Randori

Il randori è una forma di allenamento informale, ove l'attaccante o gli attaccanti sono liberi di fare quello che credono più opportuno, e lo stesso fa il difensore.

La parola ran in giapponese indica genericamente confusione, ma viene anche utilizzata spesso per definire dei periodi di guerre civili; infatti Aikira Kurosawa intitola Ran una delle sue opere più famose, in cui narra la lotta per il potere all'interno della famiglia degli Ikimonji.

Il randori dunque può essere una proficua forma di allenamento, ma può sconfinare quando male interpretato in una rissa senza regole.

Qui le regole verranno mantenute, poche e ci auguriamo chiare per tutti: nella sezione Randori del nostro sito si tratterà liberamente di ogni argomento che possa contribuire ad accrescere la conoscenza dell'arte, esplorando territori sconosciuti ma anche riscoprendo quelli domestici, avendo come unico filo conduttore il piacere della ricerca.

 

E' ffinta ddi gguerra

Tergu00Era non pochi anni fa... Lo ricorda in un divertito e divertente articolo apparso su Aikido  (Anno XVIII n. 2, novembre 1988 pp. 62-63) un mio ex allievo che prese presto il volo per staccarsi dalle mie amorevoli (più o meno) cure: un gruppo di praticanti dei seminari estivi aikido e natura organizzati in Sardegna da Hosokawa sensei, si trovava ospite di una famiglia di contadini.

 

 

 

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Al di sopra del nostro giudizio

1972TadaAielloLa pubblicazione di una innocente foto ricordo su Facebook ha innescato una discussione su cui vale la pena di tornare. La foto, risalente al 1972, raffigurava gli allievi che avevano sostenuto presso il dojo di Meta di Sorrento una sessione di esami tenuta dal maestro Hiroshi Tada e dal maestro Pasquale Aiello. Nel commento si scriveva che Tada sensei era all'epoca 8. dan. Calendario alla mano a qualcuno non sono tornati i conti e ha chiesto se veramente a quella data il maestro avesse già ottenuto il massimo riconoscimento tecnico. Apparentemente una semplice curiosità, ma questa innocua domandina ha innescato alcune riflessioni che vorrei condividere.

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Tempi eroici 2: la nascita del Dojo Centrale dell'Aikikai

Finalmente dal mazzo di chiavi usci fuori quella giusta.

Dopo averne provate invano decine, finalmente potemmo aprire una porta quanto mai cigolante ed entrare dentro, nella penombra; man mano che aprivamo le altre porte per avere un po' di luce, ci si rivelava agli occhi un enorme capannone, con due gradinate ai lati, sommerso dalla polvere e pieno di rifiuti in ogni dove.

Ci aggiravamo circospetti in quel disordine, sollevando altre nuvole di polvere ad ogni passo, guardandoci ogni tanto di sottecchi con aria disgustata, mentre i due più giovani del gruppo (eravamo tutti tra i 13 e i 20 anni) avevano scovato da un grosso sacco dei polverosi ed ammuffiti guantoni da boxe, e dopo esserseli infilati avevano cominciato a darsele di santa ragione, indifferenti al resto del mondo.


Lui, il maestro Hiroshi Tada, apparentemente altrettanto distaccato dagli eventi, si aggirava intorno con aria pensierosa; ma a tratti fissava qualcosa, ed aggrottava la fronte, poi piegava un po' la testa da un lato, sapete, come fa sempre quando pensa a qualcosa e sembra che stia per chiederti che ne pensi... Poi (come fa sempre...) scrollava la testa negativamente, e non diceva nulla.

Alcuni di noi già si erano radunati vicino alla porta, pronti ad andarsene, e discutevano su quali altri posti si potessero andare a vedere. Si stavano cercando dei locali adatti a una palestra - anzi un dojo - per il maestro. Lui intanto continuava il suo esame. Tornava su dei punti già visti. Si metteva in un angolo a braccia conserte. Sempre pensieroso.

