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Lettere da Iwo Jima è il coraggioso tentativo di Clint Eastwood di dipingere un grande dittico a memoria di una delle più e drammatiche cruente e significative battaglie della seconda guerra mondiale: l'invasione dell'isola di Iwo Jima da parte delle truppe statunitensi, vista dalla parte nipponica in questa opera e dalla parte opposta in Bandiere dei nostri padri. Va detto immediatamente che questo tentativo non ha avuto risultati ottimali ma analizzarne le cause e tentare di darne una spiegazione potrebbe aiutare a compiere un nuovo passo verso la comprensione reciproca tra mondi diversi, che avrebbero tutto l'interesse a rimanere distinti pur continuando ad apprezzarsi e frequentarsi. Sembrano invece al contrario avere iniziato una irreversibile rincorsa verso una pesudo-cultura fusion in cui tutto si confonde e nulla si valorizza.

 

 

Il film tenta di riprendere fedelmente vicende già narrate dal libro  Così triste cadere in battaglia, di Kakekashi Kumiko, basato sulle lettere dal fronte del comandante del corpo d'armata giapponese, il generale Kuribayashi. Perde però lungo la strada lo spirito che emana da quelle pagine e il senso della disperata battaglia di Kuribayashi per la difesa di Iwo Jima. Disperata ma cosciente, lucida, fredda, razionale e paradossalmente umana e del tutto priva di eroismo. E soprattutto di questo si avverte la mancanza nell'opera di Clint Eastwood.

Non sarebbe infatti esatto attribuire agli uomini di quel tempo la responsabilità di comportamenti che derivavano da condizionamenti secolari, diffusamente considerati degni di rispetto e osservanza anche nel XX secolo e forse, per quanto più limitatamente e in ulteriore costante calo, tuttora. Questo non vuol dire tuttavia che ogni ordine nella tradizione giapponese venisse osservato ciecamente e incondizionatamente, e lo prova la contestazione palese per quanto sottile, non esibita e non facilmente percepibile, di Kuribayashi agli "ordini superiori". Vennero infatti da lui formalmente disattesi al fine di poterne garantire l'esecuzione reale ma allo stesso tempo apertamente condannati nei suoi pur enigmatici messaggi al quartier generale. Messaggi che vennero tuttavia incontestabilmente letti nel giusto senso: lo prova il fatto che vennero censurati e di fatto lo sono tuttora, nonostante la coraggiosa presa di posizione dello stesso imperatore, che ha voluto per primo richiamarli in un documento ufficiale. Messaggi che possono essere oscurati ma non contestati in quanto la morte del loro autore e degli uomini al suo comando li rende eterni e non rifiutabili.

Dispiace che Eastwood non sia riuscito a trasmettere in questa opera il messaggio di Kuribayashi, che traspare invece da ogni singola pagina del testo cui si ispira, di cui raccomandiamo assolutamente la lettura. Gli va comunque dato atto di avere tentato. Rendere conto di quanto da lui lasciato incompiuto o di quanto non compreso ci può tuttavia essere utile nel nostro percorso di avvicinamento alla cultura nipponica.

Nella critica ci dovremo spesso avvalere di confronti diretti tra quanto mostrato nel film e quanto invece dettagliato nel libro, partendo da un primo significativo esempio. Eastwood insiste in numerose sequenze sui suicidi dei soldati giapponesi, che spesso si lasciano saltare in aria utilizzando la bomba a mano in dotazione quando non più in grado di resistere al nemico oppure semplicemente sfiancati dalla pressione psicologica di incessanti attacchi da parte di forze e mezzi schiaccianti.

Non abbiamo a disposizione statistiche di alcun tipo che indichino la frequenza di tali comportamenti da parte dei soldati giapponesi. Indubbiamente il concetto di libera scelta della morte da parte del soldato nipponico, sia nel quadro di un evento bellico allo scopo di infliggere danni al nemico, sia come metodo di sottrarsi a una condotta considerata infamante - quella del soldato che si arrende piuttosto che combattere fino alla fine - ha colpito profondamente la mente di ogni occidentale. E' possibile che questo impatto abbia agito anche in Eastwood portandolo a sopravvalutare questo aspetto della battaglia. Lascia allo spettatore l'impressione che questi comportamenti fossero abituali da parte dei difensori di Iwo Jima.

