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La lunga permanenza del Giappone, per volontà del governo della dinastia Tokugawa, in uno stato di isolamento dal resto del mondo durò dal 1603 fino al 1853 e ha fatto sì che sopravvivesse nella nazione un impianto di tipo feudale che altrove era stato spazzato via al primo contatto con l'occidente.

Ha anche fatto sì che l'impatto con la "civiltà" fosse allo stesso tempo più traumatico ma più controllato, essendo maggioritaria la corrente di pensiero che intendeva aprire al mondo esterno rinunciando però solo quando assolutamente indispensabile al patrimonio della propria identità culturale.

In pieno XX secolo di conseguenza il Giappone rappresentava un caso unico nel panorama mondiale: una nazione tecnologicamente aggiornata se non proprio all'avanguardia, ma ancora governata da principi ed usanze che risalivano molto indietro nel tempo ed erano destinati ad essere applicati in condizioni totalmente diverse.

Si era poi armato pesantemente con l'aperta intenzione di perseguire una politica estera aggressivamente colonialista e dopo avere già all'inizio del secolo sconfitto clamorosamente una grande potenza straniera, la Russia, aveva continuato su questa linea politica fino ad impegnare in una lotta mortale le potenze occidentali,

Il punto cruciale identificato dalla Benedict è l'assoluta necessità per ogni giapponese di rispettare i propri debiti morali, regolati da precise convenzioni sociali se non addirittura da vere e proprie leggi, allo stesso modo in cui in occidente vengono regolati i debiti materiali. La riforma Meiji, che pure tanti importanti cambiamenti ha apportato, non ha minimamente tentato di modificare questa concezione, l'ha semmai affinata facendone uso.

La studiosa non manca di porre in rilievo la relativa riluttanza dei giapponesi ad assolvere a questi debiti, forse non considerando che regolamenti e leggi in ogni parte del mondo hanno proprio lo scopo di costringere ad aderirvi anche le persone tendenzialmente più riluttanti. Altrimenti non avrebbero ragione di essere.

Il debito morale può essere in Giappone generato automaticamente dalla propria condizione sociale, ne è esempio precipuo il debito on. E' un obbligo morale che si ha verso i propri genitori, verso il proprio clan o classe di appartenenza, verso le figure di riferimento nel processo di formazione (mushi. signore o shi, maestro), verso chiunque abbiia agito favorevolmente nei propri confronti, ma anche nei confronti del potere gerarchico. In epoca feudale era soprattutto lo shogun, in epoca moderna è il simbolo della nazione, sia nei tempi antichi che in quelli moderni incarnato nell'imperatore.

Vengono rigidamente classificati (o perlomeno lo erano un tempo ma  gli effetti sulla psiche dell'individuo e sulle usanze sociali permangono tuttora) diversi tipi di obblighi derivanti dalla presenza di un on.

Gimu

Vengono definiti gimu i comportamenti e le azioni che hanno l'obiettivo di assolvere ai propri impegni verso un debito istituzionale.

Si definisce chu il debito dovuto ad un on verso il tennô (imperatore) detentore del potere ideologico o verso lo shogun o il daimyo, detentori del potere temporale. In considerazione della rigida struttura gerarchica della società giapponese diversi vincoli chu sono venuti spesso a conflitto, non solo in epoca feudale ma anche in epoca Meiji, teatro della guerra tra le forze imperiali e quelle dello shogun.

La scelta definitiva del campo ove militare, anche a costo di bruschi voltafaccia ai limiti del tradimento, è stata sovente determinata dal mancato rispetto di un ulteriore tipo di debito, non bene chiaramente definito e privo di un termine che lo identifichi in modo univoco: il rispetto del superiore verso la dignità del sottoposto, che si sente di conseguenza autorizzato ad agire contro l'autorità gerarchica quando constata violazioni delle regole, anche non necessariamente indirizzate contro la propria persona.

