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La trama come abbiamo detto è molto vaga, eppure segue uno schema preciso, che accomuna vicende minime e grandi sconvolgimenti epocali, gli scontri mortali che mettono in palio un misero pugno di dollari ed un villaggio sperduto immerso nel fango, e la lotta all'ultimo quartiere tra le armate dei Genji e quelle degli Heike per il potere assoluto sopra una grande nazione.

Il personaggio silenzioso e senza nome che vediamo arrivare al villaggio è chiaramente ricalcato sulla figura del colonnello di Sergio Leone, ne abbiamo già parlato. Indossa lo stesso impermeabile nero e cavalca con la medesima flemma che in origine derivò, chi lo immaginerebbe, da una invincibile fobia di Lee Van Cleef nei confronti dei cavalli.

Ogni tentativo di convincerlo a folli cavalcate e agili discese dalla sella fu vano, e il regista dovette cambiare sul campo la sceneggiatura, facendo della lentezza di movimenti del personaggio - legata ad un vecchio incidente e all'impaccio e timore dell'interprete - un marchio di fabbrica che ne dimostrava l'impassibilità e la padronanza di se.

Lo accoglie al villaggio il solito forte messaggio che introduce una vicenda drammatica: il corpo di un impiccato che penzola dalla porta, che è tuttavia di foggia chiaramente nipponica per quanto le scritte in sovrimpressione avvertano che ci troviamo nel Nevada.

Si tratta di una nuova citazione, e ne seguiranno tante altre che seguirle tutte ci sarà - lo diciamo immediatamente - impossibile.

Le vicende di Armonica, protagonista di C'era una volta il west, il western più ambizioso tra quelli diretti da Sergio Leone, partono dalla ricerca della vendetta contro chi spietatamente ha impiccato suo padre, cancellando così il rimorso e la vergogna di avere in qualche modo dovuto collaborare alla sua morte, sotto la minaccia delle armi e con la cinica promessa di una speranza di salvarlo mentre invece lo perdeva.

Sergio Leone, era facile prevederlo, fece scuola e non sono stati i primi a scoprirlo né Takashi Miike né Quentin Tarantino, il cui film più noto (Kil Bill, 2003, di ambientazione giapponese e con le spade giapponesi protagoniste assolute) poggia su una vicenda analoga: la terribile vendetta della Sposa contro chi le ha annientato le persone più care.

Già nel 1995, e troppi altri esempi scopriremmo ma citiamo solo questo perché a sua volta citato da Miike, nel surreale The Quick and the dead (Pronti a morire), in cui l'eroe è una eroina interpretata da Sharon Stone, troviamo questo filo conduttore nella storia.

Chi volesse approfondire la ricerca vi troverebbe numerose altre citazioni dal filone degli spaghetti western, oltre che rendersi conto di quanto lo citi a sua volta Takashi Miike, al quale ora torniamo.

Il paesino composto di poche case affollate su un'unica via, deputata ad ogni azione ma soprattutto a duelli e scontri all'ultimo sangue, squassata dal vento o affondata nel fango a seconda degli umori del tempo, è sempre lo stesso che appare in ogni vicenda analoga.

All classiche baracche del west si affiancano però in Sukiyaki Django edifici di chiaro stampo giapponese.

Il villaggio è apparentemente deserto ma gli abitanti, sempre e con ogni ragione timorosi del peggio, scrutano dalle finestre ogni nuovo evento, ogni nuovo arrivo dal deserto a perdita d'occhio che circonda da ogni parte le poche case, la stalla, la locanda.

Si ripete quanto già visto in Yojimbo, quanto già visto in Per un pugno di dollari. Le uniche persone che sembrano abitare quel paese di fantasmi sono dei tracotanti malviventi, che escono ad affrontare il nuovo venuto.

Come anticipato nel prologo dalle parole di Piringo, sono due bande rivali che si contendono quel luogo desolato.

Perché il villaggio cela un tesoro, o forse solo il miraggio di un tesoro: dei giacimenti d'oro pronti ad essere sfruttati dal primo che allunghi le mani.