E' opportuno citare a questo punto quanto abbiamo detto nella recensione del bel testo della Kakekashi:

«In contrasto con la retorica samurai [il generale Kuribayashi] scelse quindi di attaccare solo nei momenti adatti per poi ritirarsi immediatamente al riparo, vietando ai suoi uomini qualunque sconsiderato atto di “eroismo”. In caso di sconfitta proibì loro anche di morire inutilmente adeguandosi all’antico rituale che imponeva allora al soldato di lanciarsi addosso al nemico per trovare una morte gloriosa.»

Non ancora quindi una proibizione in assoluto del suicidio, ma riteniamo che il senso sia abbastanza chiaro, dispensandoci da ulteriori riflessioni che il lettore potrà fare autonomamente senza nostri suggerimenti. Del resto lo fa notare lo stesso Eastwood, ma senza essere nel prosieguo del film del tutto coerente con questa premessa.

Va citato ancora quanto, a proposito della difesa di Iwo Jima, riportato da parte avversaria nell'United State Marine Corps History:

«L’attacco giapponese sferrato nelle prime ore del mattino del giorno 26 marzo non fu una carica banzai, bensì un piano ben congegnato per causare la massima confusione e distruzione.»

La figura stessa di Kuribayashi, indubbiamente dotato di enorme carisma oltre che di indiscutibili doti di uomo d'armi, viene tratteggiata da Eastwood in maniera un po' troppo calligrafica, imprigionato nella impeccabile alta uniforme costellata di decorazioni, ossia in un ruolo che non consente spazio al libero arbitrio ma obbliga a percorsi obbligati decisi da altri, e impersonato dalla volitiva maschera di Ken Watanabe mentre dai suoi ritratti traspare una personalità meno impositiva.

E' ben diversa anche, sia pure soggettiva ma come del resto soggettiva è la visione di Eastwood, la sensazione che si ricava osservando la foto di Kuribayashi attorniato dalle sue guardie del corpo: appare come un uomo semplice, in semplice tenuta da campo e in semplice atteggiamento, con l'unico vezzo di quella canna da passeggio da cui non si separava praticamente mai.

Un uomo rispettato e seguito da chi gli sta intorno in quanto uomo, non in quanto rappresentante del potere e trasmettitore di ordini da eseguire senza alcuna esitazione e senza alcuna riflessione. Kuribaysahi indubbiamente emanava ordini. Ma erano probabilmente ordini che venivano giudicati dai sottoposti giusti e necessari, perché questa era la sensazione che lui trasmetteva: di essere persona giusta e necessaria.

Detto questo, che ci sembra una premessa indispensabile alla "lettura" del film, va riconosciuto ancora una volta il rispetto con cui il regista si è avvicinato a questa tragica storia, fino al punto di compiere la scelta assolutamente controproducente dal punto di vista commerciale da far recitare i suoi personaggi nella lingua originale, in giapponese.

Ed è il momento di iniziare a tratteggiarne lo svolgimento

 


 

Il film inizia con l'arrivo del generale di brigata Tadamichi Kuribayashi nella sperduta, montagnosa e desertica isola di  Iwo Jima. Un obiettivo di immenso valore psicologico per entrambi i contendenti in quanto facente parte del territorio giapponese sia pur se distante dalla madrepatria oltre 1000 km. Ma di scarso valore strategico. Per quanto questo argomento sia stato molto dibattuto, sostenendo  alcuni che avrebbe costituito una importante base per i bombardamenti sul suolo giapponese, la grande distanza pone seri interrogativi sulla fondatezza di questa tesi. Per quanto molti aviomezzi abbiano fatto scalo in seguito nell'isola, per rifornimento o per ragioni varie, sembra che solamente 10 missioni di bombardamento siano in realtà partite da Iwo Jima.

