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Akira Kurosawa: Tsubaki Sanjuro

1962

Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Yuzo Kayama, Takashi Shimura

 

 

Incontriamo di nuovo il samurai vagabondo già protagonista l'anno precedente di Yojimbo (guardia del corpo) conosciuto col titolo italiano di La sfida del samurai. Si fa chiamare ora Sanjuro Tsubaki, mentre prima era Sanjuro Kuwabatake ma anche questo è uno pseudonimo: una nobile signora un po' svanita appena salvata da un assalto di malviventi gli chiede di presentarsi.

Il protagonista (Toshiro Mifune), evidentemente ricordandosi delle buone maniere che in un passato oscuro non dovevano essergli estranee, non riesce a dire di no; si trova in quel momento all'ombra di una camelia (tsubaki) e inventa lì per lì di chiamarsi Tsubaki Sanjuro: Camelia Trentenne.

Tatsuya Nakadai interpreta sinistramente quanto magistralmente la parte del feroce samurai Hanbei Muroto, che viene cruentemente ucciso da Sanjuro nel catartico duello finale. La tecnica di estrazione usata da Sanjuro ha fatto scalpore e la ritroviamo perfino in ponderosi tomi di arti marziali, I segreti dei samurai di Oscar Ratti fra tutti. Dobbiamo però disilludere quanti vi hanno prestato fede: si tratta di un trucco cinematografico, l'estrazione della spada con la mano sinistra mostrata nel film è assolutamente irrealistica.

Quindi Kurosawa si prende una vacanza per la seconda volta nel giro di poco più di un anno, rinunciando anche al suo proverbiale realismo?

L'insistenza suglii stessi due attori in antagonismo, Mifune e Nakadai, il ripetersi delle stesse situazioni nell'uno e nell'altro film, un certo tono disincantato infine lasciano pensare ad una garbata presa in giro di Kurosawa; diversi indizi porterebbero a sospettarlo.

Ma sarà veramente così?

Ancora molti anni dopo Tatsuya Nakadai, in una lunga intervista, si concede e ci concede delle riflessioni molto profonde sul personaggio di Muroto, che evidentemente è tra quellii che più hanno lasciato il segno in lui.

Ricorda infatti che Hanbei Muroto viene definito da Sanjuro, dopo averlo ucciso nel cruento duello finale, un nukimi: una “spada nuda”. Nakadai spiega che si tratta di un tipico modo di dire samurai, che indica la persona che non riesce a stare nel suo “fodero”, lasciando uscire dall’animo quanto dovrebbe rimanere dentro, sotto controllo.

Ed anche la sua analisi del difficile ed intenso rapporto tra due uomini che si rispettano e provano simpatia l'uno per l'altro ma devono confrontarsi in un duello mortale, è degna di riflessione.

E' un tema che si ripresenta anche in altre opere, Nakadai infatti commenta a volte con umorismo durante le interviste: "Nella scena finale quando vengo ucciso, come al solito..."  e che a pensarci bene non è solo materia di intrattenimento.

D'altra parte Kurosawa san ama sorprenderci, apprestiamo quindi a commentare anche Sanjuro, pronti a rifletterci sopra a ragion veduta.


In Yojimbo i nemici erano dei malviventi organizzati in due grosse bande, che si erano impossessati di una piccola cittadina facendo leva sulle attività semiclandestine come lo spaccio e il contrabbando di alcol o di altri generi di lusso e la prostituzione. Tradizionalmente, in ogni paese del mondo, vengono tacitamente lasciate gestire dalla delinquenza ma coinvolgono sempre di più anche gli onesti cittadini, man mano che la potenza economica e la presenza sul territorio della malvivenza si estendono oltre quei limiti che i benpensanti e la classe dirigente sono abituati ad accettare come fisiologici.

In Sanjuro i nemici sono le istituzioni: la corruzione strisciante che serpeggia proprio nella classe dirigente, per combattere la quale non basta nemmeno il coraggio, quello che mancava ai cittadini oppressi in Yojimbo dalle bande rivali di Ushitora e Kazuemon. Ce l'ha sicuramente il gruppo di giovanissimi samurai che intende ribellarsi al degrado morale delle istituzioni, ma le spade che portano orgogliosamente al fianco si dimostreranno armi assolutamente inadeguate.