Si definisce ko il debito naturale dovuto ai propri antenati, ai propri genitori, ai propri discendenti

Si definisce gimmu il debito dovuto nei confronti del proprio posto nella gerarchia sociale, che per le classi inferiori si può identificare come una forma di debito verso il proprio lavoro mentre per quelle superiori come i samurai comporta implicazioni ed obblighi più pervadenti.

Per loro natura i debiti ricadenti nelle categorie gimu sono perenni, non ripagabili e non estinguibili.

Giri

Sono diversi i comportamenti destinati a ripagare il debito dovuto a situazioni contingenti legate al proprio comportamento personale o a quello della microsocietà di cui si fa parte, denominati giri. Anche le tipologie di debito legate al giri rimangono sostanzialmente obblighi morali, hanno tuttavia una forte componente materiale. Una volta portate a compimento le azioni giri estinguono il debito

Si distinguono sempre secondo Benedict due categorie fondamentali di giri.

I giri nei confronti del mondo esterno racchiudono i doveri contingenti verso la sovranità, verso i parenti e verso le persone da cui si sia ricevuto un favore contraendo un obbligo on.

Il secondo tipo di giri compendia tutte le azioni motivate dal rispetto o debito nei confronti della propria reputazione, letteralmente del proprio nome. Questo tipo di giri, che è quasi sempre quello che colpisce maggiormente chi viene a contatto per la prima volta con la cultura giapponese, richiede l'obbligo di cancellare a qualunque prezzo il disonore causato dalle offese ricevute, di difendere la correttezza del proprio operato, di rispettare senza metterle in discussione le regole di etichetta e di convenienza.

Una considerazione interessante è che il giapponese medio, perlomeno nei casi studiati dalla Benedict, male sopporta le situazioni competitive, e rende meglio quando non viene troppo fatto pesare il raggiungimento dell'obiettivo, nei tempi e nei modi programmati e superando la concorrenza.

Avrebbe meritato un maggiore approfondimento però la vistosa apparente contraddizione con quanto affermato parlando del giri verso il proprio nome, od anche con quanto dichiarato a pagina 165, ove si afferma che soprattutto nella classe samurai si accetta con stoicismo anche il destino avverso, esibendo orgogliosamente uno stecchino tra i denti anche quando si è digiunato per miseria.

Quanto affermato a pagina 171 è un ulteriore esempio, che sembra poco conciliabile col dovere di difendere la propria reputazione:

Anche le squadre sportive studentesche, in caso di una sconfitta durante una gara, cadono in preda alla più profonda vergogna. Per lo stesso motivo, i membri di un equipaggio, durante una gara di canottaggio, si lasciano cadere sul fondo dell'imbarcazione, accanto ai remi, abbandonandosi al proprio sconforto; oppure i componenti di una squadra di baseball, dopo una sconfitta, si riuniscono disordinatamente, esprimendo ad alta voce il proprio dolore.

E assolutamente non conciliabile con quanto dichiarato a pagina 258 nel capitolo dedicato all'autodisciplina del giapponese:

... i Giapponesi, cioè, si preoccupano di più di adeguare il proprio comportamento a quei canoni che reputano corretti, e, in confronto agli Americani, cercano meno alibi per giustificare i loro insuccessi. Pertanto essi evitano di proiettare le delusioni che la vita ha loro inflitto su qualche capro espiatorio e accade raramente che si lascino andare all'autocommiserazione.