In ogni caso il comando giapponese era deciso a difendere l'isola a ogni costo e quello americano a prenderla a ogni costo. Dopo l'evacuazione dei pochi abitanti la guarnigione fu portata fino a 20.000 uomini, nonostante le grandi difficoltà dovute anche alla completa mancanza nell'isola di acqua potabile. Nel giugno 1944 il generale Kuribayashi atterrò nell'isola per prenderne il comando. Avrebbe completamente stravolto le strategie di difesa messe in atto dai suoi predecessori, e nel febbraio 1945 avrebbe affrontato con incredibile tenacia l'invasione di una forza di sbarco di oltre 70.000 uomini. Il 90% circa dei difensori trovò la morte in circa un mese di combattimenti, e tra loro lo stesso Kuribayashi. Le perdite sul fronte nemico vengono stimate in circa 29.000 uomini tra morti e feriti.

Dopo la prima ispezione arriva la prima decisone operativa di Kuribayashi: fa interrompere immediatamente lo scavo di trincee nella sabbia, ordinato per aderire allo sciocco teorema "arrestiamo il nemico sulla battigia", che fece i suoi danni anche in Italia.

Quelle fragili difese verrebbero facilmente annientate dai bombardamenti preliminari, senza alcuna possibilità di infliggere il minimo danno al nemico. I reparti si dovranno spostare nella zona montagnosa ove scaveranno dei rifugi più impenetrabili ad attacchi dal mare e dal cielo e da dove potranno più facilmente, dall'alto, bersagliare il nemico.

Kuribayashi non sa quanto tempo ha a disposizione: passerano otto mesi prima che venga sferrato l'attacco, ma seppe utilizzare al meglio quella lunga attesa.

 

 

I soldati giapponesi vengono tratteggiati da Eastwood come persone normali, poco interessate a un comportamento eroico e piuttosto a come sopravvivere alle dure prove del momento, alla stolida brutalità di alcuni ufficiali e sottufficiali, alla apparente e troppo spesso reale assurdità di certi ordini, a come mantenere vivo il ricordo della patria, dei familiari e di quella vita di tutti i giorni cui ambiscono tornare quanto prima.

Kuribayashi ordina ai suoi ufficiali di occuparsi di procurare danni al nemico e non ai propri uomini, senza tuttavia imporre queste sue idee solamente con ordini perentori, facendo anche e piuttosto notare ironicamente la illogicità di certi comportamenti, specialmente in un momento in cui occorre moltiplicare le forze di ognuno, facendo appello a quelle interiori perché lo squilibrio materiale di fronte al nemico è incolmabile.

Per vie scarsamente conosciute, quasi tutti i protagonisti scomparvero nella battaglia, e quindi solo accennate o ipotizzate da Eastwood, Kuribayashi porta i suoi soldati a combattere fin quasi all'ultimo uomo per difendere uno scoglio vulcanico le cui sorti non cambieranno in alcun modo quelle della guerra. Che forse, certamente non lo ignora Kuribayashi che è stato addetto militare negli Stati Uniti e ne conosce alla perfezione il potenziale bellico, sono state già irreversibilmente decise.

Per sviluppare il tema dell'impatto di eventi bellici più grandi del singolo Eastwood segue le vicende del soldatino Saigo (Kazunari Ninomiya) che qui vediamo alle prese con le regole della censura militare, per lui del tutto incomprensibili.

E' l'archetipo della persona del tutto inadatta non solo a imprese guerresche ma anche alla semplice vita militare, naturale bersaglio di ogni superiore o presunto tale.

 

 

 

 

 

 

 

 

Kuribayashi perlustra incessantemente quella che intende far diventare una fortezza, prendendo minuziosamente appunti e valutando lo stato d'animo e la preparazione delle truppe al suo comando, che non sono certamente ottimali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il regista approfitta dell'incontro casuale di Kuribayashi con un bambino per dare voce ai suoi ricordi.

La voce fuori campo rilegge alcune lettere da lui inviate ai familiari, in particolare quella al figlio Tarô in cui gli narra delle sue scoperte e delle sue ingenue meraviglie risalenti al periodo in cui risedeva negli Stati Uniti.

Non mancano piccoli episodi di economia domestica, come il rammarico di non aver potuto sistemare nel corso della sua ultima licenza una perdita in cucina.

Il generale deciderà ben presto di evacuare dall'isola la popolazione civile: non sarebbe in grado di difenderla, e nel corso delle operazioni militari costituirebbe allo stesso tempo un ostacolo e una vittima incolpevole. E' giusto che la guerra venga riservata ai soldati.