Le circostanze richiederanno loro più spesso di nascondersi come topi che di combattere a viso aperto con la spada in pugno, e convinti di sapere perfettamente cosa fare scoprono invece che la sa molto più lunga di loro, sulle cose loro, uno sfaccendato appena appena arrivato, fuori da ogni schema e da ogni convenzione, screanzato e incurante del rispetto dovuto al loro stato sociale.

E pur senza arrivare mai a capire, nemmeno sospettare, chi sia veramente e quali siano i suoi veri scopi, finiranno per seguirlo disciplinatamente: come topolini.

Viene infatti occasionalmente in loro soccorso il vagabondo Sanjuro, che si era appartato per schiacciare un pisolino nell'edificio dove il gruppo di cospiratori al contrario si era riunito per decidere il da farsi, ascoltando involontariamente i loro discorsi.

La sua arma principale, quella che si dimostra praticamente infallibile, e ben più micidiale della sua pur temibile lama, è il cinismo, il disincanto. Sanjuro è fondamentalmente disilluso, appartiene a quella corrente di pensiero che si attiene al principio che, per citare un concetto nostrano, a pensare male si fa peccato. Ma ci si azzecca.

Non che Sanjuro sembri un decisionista: la sua tattica preferita è quella di attendere, schiacciandoci magari sopra l'ennesimo pisolino.

Ripensiamo alle vicende di Sanjuro in questa ottica alternativa: certamente non inedita ma che Kurosawa contrariamente al suo solito non ha sussurrato, preferendo un'opera dai toni molto carichi e dai riferimenti espliciti. Altrettanto certamente però non è stata nemmeno ipotizzata dalla maggioranza di pubblico e critica. Nell'edizione utilizzata per questa recensione, quella inglese, i giudizi concordano: "Rattles along like a John Ford Western... Irresistibly funny" (Tom Mine, The Observer). E ancora: "The humour is bitter, the action ferocious. A minor masterpiece." (Philip French, The Observer).

Quindi secondo molti critici se non tutti, un film di puro intrattenimento. Un'opera minore.

Ma con una riflessione più attenta il giudizio finale complessivo, così come la valutazione dei singoli episodi, può - e probabilmente deve - cambiare.

Nasce il sospetto che le auto citazioni di Kurosawa, quel suo tornare su eventi e su situazioni  psicologiche già visti in Yojimbo, non siano frutto del mestiere, espedienti commerciali  dell'abile venditore che scommette di nuovo sul prodotto che ha avuto successo l'anno prima, ma necessarie pietre di paragone che l'autore ha voluto introdurre per permettere ai fruitori dell'opera di comprendere se ci siano differenze tra la guerra alla malvivenza e quella alla corruzione del sistema.

Il rapporto conflittuale ma anche dialettico tra Sanjuro e la sua controparte in negativo Muroto, impersonato da Nakadai con la sua impareggiabile capacità di adattarsi in modo assolutamente naturale alle parti in nero nonostante la natura bonaria e riflessiva che emerge nelle interviste, va forse anchesso rivisto sotto questa potenziale prospettiva.

Non c'è sostanziale differenza di pensiero e nemmeno di atteggiamento decisionale tra chi combatte da una parte e dall'altra. Le energie naturali del combattente hanno bisogno di una causa per cui spendersi, qualunque essa sia, e la differenza tra  il bene ed il male appare sfumata quando l'esigenza dell'azione, sia che nasca dall'interno  sia che dipenda da circostanze esterne, diventa impellente.


Yojimbo era stato un grande successo di pubblico, mentre la critica lo aveva considerato senza molte eccezioni una vacanza disimpegnata che Kurosawa aveva deciso di prendersi in attesa di ritornare su temi più alti.

Si è detto che questo successo fosse dovuto in gran parte al remake in chiave western girato da Sergio Leone (Per un pugno di dollari) ma chi lo sostiene si inganna: il film di Leone infatti è del 1964, e uscì inizialmente come un anonimo prodotto firmato con uno pseudonimo e destinato ai circuiti di periferia. Solo gradualmente si affermò tra il pubblico e venne infine scoperto - a posteriori - anche dalla critica.