Nel nostro gruppetto intanto si malediva chi aveva avuto la sciagurata idea di proporre quel posto, mentre molti negavano di averci avuto a che fare e tutti convenivano sull'assurdità di averlo creduto adatto. Il maestro intanto si era messo al centro dello stanzone, e girava su se stesso come per dargli un'ultima occhiata. Poi accadde una cosa strana...

Mise le mani sui fianchi, e lentamente gli si dipinse sul viso un timido sorriso, che poi poco a poco si allargò fino a minacciare di raggiungere le orecchie; ricominciò daccapo a guardarsi intorno, questa volta annuendo ogni tanto, poi sparì a vedere che c'era dietro una porticina, col piglio sicuro che doveva avere avuto Cristoforo Colombo mentre prendeva possesso delle Indie Occidentali.

«Be' - fece uno di noi - è abbastanza grande.» Un altro buttò lì «Con una buona ripulita...». Il solito praticone disse immediatamente «Dobbiamo rimediare gli attrezzi!».

Era l'aprile del 1967. Per un paio di mesi, forse tre, avremmo lavorato con il maestro a mettere in piedi il Dojo Centrale.

Sono passati ormai molti anni, il nostro gruppo si è poi diviso poco dopo, ma l'esperienza di quei pochi giorni rimane incancellabile: ancora oggi, quando incontro qualcuno di quei ragazzi, dopo esserci a stento riconosciuti, mi sento subito chiedere: «Come sta il maestro Tada? E che dan è diventato ora?». Anticipavano quello che avrebbe detto il doshu Kisshomaru Ueshiba al momento del conferimento a Tada sensei del nono dan, nel 1994: «Sfortunatamente abbiamo deciso che il decimo dan non verrà mai conferito a nessuno, perché per i suoi estimatori nessun grado sarà mai sufficiente per Tada sensei».

Gradi a parte, cui non ho mai data grande importanza, ho conosciuto e frequentato molti maestri da allora, ma lui rimane unico oltre che per le immense doti tecniche anche per la sua spontaneità, per la sua caratteristica di essere sempre naturale, anche quando fa qualcosa di fuori dal comune. Credo di avere allora intuito per la prima volta qualcosa di come si possa diventare padroni della propria arte: l'assoluta capacità di concentrazione del maestro Tada, applicata non solo al tatami, ma ad ogni aspetto della vita quotidiana, anche al più apparentemente insignificante, è stata per me fonte di meraviglia ed ammirazione, oggetto di invidia e rnateria di studio. Basti citare alcuni degli episodi con cui ho afflitto generazioni di ascoltatori, a partire dal celeberrimo affaire dell'acqua.

Nel cortile dietro il Dojo, attaccati alle mura dell'Acquedotto Felice, c'erano una miriade di cassoni, tubi e rubinetti dell'acqua, la cui funzione era per lo più esoterica. Noi dovevamo capire quali portassero l'acqua alla palestra. II nostro piano era semplice ma efficace, oserei dire infallibile: ci radunavamo a concistoro nei pressi di un rubinetto, e discutevamo sulla sua funzionalità o meno ai nostri scopi.

Dopo un lasso di tempo variabile decidevamo inevitabilmente di passare alia prova empirica e lo aprivamo. Dopo di che passavamo in corteo ad esaminare se da qualcuno dei mille rubinetti del dojo uscisse acqua, o qualcosa di analogo.

Il maestro ci sorprese in questi frangenti, e ci osservava incuriosito mentre aprivamo l'ennesima valvola; al momento di perlustrare in giro per constatarne i risultati ci bloccò con un perentorio «Viene!».

Nessuno si permise di obiettare. Ci guardavamo in giro perplessi ed imbarazzati, senza muoverci. Lui ci chiese «Voi non sentite?». Indicava col dito verso i locali destinati a spogliatoio, lontani una trentina di metri. Il san Tommaso della situazione corse come un fulmine agli spogliatoi, per uscirne trionfante, con un espressione che indiscutibilmente significava «Ma come, si sentiva benissimo! Ve l'avevo detto...». La cosa andò avanti per un po': noi aprivamo valvole ed il maestro ci diceva se e da dove usciva acqua, mentre noi assentivamo vigorosamente, e facevamo capire che se prima non l'avevamo sentita era solo perche eravamo distratti.