Sono prima i rossi a farsi avanti: un nugolo di ceffi abbigliati nei modi più fantasiosi, che possono evocare indifferentemente qualunque epoca e qualunque parte del mondo, ma dove ovviamente spiccano i riferimenti al selvaggio west e al Giappone feudale.

Hanno comunque qualcosa in comune nel loro variegato abbigliamento, per tutti predomina il rosso (l'idea, magistralmente ampliata, viene dal Django originale, in cui sciarpe e cappucci rossi identificavano la banda del maggiore Jackson). Sono infatti la banda dei Rossi, il colore degli Heike. Il loro capo, che cerca di attirare lo sconosciuto tra i suoi uomini, dopo averlo visto reagire arma alla mano e con incredibile maestria alle provocazioni dei suoi accoliti, è Taira no Kiyomori (Koichi Sato).

Dalla parte opposta, con analoghe offerte al misterioso pistolero, si avanza la schiera dei Bianchi, il colore dei Genji. Li comanda Minamoto no Yoshitsune (Yusuke Iseya), affiancato dal leggendario gigante Benkei, per l'occasione trasformato da monaco guerriero armato di lancia a guerriero indiano armato di fucile Winchester.

Yoshitsune è probabilmente - assieme a Miyamoto Musashi -  la figura più leggendaria della cultura giapponese ma non abbondano i film in cui appaia, probabilmente per la difficoltà di ricreare sullo schermo le grandi battaglie dell'epoca . Quindi si portano sullo schermo di preferenza solo episodi minori della sua vita. Ricordiamo tra gli altri Tora no ofumu Otokodachi (1942), il primo film epico jidai di Aikira Kurosawa e forse uno dei più belli o il più recente Gojoe (2000) diretto da Gakuryu Ishii che narra in una atmosfera gotica e trasognata del suo incontro col monaco Benkei, futuro inseparabie compagno nella vita e nella morte.

Taira no Kiyomori, comandante dell'armata dei Taira (Heike) nacque nel 1118 e scomparve di malattia nel 1181 prendendo parte solo alle fasi iniziali della guerra Gempei, nome che deriva da una pronuncia alternativa degli ideogrammi Taira e Minamoto, in cui dovevano decidersi una volta per tutte i destini dei due feudi rivali . In realtà non ebbe quindi occasione di scontrarsi a fondo col principe Minamoto no Yoshitsune (1159-1189), generale impavido ma subordinato nella linea di comando Minamoto (Genji) al fratello maggiore Yoritomo. Fu lui tuttavia che annientò i rivali a Dan no ura.

Completano l'elenco dei protagonisti due donne, che assumono ruoli che erano maschili negli archetipi, a testimonianza della sempre crescente visibilità - ed importanza - che si tende a dare ai ruoli femminili nella società e di conseguenza nella cultura moderna.

Ruriko (Kaori Momoi) prenderà la parte del paesano che si trova suo malgrado ad ospitare lo straniero, rimanendone allo stesso intimorito dalla violenza ed imprevedibiltà delle sue azioni ed attirato dalla intuizione che dietro quelle decisioni apparentemente casuali ci sia un freddo piano di battaglia, e battaglia dalla parte dei deboli.

E' un personaggio, una figura, che trovammo in Yojimbo per rivederlo poi in Per un pugno di dollari e ritrovarlo anche in Nathaniel, il padrone della taverna di Django.

Shizuka (Yoshino Kimura) ha nella vicenda una parte meno facilmente identificabile, in quanto in lei si fondono differenti personaggi e differenti situazioni di diverse opere precedenti.

E' la donna che viene salvata con tutta la sua famigliola dal pistolero silenzioso o dal samurai scontroso, a prezzo del fallimento sia pure momentaneo del loro gioco.

O la vittima del tragico trauma che cerca la sua vendetta, che deriva da C'era un volta il west. Ma l'abbiamo già vista in Pronti a morire nei panni della Signora , che però veste come il Colonnello di Sergio Leone e sa difendersi da sola con la sua pistola.

E se la rivediamo ancora in certi atteggiamenti del pistolero di Sukiyaki Django, è anche la Maria del Django originale, destinata ad essere un fuscello trascinato qua e là dalla violenza degli uomini.