Sanjuro che è invece del 1963 venne girato su richiesta dei produttori, che intendevano replicare immediatamente il successo immediato di Yojimbo e ricavarne altri interessanti guadagni. Kurosawa riprese quindi tra le mani una sceneggiatura che aveva scritto in precedenza sulla base di una novella di Shugoro Yamamoto, autore cui ha attinto anche per l'opera successiva, Barbarossa.

Cogliamo l'occasione per ricordare che Kurosawa fu molto critico nei confronti delle emulazioni (e un giorno vi diremo perché parliamo al plurale) di Sergio Leone:

Non avrei mai pensato di contribuire involontariamente alla nascita del western spaghetti! Ma perché rifare un film tale e quale  (a parte certe insistenze sulla violenza bruta) travisandone in parte lo spirito?

A me interessava il ritratto di un uomo fuori dall'ordinario che si batte con l'astuzia contro i mascalzoni per un'idea di giustizia.

Nel remake sembra che importi principalmente il numero dei morti e il modo in cui vengono uccisi; il sangue, la crudeltà e il cinismo hanno cancellato ogni sottofondo etico.

(da Pier Maria Bocchi: Akira Kurosawa, Il Castoro, 2007)

La versione originale della sceneggiatura prevedeva un protagonista non particolarmente versato per le armi, che piuttosto "duellava con la testa" raggiungendo i suoi obiettivi con l'astuzia.

Man mano che si andava avanti però le pressanti richieste dei produttori cambiarono la chiave di volta dell'intero edificio: Sanjuro diventava sempre più un uomo di azione, e la spada tornava protagonista.

In realtà sono molti di più nel film i tempi di attesa che quelli dedicati all'azione, spesso fulminea e in cui Sanjuro annienta i suoi avversari così velocemente che lo spettatore si rende conto che c'è stato un duello solo quando è già terminato.

A differenza di come si comportava in Yojimbo, sembra ora più riluttante a spargere sangue. Abbatte i nemici, incurante del loro numero, senza nemmeno estrarre la spada dal fodero. Ma quando decide di farlo i risultati sono terribili.

Sembrano i sintomi di un ripensamento in corso d'opera, almeno parziale, da parte di Kurosawa.

 

 

 

Forse dietro esplicita richiesta dei soliti produttori, vengono replicate diverse situazioni già viste in Yojimbo.

Ma Kurosawa le stravolge dando loro chiavi di lettura beffardamente diverse, come se si divertisse a sconcertare lo spettatore che pensa d sapere già quello che sta per succedere.

Qui vediamo la caratteristica scrollata di spalle, Kurosawa chiese che ricordasse quella di una cane, con cui Sanjuro commenta a modo suo la conclusione di avventure piccole e grandi, divertenti e tragiche.

L'antagonista Nakadai deve invece impersonare, seguendo le istruzioni del regista, il ruolo del serpente.

 

 

 

 

Il tono dell'intera opera è apertamente satirico, di un umore nero che si alterna alle scene di violenza ma non per questo coglie meno nel segno.

Sono aperti bersagli di Kurosawa un certo esagerato conformismo della società giapponese, e gli entusiasmi giovanili che portano direttamente dalla sognata "rivoluzione" alla catastrofe, passando attraverso la facile quanto errata identificazione del nemico da abbattere e dell'alleato cui legarsi.

Si direbbe quasi una profetica anticipazione di quanto si sarebbe visto poi con la "rivoluzione" giovanile del 1968.

 

 

 

 

 

 

Tra Sanjuro Kuwabatake e Sanjuro Tsubaki corre un'altra importantissima differenza.

Il primo accelera deliberatamente con le sue provocazioni il corso degli eventi, sembra che i momenti di stasi lo annoino profondamente.

Il secondo ha la tendenza a dilazionare, a rimandare e ad attendere e una sostanziale vistosa pigrizia, e non è facile valutare fino a che punto sia autentica e dove invece cominci la simulazione per trarre in inganno sia amici che nemici.

Proprio per questo i momenti in cui passa all'azione arrivano del tutto inaspettati, sorprendendo ed avvincendo lo spettatore, e i suoi giudizi impietosi e chirurgicamente precisi sorprendono i suoi improvvisati alleati.