Una sola volta riuscimmo a fregarlo: lui abitava dove in seguito venne collocata la Segreteria dell'Aikikai d'Italia in cui passai una decina di anni intensi ma piacevoli in qualità di segretario nazionale. All'epoca venne sistemata sormmariamente con mobili rimediati qua e là da noi.

Un bel giorno gli portammo un mostruoso armadio, enorme e bruttissimo, ma utile in quanto il maestro non aveva dove riporre i suoi effetti personali. Appena mostrato lo volevamo portare dentro, ma lui ci bloccò con un perentorio «Non entra». Nessuno ebbe il coraggio di obiettare, ma appena il maestro se ne andò per i fatti suoi noi, poco convinti, ci buttammo come un sol uomo sull'armadio e tentammo di farlo passare per la porta: per un millimetro! Ma non ci passava.

Dopo ore di inutili tentativi, uno di noi inferocito sparì verso il deposito degli attrezzi, tornando con una sega. Giusto: ne tagliammo una parte! Dopo averlo messo nella stanza, incollammo di nuovo la parte mancante e stuccammo accuratamente il tutto in modo che non si vedesse niente. Il maestro al suo ritorno, per poco non svenne... continuava a girare intorno all'armadio e lo guardava.

Poi guardava la porta, e scuoteva la testa. Non si spiegava quello che considerava un imperdonabile errore di valutazione; noi intanto ci aggiravamo li intorno con scuse varie, fischiettando e facendo gli indifferenti. Solo alcuni anni dopo mi colse un altro dubbio: come ha fatto poi il maestro qualche anno dopo non solo a tirare l'armadio fuori dalla stanza, ma a portarlo anche nella foresteria al piano di sopra, dove si accedeva attraverso una diabolica scala a chiocciola o una angusta portafinestra scorrevole che dava sì sul dojo ma a tre metri di altezza?

Questi piccoli episodi - ed altri che vi risparmio - furono per me una grande lezione: il maestro Tada non ha trucchi e non ha segreti. Inutile cercare di capire "come fa".

E' indiscutibilmente una persona particolarmente dotata da madre natura, che sarebbe riuscita bene in ogni campo di applicazione ma ha trovato particolarmente congeniale lo studio delle arti marziali. In più si e allenato instancabilmente per tutta la vita, senza alcun momento di flessione. Il suo tatami è la vita, e il suo dojo è aperto 24 ore su 24. Il suo "segreto" è tutto lì, e chiunque è libero di vederlo e trarne profitto.

Arriveremo cosi ai suoi livelli? Probabilmente no, e posso assicurare che nel mio caso si tratta di certezza. Ma arriveremo sicuramente vicono ai nostri massimi livelli, come lui è arrivato ai suoi.

Gli allenamenti del maestro Tada erano leggendari anche per i giapponesi: gli stakanovisti in Giappone tiravano 2.000 shomenuchi al giorno con la spada: la sua dose giornaliera arrivò fino a 10.000. Purtroppo è facile che questi rimangano aneddoti o  storielle da raccontare agli amici, senza averne compreso la lezione e senza tentarne l'applicazione.

A quei tempi, mi piace ricordarlo, mentre noi ci davamo da fare ad imbiancare e pulire, al centro dello stanzone Gianni Cesaratto si accaniva a menare shomenuchi su un cavalletto, per ore e ore di seguito., e ricordo di averlo per questo sempre ammirato. Altri invece si limitavano a parlare - magari in pizzeria - di come ci si sarebbe dovuti allenare, o di come ci si allenava in Giappone.

Insisto su questo perché mi sono sentito dire che il mio articolo precedente sul dojo Ueshiba Morihei era polemico: no, era casomai nostalgico, ma credo che i praticanti più giovani abbiano il diritto di conoscere anche e soprattutto i nostri errori.

O vogliamo continuare a raccontare di come erano eroici i nostri tempi, di come ci si allenava duramente, di come il vero aikido sia morto ormai da tempo? Questo è in parte vero, in passato si praticava spesso con una intensità di cui si è perso il ricordo. Ma non sempre vi faceva riscontro una altrettanto elevata intensità di analisi.

