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Dopo molti mesi di preparativi in cui le truppe hanno incessantemente scavato rifugi nella rocca, tra lo scetticismo e l'aperto ostracismo della maggior parte degli ufficiali, che non condivide le idee di Kuribayashi, una incursione aerea avverte che qualcosa si sta preparando.

E' solo l'inizio di un lungo lavoro di logoramento che le forze aeree statunitensi conducono sull'isola, ma gli effetti sono limitati: se non vengono colpite allo scoperto come in occasione della prima incursione le truppe nipponiche sono al sicuro dentro alle caverne che hanno scavato nei mesi precedenti.

L'ulteriore attesa in ogni caso è logorante, i soldati arrivano ad augurarsi che l'invasione arrivi presto.

 

 

 

Arriverà il 19 febbraio 1945: una sterminata flotta, si presenta nelle acque di Iwo Jima, e le navi da battaglia iniziano un intenso cannoneggiamento che durerà per tre giorni.

I rusultati sono però limitati, i 18 km di tunnel fatti scavare da Kuribayashi proteggono dal fuoco dell'artiglieria i suoi uomini. Solamente le trincee che il quartier generale ha nonostante tutto voluto far scavare sulla spiaggia vengono distrutte.

Il controfuoco nipponico è invece molto efficace, operando da posizioni dominante e contro un mare affollato di bersagli.

Lo sbarco delle due divisioni di marines nei settori nord e sud incontra impreviste difficoltà: superate le spiagge, di fatto indifese, devono poi inerpicarsi su ripidi pendii rocciosi, bersagliati dall'alto.

 

 

Kuribayashi ha rivolto un discorso alle truppe, diffuso dagli altoparlanti in tutto il vasto sistema di difesa sotterraneo.

La difesa dell'isola dovrà essere garantita fino all'ultimo uomo.

Nessuno deve illudersi di poter tornare a casa vivo.

Ma nessuno è autorizzato a morire prima di avere provocato il massimo danno al nemico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le perdite della forza d'invasione sono alte fin dall'inizio: rinunciando ad aprire il fuoco prematuramente Kuribayashi ha dato ordine di attendere finché le spiagge non fossero sature di nemici, ben sapendo che non avrebbero potuto avanzare sui ripidi pendii né retrocedere essendo incalzati alle spalle dalle ondate successive di mezzi da sbarco.

Le perdite giapponesi sono invece in quel momento limitate alle casamatte dislocate lungo la spiaggia per ordine del quartier generale.

Il resto delle truppe è al sicuro per il momento dentro le caverne.

 

 

 

 

 

 

Per superare questo secondo ostacolo le forze d'attacco devono procedere completamente allo scoperto, senza che il fuoco d'artiglieria delle navi e i bombardamenti degli aerei riescano a indebolire la resistenza nipponica.

Ma non avrebbe senso una vana descrizione scritta di quanto il film ci lascia vedere in seguito.

E' sufficiente sapere che la resistenza durò come sappiamo quasi un mese.

La bandiera americana venne issata sul monte Suribachi il 23 febbraio, e l'immagine che ritrae questo momento, la prima bandiera piantata sul suolo nipponico, è divenuta nota in tutto il mondo. Ma era solo l'inizio della battaglia: presso il monte Osakayama era ancora quasi intatto il grosso delle forze nipponiche, sul Suribachi era operativa solamente una base distaccata che aveva il compito di sottoporre a un fuoco d'infilata dal sud le truppe da sbarco, che venivano contemporaneamente bersagliate anche dal nord.

La resistenza non venne travolta ma sfiancata lentamente, eliminando una postazione dietro l'altra con un intenso uso di lanciafiamme, arma contro cui le truppe asserragliate nelle caverne non avevano alcuna difesa, rimanendo condannati a una morte atroce.

Nishi, colpito da un'esplosione, perde la vista. Ordina al suo reparto, rimasto quasi senza munizioni e non più in grado di tenere la posizione, di ritirarsi per ricongiungersi agli ultimi difensori. Lui, ormai inabile al combattimento, si darà la morte.

Shimizu, che nel frattempo lo spettatore ha conosciuto sotto una veste molto diversa da quella che era sembrata a prima vista, decide di arrendersi.

Verrà però poi abbattuto a sangue freddo dalle sentinelle statunitensi, semplicemente annoiate di dover passare la notte a sorvegliarlo.

Atrocità se ne commisero. Da una parte e dall'altra.

 

 

 

 

Nella sua ultima lettera ai familiari Kuribayashi comunica che terminata ormai l'acqua, all'esaurimento le munizioni, guiderà gli ultimi uomini rimasti all'attacco.

E' quell'attacco, ricordiamo, così definito dalle fonti americane:

«L’attacco giapponese sferrato nelle prime ore del mattino del giorno 26 marzo non fu una carica banzai, bensì un piano ben congegnato per causare la massima confusione e distruzione.»

Kuribayashi scomparve nella mischia senza che il suo corpo venisse mai ritrovato, come del resto quello di migliaia dei suoi soldati. Il suo ultimo messaggio al quartier generale terminava col jisei, il poema di addio alla vita:

Impossibilitato ad adempiere a questo arduo compito per il nostro paese
Frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.
Ma salvo sbaragli il nemico,
Il mio corpo non può marcire nel campo.

Sì, rinascerò nuovamente sette volte
E brandirò la spada.
Quando le lugubri gramaglie ricopriranno quest’isola
Mio unico pensiero sarà la Terra imperiale.

Il messaggio venne censurato e manipolato dalle autorità. Solamente molti anni dopo l'imperatore Akihito, che ha scelto che il suo periodo sul trono venga denominato Heisei (Pace ovunque), in visita al sacrario di Iwo Jima, ha citato le sue parole restituendo loro la vita.

Il soldato Saigo, per volere di Kuribayashi, sarà tra i sopravvissuti.

Così come il generale ha deciso di combattere e morire per la sua famiglia, Saigo dovrà vivere e tornare in Giappone, per rivedere sua moglie e vedere per la prima volta la sua bambina che non ha mai conosciuto.