Sembrerebbe di avere detto praticamente tutto quello che c'era di dire su questa opera "leggera" del maestro.

Pochi cambiamenti formali apportati al canovaccio di un film già riuscito, per ripeterne stancamente gli stilemi e riscuotere moneta sonante al botteghino? Il tutto senza alcun messaggio da trasmettere?

Non sembra. Corre molta acqua tra il primo ed il secondo Sanjuro: molto più tempo in apparenza di quanto afferma lui stesso, quando dichiara pensoso alla nobildonna da lui salvata che si sta ormai avvicinando ai 40.

Le esitazioni ed i ripensamenti di Sanjuro II hanno una motivazione molto più profonda di quella che si riceverebbe prestando attenzione solamente alle rare ma violentissime scene di combattimento.

In realtà, mentre Sanjuro I non esitava ad estrarre la spada alla minima occasione, il nuovo Sanjuro esita. Ma non per scelta tattica o strategica: non ama uccidere.

 

 

 

Ed il suo nemico non solo si annida nel cuore delle istituzioni - non è più quindi la delinquenza dichiarata e palese che deve combattere - ma  anche dentro di lui.

Il suo rapporto di attrazione e repulsione verso Hanbei Muroto è motivato dalla sensazione soggettiva di trovarsi di fronte ad un essere umano molto simile a lui, eppure schierato sul campo opposto.

Sanjuro combatte anche contro se stesso.

Occorre dire che questa impostazione della vicenda non sarebbe stata realizzabile se Kurosawa non avesse  potuto disporre di due magnifici interpreti all'altezza di tanto impegno.

Si è detto molto di Toshiro Mifune, della sua inimitabile capacità di condensare in pochi istanti, magari in una sola espressione del viso, messaggi inequivocabili che altri attori avrebbero a stento trasmesso confusamente, pur occupando metri e metri di pellicola. Per la prima volta, ed è un vero peccato che sia rimasta l'ultima, Mifune trova in Nakadai un antagonista alla sua altezza.

Non è un caso che Nakadai sia rimasto così profondamente impressionato dal rapporto tra i due protagonisti.

E' nella scena finale che Kurosawa mette in bocca a Sanjuro la famosa definizione di Muroto che Nakadai ha voluto ricordarci: una spada nuda, priva del fodero.

Ma è esattamente la stessa definizione di Sanjuro che aveva dato la dama al loro primo incontro, quando l'aveva cruentemente  liberata da un rapimento.

Una spada micidiale, priva del fodero perché sempre pronta ad agire. Mentre le lame di valore debbono essere protette, ed estratte solo quando necessario.

 

 

 

 

Al termine di un lungo percorso Sanjuro dovrà convenirne, arrivando anche  alla drammatica conclusione di aver dovuto vincere ed uccidere, assieme a Muroto, anche se stesso.

Nella inquadratura finale Sanjuro si allontana di nuovo dai luoghi che lo hanno visto in azione, scrollando come sempre le spalle, emulando il gesto di un cane randagio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa volta Kurosawa ha raffigurato probabilmente se medesimo nei panni di Sanjuro, mentre in altre opere ci aveva proposto personaggi molto distanti dal suo essere.

Con questo film sconvolge le pigre abitudini di noi spettatori e irride le sciocche presunzioni dei produttori interessati solo all'incasso.

Ha fatto nonostante tutto esattamente il film che ha voluto, lasciando però credere a tutti di avere ceduto alla moda del momento per creare un prodotto di facile consumo.

Rendiamogli omaggio.


La storia di Sanjuro II è molto semplice: poco più di un canovaccio che deve apparentemente, senza farsi e farlo troppo notare, sorreggere in qualche modo  una serie di repliche degli episodi di Yojimbo più apprezzati dal pubblico. Questo almeno secondo i produttori. Sappiamo ormai che Kurosawa aveva intenzioni diverse.

Un gruppo di giovani samurai, nove in tutto guidati da Iori (Yuzo Kayama, che sarà 3 anni dopo il protagonista di Barbarossa) ha deciso di ribellarsi alla corruzione imperante nel feudo.