Personalmente non mi vergogno di avere avuto a quei tempi una visione infantile dell'aikido: ero un ragazzo immaturo, tutto questo era naturale e non vedo perché dovrei vergognarmene o nasconderlo.

Non mi vergogno nemmeno a prendermi per i fondelli, questo non toglie che tanti  anni dopo io continui a guardare a quel ragazzo - e agli altri che erano con lui, quando non prima di lui - con affetto, e anche con un pizzico di rimpianto per le occasioni perdute. Che vanno segnalate: perché chi arrivato dopo non ripeta i nostri errori.

Ma torniamo a noi: un'altra grande lezione che ci diede il maestro a quei tempo fu l'attaccamento al proprio dojo: l'idea che ci si debba sentire felici nello spazzare per terra, sturare lavandini,  riparare tegole o altre cose su cui non mi dilungo per rendere vivibile il luogo dove si segue la via non ci è stata mai spiegata o giustificata. Ci è stata semplicemente fatta vivere, ed è entrata per questo a far parte del nostro bagaglio culturale. Non che sia stata una impostazione unica, legata  alla figura di Tada sensei. Nel decennio successivo condivisi a lungo l'impegno quotidiano del maestro Hosokawa per accudire ai grandi e malridotti locali del dojo.

All'inizio dell'estate, dopo alcuni mesi di duro impegno, i locali del Dojo Centrale erano ormai pronti. Anche chi di noi non aveva mai fatto aikido - ed erano la maggioranza in quel gruppetto, attratto e tenuto unito solo dalla figura del maestro Tada - è uscito da quella esperienza molto più ricco di prima.

Nessuno di questo gruppetto ha tuttavia più praticato aikido tranne il sottoscritto, che ha comunque iniziato 7 anni dopo. Al momento di congedarci  tutti, credo, aspettavamo con un misto di timore e di speranza che il maestro ci dicesse qualcosa. Che ci spronasse a praticare aikido con lui. Non ci disse nulla. Se avesse fatto un solo cenno, l'avremmo seguito fino all'inferno! Ma quel benedetto uomo non disse nulla, oltre a salutarci e ringraziarci. Sembrava che non si rendesse conto che pendevamo dalle sue labbra.

Negli anni che seguirono ci ho pensato a lungo, a volte con un pizzico di risentimento nei suoi confronti: in realtà noi eravamo convinti che ci volesse una sorta di permesso per fare aikido, che non a tutti venisse concesso di far parte di una scuola cosi prestigiosa, e dovessimo aspettare una chiamata.

Effettivamente solo da pochi anni era caduta in disuso la necessità di essere cooptati alla pratica dell'aikido dietro  garanzia di tre sponsores (non è un errore: si tratta di una parola latina quindi non parlatemi di sponsors). Ma più di una garanzia esterna ci vuole soprattutto una ferma volontà interna, e noi l'avevamo ma non la ritenevamo sufficiente.

Negli anni successivi incontrai ancora abbastanza spesso il maestro Tada, soprattutto in occasione degli indimenticabili enbukai che teneva periodicamente al dojo.

Lo rividi sempre con piacere, qualche volta con imbarazzo, specialmente quando l'incontro avveniva per caso e lui arrossiva nel salutarmi mentre io arrossivo a mia volta. Sì, il maestro Tada ha a volte dei momenti di timidezza!

Finalmente nel 1974 presi la storica decisione di iniziare a praticare, buttando alle ortiche altri impegni: mi recai al Dojo Centrale e feci la mia brava iscrizione al tavolo della segreteria del dojo.

Nella stanzetta era anche il maestro, assieme ad altre persone tra cui posso identificare solo il maestro Claudio Pipitone di Torino (si stava per tenere il consueto raduno di autunno, quindi molte persone che incontrai il primo giorno non le avrei riviste in seguito).

Non sapevo che quel raduno era celebrativo del primo decennale dell'Aikikai d'Italia, la cui nascita il maestro faceva coincidere col giorno del suo arrivo in Italia.