 

Il comando verrà insediato a nord, all'interno della montagna principale dove verranno scavati numerosi cunicoli collegati a nido d'ape, per facilitare lo spostamento dei difensori in caso di necessità senza esporli al fuoco nemico.

L'elevazione meridionale del monte Suribachi, all'estremo sud, è tuttavia ideale per una postazione indipendente, ugualmente scavata nella roccia, da cui si possano efficacemente bersagliare dall'alto le truppe nemiche durante il loro sbarco.

E' quello il luogo ideale per prendere terra, il monte Suribachi il luogo ideale per opporre resistenza.

 

 

 

 

 

Al ritorno da questa perlustrazione Kuribayashi ha il piacere di incontrare un vecchio amico.

Il colonnello Takeichi Nishi (Tsuyoshi Ihara), nobile stravagante, campione olimpionico di equitazione, che ha preteso di portare anche il suo destriero in quell'isola sperduta e desolata.

Nb: il link porta alla voce inglese di wikipedia riguardante Nishi, molto più completa rispetto alla succinta versione italiana, che permette di rendersi conto di come anche Nishi fosse molto legato alla cultura statunitense.

Nishi oltre a portare un pizzico di sana follia in un ambiente fin troppo paludato sarà il suo più valido collaboratore per tutto il lungo periodo della preparazione e per quello, breve in quanto durerà solamente un mese ma tragicamente intenso, della battaglia.

Nishi è disincantato, non crede che la guerra possa concludersi positivamente e ritiene che la stessa difesa dell'isola sia inutile. Eppure è là, dove ritiene che i pochi mezzi corazzati di cui dispone possano essere utili.

 

Un altro personaggio, probabilmente fittizio, aiuta sceneggiatori e regista ad approfondire la loro disamina delle condizioni in cui il Giappone affrontò la guerra.

E' un nuovo arrivato, il soldato Shimizu (Ryô Kase), che viene immediatamente sospettato di appartenere al Kempeitai, la temuta polizia segreta.

Dal sospetto alla certezza corre poco: viene subito considerato una spia inviata per controllare cosa dicano e pensino tra di loro i soldati, e tenuto ai margini.

 

 

 

 


Dopo molti mesi di preparativi in cui le truppe hanno incessantemente scavato rifugi nella rocca, tra lo scetticismo e l'aperto ostracismo della maggior parte degli ufficiali, che non condivide le idee di Kuribayashi, una incursione aerea avverte che qualcosa si sta preparando.

E' solo l'inizio di un lungo lavoro di logoramento che le forze aeree statunitensi conducono sull'isola, ma gli effetti sono limitati: se non vengono colpite allo scoperto come in occasione della prima incursione le truppe nipponiche sono al sicuro dentro alle caverne che hanno scavato nei mesi precedenti.

L'ulteriore attesa in ogni caso è logorante, i soldati arrivano ad augurarsi che l'invasione arrivi presto.

 

 

 

Arriverà il 19 febbraio 1945: una sterminata flotta, si presenta nelle acque di Iwo Jima, e le navi da battaglia iniziano un intenso cannoneggiamento che durerà per tre giorni.

I rusultati sono però limitati, i 18 km di tunnel fatti scavare da Kuribayashi proteggono dal fuoco dell'artiglieria i suoi uomini. Solamente le trincee che il quartier generale ha nonostante tutto voluto far scavare sulla spiaggia vengono distrutte.

Il controfuoco nipponico è invece molto efficace, operando da posizioni dominante e contro un mare affollato di bersagli.

Lo sbarco delle due divisioni di marines nei settori nord e sud incontra impreviste difficoltà: superate le spiagge, di fatto indifese, devono poi inerpicarsi su ripidi pendii rocciosi, bersagliati dall'alto.

 

 

Kuribayashi ha rivolto un discorso alle truppe, diffuso dagli altoparlanti in tutto il vasto sistema di difesa sotterraneo.

La difesa dell'isola dovrà essere garantita fino all'ultimo uomo.

Nessuno deve illudersi di poter tornare a casa vivo.