Purtroppo la lettera di protesta indirizzata al governatore Mutsuta è stata da lui platealmente strappata, e stanno ora pensando di appoggiarsi all’alto funzionario Kikui.

Costui ha appena detto a Iori di riunire tutti in un luogo sicuro e isolato, dove lui manderà sue notizie.

 

 

 

 

 

 

 

Il samurai errante Sanjuro come abbiamo detto si stava riposando nel tempio abbandonato dove si riunivano i giovanotti di belle speranze, ed interviene non richiesto a dire la sua.

Mentre l’atteggiamento prudente di Mutsuta può essere giustificato dalla delicatezza della materia, l’entusiasmo con cui Kikui ha accolto i giovani è sospetto, e quella proposta allarmante.

Una rapida occhiata al di fuori rivela infatti che un numeroso gruppo di armati ha circondato l’edificio e sta per fare irruzione.

 

 

 

 

 

 

 

Sanjuro frena i giovani dal tentativo immediato ed istintivo - dopotutto sono dei samurai - di tentare una reazione armata: ci penserà lui.

Affronta da solo la fiumana di uomini che fanno irruzione, prima assicurandoli che non c’è nessuno oltre lui e poi, visto che insistono a controllare di persona, facendo una carneficina per difendere, a suo dire, l’inviolabilità del tempio.

Il comandante dei soldati, Hanbei Muroto, si rende conto di non avere di fronte a se una persona comune; accetta di ritirare i suoi uomini, ed offre a Sanjuro di entrare anche lui al servizio di Kikui. Sanjuro ci rifletterà.

E’ solo l’inizio di una lunga serie di avventure che sembrano apparentemente, come ripetuto più volte, essere solo un pretesto per replicare con infime varianti gli episodi già visti in Yojimbo e raccontano invece una storia completamente diversa, che va al dilà dei singoli episodi, su cui di conseguenza è inutile insistere.

L’intera famiglia del governatore è intanto stata rapita dagli sgherri di Kikui (Masao Shimuzu), ma Sanjuro riesce quasi subito a liberare la moglie di Mutsuta (Takako Iriie) e la figlia.

Le nasconde poi nella casa accanto a quella del maggiore alleato di Kikui, Kurofuji (Takashi Shimura, qui pavido ed insignificante).

Pensa giustamente che nessuno penserà a cercare in un posto tanto vicino al nemico.

Per spezzare la catena di omertà Sanjuro ricorrerà poi al doppio gioco, fingendo di accettare l’offerta di Muroto ma agendo in realtà come una micidiale quinta colonna.

Aggredisce ogni volta che può gli uomini di Kikui, senza curarsi del loro numero, per sterminarli tutti, non senza rimorsi; non può lasciarsi dietro testimoni che svelerebbero il suo inganno.

Non appena ha scoperto che il governatore si trova sotto stretta sorveglianza proprio nella casa di Kurofuji accanto alla quale si erano rifugiati anche i samurai ribelli, Sanjuro decide di liberare anche lui.

Ma un banale errore fa scoprire il suo doppio gioco, e Muroto lo smaschera, lo fa disarmare e mettere sotto stretta sorveglianza.

 

Un provvidenziale episodio gli salverà la vita. Uno degli uomini di Kikui, fatto prigioniero in una delle battaglie iniziali, si è talmente assuefatto al suo insolito ruolo di ospite forzato che si fa prestare i migliori vestiti del padrone di casa ed entra ed esce a suo piacimento dalla prigione, in realtà una semplice parete scorrevole, per partecipare ai consigli di guerra del gruppo di cospiratori e dire perfino la sua.

E’ lui a ricordarsi per primo che un banale errore farà inevitabilmente scoprire l’inganno, ad uscire di corsa dal suo bugigattolo, a dare l'allarme, ad avvertire gli altri.

Ma non osano fare irruzione: Sanjuro ha comandato di attendere ad ogni costo il suo segnale. Arriveranno nel giardino delle camelie, portate dalla corrente lungo il ruscello che passando per la casa di Kurofuji entra poi in quella dove si trovano in agguato i cospiratori a fin di bene.