In realtà solo nel 1970 venne formalmente costituita la Accademia Nazionale Italiana di Aikido - la dicitura che avete potuto vedere nella foto in cui appare l'insegna del Dojo - che alcuni anni dopo prese il nome definitivo di Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese ma tutti identificano ancora col nome di Aikikai d'Italia.

I nostri sguardi si incrociarono per un attimo, e lui immediatamente arrossì, poi si sbilanciò in un largo sorriso, che mi sembrò volesse dire «Benvenuto». Ma forse era solo una mia impressione.

Salito finalmente dopo tanti anni sul tatami, e solo per "lui", vi trovai invece un'ennesimo giapponese, piccolino e con una grande zazzera nera, che sorridendo mi chiese se era il primo giorno per poi sottopormi subito senza complimenti ad una cura intensiva di nikyo.

Una parte di me tentava di sopravvivere, un'altra intanto si chiedeva «Ma questo chi è? Ma che vuole? Io voglio Tada!...»

Mi capita ancora ogni tanto di ricordarglielo: era il maestro Hideki Hosokawa. Non mi risponde mai nulla, si limita a sorridere. Esattamente lo stesso sorriso di quel benedetto giorno, il 26 ottobre del 1974.

Voglia di aikido

E' vero, verissimo: "se lasci l'aikido una settimana, l'aikido ti lascia per un mese". Lo disse molto tempo fa Tada sensei, e come sempre la sua lama è andata a bersaglio. Ma pur senza dichiararlo apertamente - e in qualche modo inafferrabile sono questi messaggi non palesi quelli che penetrano più a fondo - lui come alcuni altri grandi insegnanti ci ha fornito assieme al problema anche le chiavi per affrontarlo e risolverlo ogni volta che tornerà a presentarsi davanti a noi. Perché nell'aikido, come nella vita, nulla è per sempre.

 

 

 

 

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Tempi eroici 1: il "primo" dojo di aikido

Nel 1965 (avevo ancora i pantaloni corti, o poco ci mancava), feci la mia conoscenza con l'Aikido, e con la persona che per molti anni per me ha continuato ad impersonarlo ed incarnarlo, il maestro Hiroshi Tada.


Il gruppo sportivo di cui facevo parte aprì infatti quella che veniva vantata come la prima palestra europea di aikido - cosa assolutamente non vera ma era bello sognare - dall'immodesto nome di Ueshiba Morihei Dojo.

I miei contatti iniziarono con la richiesta di preparare un volantino di propaganda appunto per la palestra.

Dovetti innanzitutto farmi spiegare cos'era l'aikido, e venni lì per lì sottoposto ad una robusta dimostrazione a base di nikyo: era infatti quello l'approccio che si usava a quei tempi per rispondere ai malcapitati che avessero chiesto informazioni: «Prendimi il polso», e giù un gran bel (si fa per dire, erano tempi pionieristici oltre che eroici...) nikyo.

Con le idee ancora più confuse di prima, armatomi di rapidograph, inchiostro di china ed altri attrezzi del mestiere, mi diedi da fare sul tema.

Tirai fuori dopo un poco l'aborto che potete vedere illustrato a fianco, che strano a dirsi incontrò il favore di molti.

Mi venne però riferito che il maestro Tada vedendolo si era messo a ridere di cuore...

 

 

 

 

Chiariamo il mistero: la figura era tratta da una enciclopedia che avevo affannosamente consultato, ed era ricavata a sua volta da una fotografia attribuibile al fotografo Felice Beato, attivo a Yokohama a fine 800, o al suo assistente Kusakabe Kimbei. Molti di questi ritratti di studio sono costruiti ad arte, assemblando in modo fantasioso materiale di varia provenienza indossato da modelli occasionali.

Questa foto non faceva eccezione: il personaggio raffigurato nel mio volantino indossava un improbabile assieme composto da elmo e corazza da guerra, guanti e cosciali da kendo, hakama; impugnava con la mano sinistra  un handachi portato però come un tachi. Nella foto vediamo invece che si trattava in realtà di un efu no tachi, il pettorale non corrisponde a quello fantasioso del disegno, e così via. Insomma, nell'enciclopedia avevo trovato un samurai visto attraverso le lenti deformanti di un occidentale: rappresentazione immaginifica ma fondamentalmente ridicola.