Ma nessuno è autorizzato a morire prima di avere provocato il massimo danno al nemico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le perdite della forza d'invasione sono alte fin dall'inizio: rinunciando ad aprire il fuoco prematuramente Kuribayashi ha dato ordine di attendere finché le spiagge non fossero sature di nemici, ben sapendo che non avrebbero potuto avanzare sui ripidi pendii né retrocedere essendo incalzati alle spalle dalle ondate successive di mezzi da sbarco.

Le perdite giapponesi sono invece in quel momento limitate alle casamatte dislocate lungo la spiaggia per ordine del quartier generale.

Il resto delle truppe è al sicuro per il momento dentro le caverne.

 

 

 

 

 

 

Per superare questo secondo ostacolo le forze d'attacco devono procedere completamente allo scoperto, senza che il fuoco d'artiglieria delle navi e i bombardamenti degli aerei riescano a indebolire la resistenza nipponica.

Ma non avrebbe senso una vana descrizione scritta di quanto il film ci lascia vedere in seguito.

E' sufficiente sapere che la resistenza durò come sappiamo quasi un mese.

La bandiera americana venne issata sul monte Suribachi il 23 febbraio, e l'immagine che ritrae questo momento, la prima bandiera piantata sul suolo nipponico, è divenuta nota in tutto il mondo. Ma era solo l'inizio della battaglia: presso il monte Osakayama era ancora quasi intatto il grosso delle forze nipponiche, sul Suribachi era operativa solamente una base distaccata che aveva il compito di sottoporre a un fuoco d'infilata dal sud le truppe da sbarco, che venivano contemporaneamente bersagliate anche dal nord.

La resistenza non venne travolta ma sfiancata lentamente, eliminando una postazione dietro l'altra con un intenso uso di lanciafiamme, arma contro cui le truppe asserragliate nelle caverne non avevano alcuna difesa, rimanendo condannati a una morte atroce.

Nishi, colpito da un'esplosione, perde la vista. Ordina al suo reparto, rimasto quasi senza munizioni e non più in grado di tenere la posizione, di ritirarsi per ricongiungersi agli ultimi difensori. Lui, ormai inabile al combattimento, si darà la morte.

Shimizu, che nel frattempo lo spettatore ha conosciuto sotto una veste molto diversa da quella che era sembrata a prima vista, decide di arrendersi.

Verrà però poi abbattuto a sangue freddo dalle sentinelle statunitensi, semplicemente annoiate di dover passare la notte a sorvegliarlo.

Atrocità se ne commisero. Da una parte e dall'altra.

 

 

 

 

Nella sua ultima lettera ai familiari Kuribayashi comunica che terminata ormai l'acqua, all'esaurimento le munizioni, guiderà gli ultimi uomini rimasti all'attacco.

E' quell'attacco, ricordiamo, così definito dalle fonti americane:

«L’attacco giapponese sferrato nelle prime ore del mattino del giorno 26 marzo non fu una carica banzai, bensì un piano ben congegnato per causare la massima confusione e distruzione.»

Kuribayashi scomparve nella mischia senza che il suo corpo venisse mai ritrovato, come del resto quello di migliaia dei suoi soldati. Il suo ultimo messaggio al quartier generale terminava col jisei, il poema di addio alla vita:

Impossibilitato ad adempiere a questo arduo compito per il nostro paese
Frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.
Ma salvo sbaragli il nemico,
Il mio corpo non può marcire nel campo.

Sì, rinascerò nuovamente sette volte
E brandirò la spada.
Quando le lugubri gramaglie ricopriranno quest’isola
Mio unico pensiero sarà la Terra imperiale.

Il messaggio venne censurato e manipolato dalle autorità. Solamente molti anni dopo l'imperatore Akihito, che ha scelto che il suo periodo sul trono venga denominato Heisei (Pace ovunque), in visita al sacrario di Iwo Jima, ha citato le sue parole restituendo loro la vita.

Il soldato Saigo, per volere di Kuribayashi, sarà tra i sopravvissuti.

Così come il generale ha deciso di combattere e morire per la sua famiglia, Saigo dovrà vivere e tornare in Giappone, per rivedere sua moglie e vedere per la prima volta la sua bambina che non ha mai conosciuto.