 

Sanjuro, saldamente legato e reso completamente inoffensivo, lavora tuttavia di cervello: fortunatamente Muroto è assente e ha con se quasi tutti gli uomini.

Riesce a convincere Kurofuji "confessando" con titubanza che un attacco dei suoi uomini è imminente, proprio ora che loro sono praticamente indifesi.

Solo un segnale dato con le camelie potrebbe arrestarlo, altrimenti l'attacco sarà inevitabile e cruento; ovviamente raccoglieranno camelie a grandi bracciate e le getteranno freneticamente nel ruscello.

 

 

 

 

 

 

Il segnale scatena invece l’irruzione dei giovani seguaci di Sanjuro, che libereranno senza colpo ferire sia lui che Mutsuda.

E' la fine della banda di corrotti.

Muroto al rientro trova i suoi complici legati ed imbavagliati, e si rende immediatamente conto di avere perso la partita.

Non appena tornato libero il governatore, che fino allora aveva tentato di trovare una soluzione che non facesse troppo scandalo, farà invece piazza pulita senza troppi complimenti.

 

 

 

 

 

 

 

Si è detto in alcuni testi critici che Kurosawa, alle ricerca del perfetto tono di bianconero con cui rendere il rosso delle camelie, abbia fatto infinite prove e sia poi ricorso a fiori artificiali meticolosamente laccati di rosso uno ad uno.

Per la verità il dialogo del film dice un’altra cosa: Sanjuro informa i suoi carcerieri, che gli chiedono di che colore debbono scegliere le camelie, che ne devono essere mandate il più possibile lungo il torrentello, ma rosse o bianche non ha importanza.

Quindi Kurofuji ne taglierà immediatamente un quantitativo spropositato, che ad ogni proiezione suscita l'ilarità del pubblico. Ma tutte bianche come si vede.

Tornato libero il governatore, il gioco dei ribelli viene denunciato in pubblico e fallisce miseramente. I personaggi maggiormente coinvolti nella corruzione. Vengono immediatamente arrestati ed esiliati dal saggio Mutsuda, che rinuncia a chiedere loro il seppuku (suicidio rituale).

 

Lo vediamo ora per la prima volta: Kurosawa ce lo presenta come un buffo omino dai tratti bizzarri e con l’aria un po’ tonta. Eppure è senzaltro uno dei personaggi del film maggiormente dotato non solo di comprendonio ma anche di notevole acume.

Senzaltro ne ha da vendere in confronto ai giovani quanto sprovveduti samurai pronti a spaccare il mondo con le loro spade.

Come suo solito Kurosawa gioca molto coi toni comici, alternandoli a quelli drammatici. Ma, molto spesso, per trasmettere messaggi serissimi.

E’ finita dunque la lotta alla corruzione. Rimangono da regolare i conti privati tra Sanjuro e Muroto.


La resa dei conti finali tra Tsubaki Sanjuro e Muroto Hanbei viene resa da Kurosawa col duello più carico di tensione e più cruento visto fino ad allora sugli schermi. Da quel momento è stata una continua progressione, si è spesso cercato da parte di altri registi  di far vedere qualcosa di più, e di più sanguinoso, ad ogni nuova opera.

Nessuno però è riuscito ad eguagliare la forza drammatica di questa scena, che non trova più riscontri nelle opere successive di Kurosawa: ha voluto mostrare quale fosse il limite, ma non ha voluto superarlo né ha accettato di ritornare sull'argomento per pure ragioni di cassetta. Kurosawa è in grado di mostrare la violenza e l'orrore con una potenza che nessun altro ha mai avuto, ma non lo fa mai gratuitamente.

La tecnica utilizzata da Sanjuro è stata anche analizzata e portata ad esempio da diversi studiosi delle arti marziali, ma come stiamo andando a vedere, nessuna di queste analisi arriva al necessario livello di approfondimento.

Questa è la ricostruizione del duello proposta da Oscar Ratti nel suo libro I segreti dei samurai pubblicato in Italia dalle Edizioni Mediterranee, edizione del 1992, pagina 292.

La didascalia recita "Estrazione iai, da Sanjuro".