Sembrerebbe che in queste occasioni la Benedict, come conferma l'altra sua frase "I giapponesi hanno sempre dimostrato una grande inventiva nel fare in modo di evitare le situazioni di competizione diretta" (comportamento che sarebbe in realtà in aperto e stridente contrasto con l'etica samurai, che secondo la Benedict ha inflluenzato grandemente la mentalità del giapponese medio anche se non appartenente alla casta guerriera), abbia commesso l'errore di generalizzare senza tener conto delle differenti regole di condotta cui si dovevano attenere nobili, samurai, commercianti, contadini e fuori casta, attribuendo gli stessi comportamenti e le stesse motivazioni psicologiche a tutti i giapponesi indistintamente. Anche l'affermazione che nei tempi moderni la competizione viene ridotta al minimo negli ambienti scolastici sorprende non poco chi abbia avuto modo di conoscere anche superficialmente i metodi didattici giapponesi (più tardi comunque Benedict si corregge, affermando nel capitolo dedicato alla educazione infantile che a partire dalla scuola media l'alunno giapponese si trova a dover affrontare una dura selezione ed una fiera concorrenza con i compagni).

Non meraviglia in definitiva che la Benedict si trovi nella condizione di non poter rispondere al più grande degli enigmi che si è trovata ad affrontare nel tentativo di portare a termine il compito affidatole. Ossia per quale ragione il popolo giapponese non solo abbia accettato così facilmente la sconfitta (sappiamo che gran parte di questo atteggiamento è dovuto all'ordine esplicitamente impartito da una volontà riconosciuta come indiscutibilmente superiore, quella imperiale), ma abbia anche spontaneamente accolto con grande calore e senza alcun segno di animosità le truppe di occupazione, accettando di collaborare con chi fino a pochi mesi prima giurava di combattere a costo di armarsi di lance di bambu.

Queste ed altre aperte contraddizioni che si trova ad affrontare talvolta la Benedict nella sua proposta di analisi del mondo giapponese, vengono a volte giustificate con argomenti quanto meno insufficienti.

Riguardo la superiorità teoretica dell'impegno immediato verso il clan [giri] nei confronti dell'impegno verso una autorità secolare lontana, rappresentata dalla shogun [chu] commenta: Tutto ciò, ovviamente, è una creazione della fantasia, perché, di fatto, la storia feudale giapponese è molto ricca di esempi di seguaci di un signore la cui fedeltà veniva comprata dal daimyo della parte nemica.

Affermazione tutto sommata inesatta, equivalente al dire che non esistono persone oneste poiché abbiamo molti esempi di comportamenti disonesti. Oltretutto si tratta di un tipo di azione che la stessa Benedict ha già motivato spiegando come il sottoposto si consideri libero da ogni impegno e diventi anzi fiero nemico del suo signore quando ritiene di essere stato trattato ingiustamente o che gli vengano dati ordini suscettibili di violare le regole di comportamento gimu, possa anzi arrivare al punto di considerare questa sua scelta doverosa e necessaria, svincolata da ogni interesse o risentimento personale.

E che forse non tiene conto di un'altra acuta osservazione della stessa autrice: il giapponese riconosce ed ammette la dualità dell'animo umano ma non la divide tra buono e cattivo quanto piuttosto tra raffinato e rozzo.

L'obbligo di adempiere ad un impegno on per ricambiare un favore sarebbe secondo Benedict considerato negativo dal giapponese medio, al punto da arrivare a rinunciare ad un aiuto necessario pur di non sentirsene obbligato. Non si può fare a meno di proporre un paragone con la situazione odierna degli Stati Uniti, che si va diffondendo a macchia d'olio in tutto il mondo, dove spesso non si presta soccorso per evitare noie, se non addirittura una causa di risarcimento danni da parte della persona che si sta cercando di aiutare ove l'aiuto si fosse dimostrato insufficiente. Cosa è meglio?

In definitiva la società tradizionale giapponese, certamente non esente da vizi intrinseci - che gli stessi giapponesi conoscono e denunciano - non sembra essere stata particolarmente deficitaria nell'assolvere al compito primario di tutte le comunità organizzate: superare i limiti individuali attraverso la cooperazione e la solidarietà, non mancando di esercitare una pressione morale sopra i propri componenti, allo scopo di ottenerne l'allineamento alle regole considerate necessarie senza dover ricorrere a mezzi coercitivi, ma piuttosto sfruttando il senso di vergogna haji, che pervade la persona che si sente in debito.