Ma all'epoca ci parve bello crederci.

Nemmeno la grafica di sfondo era farina del mio sacco, e chissà che qualcuno non indovini da dove viene.

Ebbi alla palestra Monopoli in Trastevere successivi incontri ravvicinati, ancora del secondo tipo. Infuriò anni fa il film Incontri ravvicinati del terzo tipo, dove si parlava dell'incontro fisico tra i terrestri e gli alieni, anzi Alien, l'alieno per eccellenza. Ebbene, all'epoca la cultura giapponese e i rappresentanti di quella cultura erano in Italia fondamentalmente degli alieni.

Non sapevo all'epoca che presso i locali dei Monopoli effettivamente si teneva il primo corso regolare di aikido in Italia. Il tutto grazie a Danilo Chierchini - insegnante di judo e futuro presidente dell' Aikikai d'Italia, di cui sarei divenuto negli anni successivi stretto collaboratore e amico.

Lì potei vedere degli scalmanati con strani vestiti che se le davano di santa ragione su una materassina rotonda, di quelle usate per la lotta libera.

Riporto integralmente anche il testo di uno dei volantini che erano stati preparati per pubblicizzare il Ueshiba Morihei Dojo, che potete vedere a destra.

E' interessante osservare come la percezione dell'arte si sia trasformata attraverso tutti questi anni.

AI - KI - DO

ARTE SUPERIORE DI AUTODIFESA

L'AI-KI-DO desunto dall'esperienza secolare dei laggendari Samurai dal grande Maestro UESHIBA MORIHEI fu in origine per la sua invincibile potenza riservato unicamente agli alti gradi degli ufficiali dell'esercito Giapponese.

Dopo l'ultima guerra, diffuso in tutto il mondo, fu apprezzato anche perché la sua tecnica elegante è il migliore esercizio per l'armonioso sviluppo fisico dei giovani.

Tratto dall'arte della spada (Kendò) è notevole in quanto permette di abbattere o immobilizzare, anziché uno, più avversari contemporaneamente, il chè energizza doti mentali di attenzione, rapidità di riflessi, e coordinazione psicomotoria.

l'AI-KI-DO viene insegnato ora in Italia dal Maestro HIROSHI TADA 7° Dan rappresentante ufficiale dell'AIKIKAI di TOKIO, Istruttore della polizia Italiana e Giapponese.

Presso la palestra « UESHIBA » potrete vedere voi stessi l'efficacia di un'arte considerata incomparabilmente superiore laddove l'agilità del Judò e la violenza del karaté avevano pur raggiunto interessanti risultati.

 

 

 

Non avevo ancora fatto conoscenza col maestro Tada, che mi immaginavo, da come mi veniva descritto, come un essere sovrannaturale: alto due o tre metri e capace di  uccidere con uno sguardo nonché dispostissimo a farlo senza troppe storie.

Qualche tempo dopo venni incaricato di badare per un giorno o due alla settimana al suddetto Ueshiba Morihei Dojo, e finalmente lo vidi!

Non posso dire di essere rimasto deluso: indubbiamente il maestro Tada aveva di che colpire la fantasia di chiunque, figuriamoci la mia che era già favorevolmente predisposta a lasciarsi colpire, però indubbiamente mi aspettavo un qualcosa di diverso, un qualcosa di più. Non so, che perlomeno andasse in giro vestito da samurai, con due spade alla cintura, alia continua ricerca di duelli.


Chi poi, sebbene minacciosamente promettente come aspetto fisico, mi deluse completamente, fu un giovanottone giapponese che trovammo un giorno seduto sul marciapiede fuori della palestra, in attesa dell'apertura.

Evidentemente qualcosa a che fare con il Dojo e col maestro Tada ce lo doveva avere, sebbene li per li non ce lo potesse spiegare non masticando neppure una parola di italiano.


