.

Lo stesso Yoshitsune, entusiasta della trovata, non può fare a meno di esclamare "Ecco, questo si chiama un finale con classe!"

Di solito si lamenta in questi film l'introduzione della tecnologia che mortifica le virtù dell'essere umano: Si rimpiange la spada, rimpiazzata dalle armi da fuoco che rendono possibile donare la vita - o più spesso la morte - a chiunque ne sia in possesso.

Ora Miike rovescia un po' questa scala di valori. Il perfido Yoshitsune rinuncia alla pistola e si affida solamente alla spada. La manovra in modo impareggiabile, deviando con essa i proiettili che gli arrivano addosso o addirittura tagliandoli in due con un preciso fendente. Arrivati al corpo a corpo il pistolero usa come scudo improvvisato la sua pistola, che viene quasi completamente tagliata da un colpo di spada ma gli salva la vita.

E ricorre alla tecnologia; o se vogliamo ad un trucco, cui non rinunciavano né Sanjuro (il coltello nascosto nella manica) né il suo silenzioso alter ego cui Leone fa indossare una improvvisata corazza di metallo sotto il poncho, né Django quando elimina (a morsi!) il ponticello della sua Colt per poter sparare anche con le mani menomate dai colpi dei suoi nemici.

Il pistolero ha infatti un Derringer nascosta nella manica sinistra, con un meccanismo che la fa scattare nella mano a comando (come Robert De Niro nella scena finale di Taxi driver....). E sarà suo l'ultimo colpo.

Spesso le vicende si concludono ad un cimitero. Sukiyaki Django non fa eccezione.

Viene data sepoltura alle due coppie: Shizuka assieme ad Akira e Ruriko assieme a Toshio, che le ha dichiarato il suo amore solo quando entrambi agonizzavano crivellati di pallottole.

Il pistolero lascia al piccolo Heihachi il tesoro, una pistola ed un consiglio: essere sempre se stesso.

 

 

 

 

 

Sappiamo già che dovrà allontarsi senza mai guardarsi indietro. E' il destino di uomini, e donne, come lui.

Una beffarda scritta in sovrimpressione ci "spiega" intanto quale sarà il destino di Heihachi.

Alcuni anni dopo queste vicende andrà a vivere in Italia, dove diventerà Django.

L'apparente diistacco dei protagonisti di queste saghe stereotipe è meno drastico di come appare. Lo stesso antenato comune Sanjuro Kuwabatake, dopo avere abbandonato al termine di Yojimbo il villaggio dove ha appena terminato di fare piazza pulita andrà a cercarne un altro nel sequel: in Sanjuro il suo cognome diventa Tsubaki, ma la sua missione di eversore dell'eversione è sempre la stessa, e qualunque cosa lui dica deriva da una ricerca deliberata e cosciente e non gli viene assegnata dal caso.

Lo sapevamo già anche da Pronti a morire: qui vediamo la pistolera intabarrata Hellen (Sharon Stone) che in medias res abbandona a spron battuto il villaggio risoluta a non metterci più piede.

Ovviamente non potrà, dovrà arrestare la sua corsa dar di volta al cavallo e tornare ad affrontare il suo destino. Ci si può rifugiare occasionalmente nel deserto, ma solo occasionalmente.

Ci sarà sempre un villaggio ove combattere, che aspetta solo noi, nella buona o nella cattiva sorte.