E' inoltre immanente la presenza di una autorità superiore potenzialmente in grado di emanare disposizioni ultimative anche in deroga alle convenzioni e ai condizionamenti sociali, che almeno in un caso - e recente - ha dimostrato di poter avere effetti positivi: ci riferiamo all'intervento dell'imperatore alla radio che, per quanto sul momento compreso fino in fondo da ben pochi in quanto utilizzava l'aulico linguaggio di corte sconosciuto alla gente comune, ebbe il potere di porre immediatamente fine alla seconda guerra mondiale, senza ulteriori spargimenti di sangue, annullando senza resistenza il condizionamento sociale di decenni di politica estera aggressiva e di militarizzazione, mentre il popolo giapponese accettava l'ineluttabilità se non addirittura la necessità della sconfitta senza alcuna ombra degli atteggiamenti disfattistici e di autocommiserazione descritti innanzi.

Solamente 10 giorni dopo la resa del Giappone, veniva infatti scritto sullo Yomiuri Hochi, un autorevole periodico:

La sconfitta militare deve servirci da stimolo... [se riflettiamo sul fatto che] per il popolo giapponese è stato necessario arrivare proprio fino alla sconfitta nazionale per imparare a tenere veramente conto del resto del mondo e per imparare a vedere le cose nella loro reale oggettività.  ...  Occorre coraggio per riuscire a guardare questa sconfitta senza paraocchi, per considerarla come un semplice dato di fatto [ma dobbiamo tuttavia] riporre ora la nostra fiducia nella cultura nipponica di domani.

Molto importante, ed acuta, ma non sufficientemente approfondita, l'osservazione che il popolo giapponese tutto persegue non solo il raggiungimento della abilità tecnica, ma soprattutto quello di uno stato d'animo di assoluta serenità, descritto con termini differenti a seconda che venga manifestato da un attore, da un maestro del te o da un maestro di spada, ma generalmente definito come muga, tale da consentire l'eliminazione di ogni barriera tra il pensiero e l'azione. Barriera che viene definita "io che osserva" o "io che interferisce", in modo non dissimile da come il maestro di aikido Hiroshi Tada sensei distingue tra concentrazione relativa e concentrazione assoluta, ribadendolo in occasione di conferenze (2002), articoli (2005) e lezioni magistrali per insegnanti (2006). Sono pubblicate nella rivista Aikido dell'Aikikai d'Italia.

Non va inoltre dimenticato che il pensiero giapponese privilegia l'utilizzo, certamente soprattutto negli impegni più importanti, ma tendendo a dare importanza anche ad ogni minimo impegno, dell'aiuto endogeno jiriki, frutto della autodisciplina e della coscienza della propria missione e dei propri mezzi ed alimentato dalla forza del jicho, il rispetto verso se stesso, piuttosto che dell'aiuto esogeno, tariki, proveniente dall'esterno e proprio per questo non completamente affidabile e non perfettamente adattabile alle nostre esigenze.

Concludiamo questa proposta di interpretazione del testo con l'analisi, non esauribile in poche righe ma necessaria, di uno dei fraintendimenti in cui sembra essere incorsa la Benedict, probabilmente poco influente nel bilancio complessivo della sua analisi, ma indicativo della non ancora sufficiente "sensibilità" od armonia (che vorremmo rendere con la intraducibile parola giapponese ki) con cui è stato affrontato nel testo l'incontro con la cultura giapponese, che fa del makoto, la sincerità una delle sue colonne portanti, non può quindi essere soggetta di esagerate dietrologie.

Non ne attribuiamo alla Benedict la colpa, ha raggiunto anzi probabilmente superato i limiti allora possibili. Abbiamo però il dovere di non fermarci là dove ella ci ha portato, ma di andare avanti.