Questo individuo mi parve di una bonomia irritante, sempre sorridente e disposto a cercare di scambiare una parola con qualcuno superando le barriere linguistiche e culturali, sempre curioso ed in cerca di avventure, ma avventurette terra terra che non mi sembravano abbinabili al destino di un samurai.

La volta seguente lo trovai, sempre seduto sul bordo del marciapiede, che aveva attaccato bottone con alcuni allievi che aspettando il mio arrivo per l' apertura del dojo ingannavano il tempo mangiando cartocci di lupini. Si era fatto spiegare come andavano mangiati quegli affari e si dava diligentemente da fare, seminando il marciapiede di bucce. «Che figura! -  pensavo io - questo non sarà mai un vero samurai!».

Chi era? uno dei più grandi maestri che abbia mai conosciuto in vita mia (e ne ho conosciuti tanti), e sicuramente tra quelli che avevano le conoscenze più vaste ed approfondite sull'immenso patrimonio della cultura samurai: Masatomi Ikeda sensei.

Sul maestro Tada sono girate tante di quelle storie, messe in giro anche da distinti omoni di una certa età e/o con barba e baffi; io a quei tempi ho creduto indistintamente a tutte, adesso però qualche dubbio in proposito lo coltivo...


Una volta il maestro spiegò che gli avrebbe fatto comodo avere dei  jo, descrivendo più o meno come dovevano essere fatti: in men che non si dica gli venne presentato come prototipo un qualcosa di simile alia clava di Ercole, che venne, al solito, accettato senza fare commenti, anzi con mille ringraziamenti. Dopo qualche prova, il maestro si avvicinò ad una delle colonne che troneggiavano minacciose in mezzo ai circa 20 metri quadri di tatami  e facendo leva sulla colonna, iniziò col bastone strane manovre, che a me sembravano avere lo scopo di raddrizzare l'infelice pezzo di legno, che in effetti molto dritto non era. Partì subito una delegazione di allievi, per chiedere rispettosamente al maestro cosa mai stesse facendo: dopo un po' il portavoce tornò indietro, riferendo con aria da cospiratore «Lo spinge contro la colonna per accorciarlo perché è troppo lungo.» Naturalmente il giorno dopo la storia aveva fatto tre volte il giro di Roma.

Altre storielle? La sera nelle riunioni organizzative qualcuno chiedeva sempre cosa avesse fatto il maestro Tada al Dojo. Aveva trovato un nuovo modo per allenarsi: lanciava dei fogli di carta per aria e li tagliava in due al volo con la spada: «Embe'? - si stupiva qualcuno - sarei capace pure io!». «Cretino! - lo si rimbeccava - in due nel senso dello spessore, in modo da fare due fogli A4 al posto di uno! Tu sei capace?...»


Un bel giorno, mentre pulivamo la palestra la domenica mattina, mi venne detto di indossare un keikogi qualsiasi e salire sul tatami (i keikogi erano depositati in palestra, alia giapponese). Mentre mi affrettavo, mi dissero di stare attento a non sbagliarmi: una volta un allievo si era messo per sbaglio il keikogi del maestro Tada, che stava fuori Roma.

A sentir loro, al ritorno il maestro si sarebbe immediatamente reso conto del misfatto. Non solo, ma sarebbe andato in giro per il dojo annusando come un cane da tartufi, finché rintracciato dall'odore il malcapitato allievo, gli avrebbe dato una risciacquata di primo ordine. Piccole leggende metropolitane...

Fu quella la prima e unica volta che salii sul tatami del Ueshiba Morihei Dojo: sarebbero passati altri 8 anni prima che mi decidessi ad iscrivermi ad un corso di aikido. Da allora non ho più interrotto.

Il dojo era abbastanza affollato; a rivedere le vecchie foto fanno tenerezza quelle pose marziali (si fa per dire), quegli atteggiamenti statuari mal conciliabili con gli angusti keikogi. Non so perché ma a quei tempi il keikogi andava di moda bello attillatino, che facesse una acconcia figura indosso ma pagando presumibilmente lo scotto di una certa difficoltà nella pratica. Non si usava molto lavarlo, con la scusa che i samurai non lo facevano: rimaneva perciò a lungo dello stesso colore giallastro che aveva appena acquistato e il caratteristico odore del dojo (come ho detto i keikogi rimanevano negli spogliatoi) iniziavo a percepirlo già quando con la mia vespa passavo gli archi di Porta San Giovanni, a distanza di un paio di km.