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorniamo alla immagine di apertura di questo articolo: una locandina che venne utilizzata all'epoca della prima uscita. Mostra Toshiro Mifune nell'atto di impugnare la spada con la mano sinistra in posizione gyakute (palmo verso il basso), e lascia immaginare che sia quella la tecnica di estrazione utilizzata nel combattimento.

In realtà questo genere di immagini non utilizza normalmente i fotogrammi delle riprese. Si tratta di immagini riprese dal fotografo di scena durante sessioni separate, e per quanto siano logicamente indirizzate a richiamare gli episodi chiave del film, se ne possono discostare più o meno per ragioni tecniche.

E' il caso di questa locandina, di cui non conosciamo l'autore, che diversi commentatori hanno utilizzato per le loro ipotesi di ricostruzione. Non hanno però notato una macroscopica differenza rispetto al film.

Nel momento dello scontro Sanjuro si sposta sulla sinistra, di conseguenza Muroto si trova alla sua destra. Nella locandina però sia la  lama che lo sguardo di Mifune sono focalizzati a sinistra, ove non c'è nulla. E' evidente che si tratta di una ricostruzione completamente avulsa dalla scena reale. Forse è addirittura frutto di una composizione, in cui qualcuno ha posato per mostrare l'atteggiamento del corpo mentre il viso di Toshiro Mifune vi è stato sovrapposto in un secondo momento.

Ha indubbiamente una cosa in comune con la ricostruzione di Ratti: la spada viene estratta come detto in posizione gyakute (col palmo della mano verso il basso).

Oscar Ratti, pioniere delle arti marziali, è stato coautore assieme ad Adele Westbrook di due testo fondamentali nella bibliografia dei cultori di arti marziali: I segreti dei Samurai e L'aikido e la sfera dinamica. Dotato di grande cultura e disegnatore professionista, le sue conoscenze tecniche delle varie arti non potevano però oltrepassare i limiti raggiunti dai praticanti occidentali nell'epoca in cui ha vissuto.

E'  questa la ragione per cui le sue opere, ricche di preziose riflessioni, di approfondite analisi, di teorie innovative, non sono tuttavia esenti da errori.

L'estrazione di una spada con la mano sinistra è plausibile anzi necessaria - quando la destra già impugna la katana - per estrarre il wakizashi, la cui lama misura tra i 30 e i 60 cm.

Ma Sanjuro contrariamente alle abitudini non porta wakizashi: utilizza solo una grande spada, valutando dalle immagini intorno ai 75cm di lama, che è impossibile estrare con la mano sinistra. Kurosawa sa bene che la scena deve apparire verosimile, non necessariamente esserlo: e per stupire lo spettatore con l'ennesima dimostrazione di incredibile destrezza da parte di Sanjuro, gli farà estrarre la lama con la sinistra.

Nella serie dei suoi disegni Ratti continua facendo completare a Sanjuro (sulla sinistra) l'estrazione della spada. Completata l'estrazione il palmo della mano appoggia sul mune (dorso) della lama per aumentare la forza del colpo e permettere maggiore precisione: la lama taglia in orizzontale il torace di Muroto, con movimento da destra a sinistra.

Contemporaneamente Sanjuro si sposta sulla sinistra per evitare il colpo di Muroto, che va a vuoto. Questi si accascia poi al suolo, privo di vita.

Non è esattamente cosí, né potrebbe esserlo. Lo vedremo analizzando il duello sulla scorta dei fotogrammi.

Alcune immagini di questa sequenza sono molto cruente: ne sconsigliamo la visione alle persone particolarmente sensibili.

 

 

Kurosawa inizia la sequenza con un espediente mutuato da uno degli stilemi più ricorrenti nei film western: una interminabile attesa in cui i due avversari sono l'uno di fronte all'altro, immobili, impassibili, senza battere ciglio, mentre gli spettatori, anche loro pietrificati ma con una altalena di emozioni che si alterna sui loro volti, restano sullo sfondo.

Lo spettatore viene coinvolto in questa spasmodica attesa, la tensione sale dentro di lui fino a diventare quasi intollerabile.

Al momento della improvvisa esplosione dell'azione, fulminea, cruenta, imprevedibile ed imprevista, i suoi sensi sono già ottenebrati e non riuscirà a comprendere quanto vede o immagina di avere visto.