 

L'ex Ueshiba Morihei Dojo era divenuto negli anni 80, la prima stesura di questo articolo risale al 1985, una officina elettrauto.

Troneggiava ancora ovviamente, al centro del locale, la famosa colonna su cui secondo le saghe il maestro Tada accorciò un simil-jo da 150cm ai regolamentari 128cm.

Semplicemente spingendovelo contro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti gli allievi che sono passati per il Ueshiba Morihei Dojo sono prima o poi tornati all'ovile.

Tutti li ho incontrati qualche anno dopo al Dojo Centrale, tutti hanno chiesto del maestro Tada, e tutti hanno detto di voler ricominciare la pratica: qualcuno l'ha addirittura fatto! Chiuso nel nefasto 1994 anche il Dojo Centrale di via Eleniana, queste persone continuano ad affluire al Dojo Nozomi che ne aveva raccolto l'eredità, scoperto chissà come.

Sono passati molti anni, e oramai sono pochi quelli che rinnovano l'eterna promessa di ricominciare la pratica. Non pochi però portano i loro figli o nipoti, e questo è molto bello.

Negli anni 60 tutti i praticanti si dimostravano allievi ben volenterosi, e il maestro Tada era soddisfatto: usava a quei tempi praticamente il sistema giapponese: a un malcapitato venuto la prima volta in palestra venne sommariamente spiegato irimi tenkan suwariwaza; dopo di che il maestro seguitò a fare lezione, lasciando il tapino che piroettava volenterosamente: dopo un quarto d'ora il poveretto fece cenno al maestro se poteva smettere, ormai paonazzo: il maestro assunse un'aria quanto mai stupita, e gli fece cenno di seguitare; dopo un'altra mezz'ora il nostro eroe si diresse verso il maestro Tada, e in silenzio si tirò su i pantaloni mostrando le ginocchia ormai sanguinanti. Lo sguardo rivoltogli in cambio dal maestro aveva un inequivocabile significato: «E allora? E questo che c'entra?»

Non gli rimase che tornarsene mogio mogio ai suoi tenkan, fino alia fine dell'ora; ancora mentre mi raccontava l'episodio - ed erano passati oltre 20 anni - mentre parlava del maestro Tada gli brillavano gli occhi.

Anche il sistema dei gradi era alia giapponese: con nomine sul campo da parte del maestro, che era di manica abbastanza larga: in 5 o 6 mesi quasi tutti erano terzo kyu; le tecniche erano però rudimentali, più che altro per una certa faciloneria da parte degli allievi e per la loro desuetudine ai movimenti dell'aikido, perché le lezioni del maestro - cui assistevo bloccato purtroppo al tavolo della segreteria - erano rigorosissime. Mi affascinava particolarmente il modo in cui spiegava le cadute, facendole vedere praticamente al rallentatore: sembrava veramente che si fermasse a suo piacimento in aria.

Dopo poco più di un anno il mio gruppo sportivo si sciolse, e cosi finì la "prima palestra europea di aikido". Credevo che la storia fosse finita li, ma dopo qualche mese, nella primavera del '67, Stefano Serpieri che aveva continuato a seguire l'insegnamento del maestro fece sapere a me e ad alcuni altri amici che Tada sensei aveva trovato un nuovo Dojo in via Eleniana, non molto lontano da lì, e cercava qualcuno che gli desse una mano per metterlo a posto...

Cominciò da lì una nuova avventura, che è ancora lontana dal terminare.

 


PS: dal 1985, data della prima versione di questo articolo, per oltre 35 anni nessuno si è cimentato nella ricerca della fonte che ispirò quel remoto volantino del Ueshiba Morihei dojo. O perlomeno nessuno ha confessato di averci provato invano. In un insolito attacco di misericordia, voglio finalmente indicare la soluzione: qui.

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