 

 

 

 

Hanbei Muroto decide di passare all'azione per primo, estraendo la sua lama con una tecnica simile a quella che viene chiamata batto in alcune scuole di iaido.

Sanjuro Tsubaki si prepara a scartare sulla sinistra ed impugna la tsuka.

Ma la sua mano non è gyakute, come mostrato nella locandina e ripreso da Ratti, ma visibilmente honte: col palmo verso l'alto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In realtà in questo modo l'estrazione della spada non è possibile: vediamo come, anche al massimo dell'estensione del braccio, si arriva ad estrarre meno della metà della lama.

Non vuole assolutamente essere una critica al grande Sugino sensei, maestro d'arme di tanti film di Kurosawa, né ad Akira Kurosawa stesso che ricorda nella sua autobiografia di essere stato un adepto dell'arte della spada che ogni mattina si alzava all'alba per recarsi al dojo, né a Toshiro Mifune, che per tutto il corso della sua vita ha continuato a studiare l'arte della spada,

E' anzi un complimento: sono riusciti a rendere assolutamente credibile quello che invece non era possibile fare.

 

 

 

 

 

E' possibile che la base di partenza sia stata una tecnica simile, prevista nella "panoplia" di alcune scuole, ma eseguita con la mano destra.

E' la mano destra, sempre in posizione honte, che sta ora completando l'estrazione della lama.

A questo punto una rotazione del polso porta la punta del'arma a ruotare prima verso il basso e poi verso l'alto, in posizione di offesa.

La capacità di penetrazione è modesta se l'angolo di impatto non è ottimale, ma l'impeto dell'avversario può aumentarla fino al punto che si trafigga da solo e l'intervento in appoggio della mano sinistra può renderla risolutiva.

 

 

 

 

 

 

Non è così comunque che ha vibrato il suo colpo Sanjuro.

Fermo restando che l'estrazione è irrealistica, probabilmente la spada è fin dall'inizio fuori dal fodero, celata alla vista, si sottrae alla lama di Hanbei spostandosi di lato mentre contemporaneamente avanza sulla sinistra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ruotando il polso sinistro, come nella tecnica "convenzionale" esaminata prima ruotava la mano destra, Sanjuro porta la punta della lama verso l'avversario e lo trafigge, recidendo l'arteria succlavia destra.

E' uno dei bersagli più importanti nella scherma giapponese: si trova sotto l'ascella, che è completamente scoperta nel momento in cui le braccia si trovano in alto per caricare il fendente (shomenuchi).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La lama di Hanbei incontra il vuoto.

Quella di Sanjuro sta terminando la sua mortale parabola .

Si è aiutato con la mano destra: non utilizzandola per spingere da dietro col palmo, come ipotizzato nella ricostruzione di Ratti, ma per appoggiarvi sopra la lama - sul dorso della mano - e poter così guidare meglio il colpo.

Il colpo è stato portato da sinistra a destra, e non al contrario come supposto nelle ricostruzioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

A meno che non sia dotato di straordinaria prontezza di riflessi, lo spettatore a questo punto non solo non è in grado di ricostruire quanto successo, ma nemmeno di comprendere che Hanbei sia stato colpito.

Figuriamoci capire anche il come.

I due contendenti rimangono immobili, il gruppo di samurai che assiste non osa muovere un ciglio.

Chi ha vinto? O è stato un nulla di fatto?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo un lasso di tempo che sembra interminabile, il dramma che nessuno avrebbe immaginato.

Dal corpo squarciato di Hanbei fuoriesce un grande getto di sangue.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' destinato ad allargarsi fino a divenire una tragica sconvolgente eruzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il volto dei protagonisti rispecchia quello che sta provando ogni spettatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel corso di tutto il film non sono davvero mancate scene di duello o combattimento, e Kurosawa le aveva trattate con mano molto leggera.

Come un gioco, un gioco spettacolare e divertente.

Ora ci mostra tutto l'orrore della morte di un guerriero stroncato dalla spada dell'avversario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è un'opera disimpegnata come può apparire ad una lettura superficiale.

Sanjuro si congeda da noi pensieroso, obbligandoci a pensare a nostra volta.