Mongolia00La tentata invasione mongola del Giappone: la flotta perduta di Kubilai Khan e il suo ritrovamento.

Siamo nel XIII secolo, sul finire del secolo… Tra il 1270 e il 1285. L’impero mongolo è uno degli imperi più estesi che si siano mai visti sulla faccia della terra e a capo di tutto ciò governa, tra mille difficoltà interne, Kubilai Khan, nipote del grande Gengis Khan che tutto ciò ha fortemente contribuito a realizzare.

 

 

 

Impero Mongolo (Wikipedia)Kubilai ha inaugurato la dinastia Yuan stabilendo la sua capitale a Beijing (Pechino) pochi anni prima, nel 1271, quando da poco ha ultimato anche la conquista della Cina.

Alle prese con diatribe interne con il fratello maggiore e con l’etnia Han e a capo di un impero che dava i segni di una irreversibile sfaldamento, Kubilai decide di tentare la conquista dell’arcipelago nipponico.

L’arcipelago del Sol Levante nel contempo era nel pieno del periodo Kamakura (1185-1333) ed era governato dallo Shogun Koreyasu (1266-1289) del clan Minamoto. Siamo ancora lontani dall’unificazione del Giappone che avverrà circa tre secoli dopo sotto il dominio del clan Tokugawa.
Dopo aver mandato nel 1268, e per più di una volta, degli emissari in Giappone per cercare di convincere i nipponici ad assoggettarsi alle forze mongole pacificamente, a differenza di quanto avvenuto in Cina. Dopo aver ricevuto come c’era da aspettarsi un netto rifiuto, il gran Khan Kubilai si prepara alla guerra e inizia ad allestire la sua flotta.

Un tentativo d’invasione che si sviluppa in due riprese, che fallisce miseramente in entrambi i momenti e che ha origine principalmente dalla penisola coreana, che era stata precedentemente assoggettata all’impero mongolo e la cui fedeltà al khan era stata fortificata attraverso un matrimonio di convenienza.

Scroll1Il primo atto della tentata conquista del Giappone registra una iniziale superiorità delle forze mongole su territorio nipponico che poi però vengono fermate dai samurai nelle battaglie di Akasaka e di Torikai-Gata dopo le quali gli invasori decidono di riprendere le forze sulle imbarcazioni in rada. I rinforzi mongoli navali non erano ancora arrivati in loro soccorso che un tifone di straordinaria potenza si abbatté sulle coste occidentali distruggendo quasi completamente la flotta mentre le restanti navi furono rese inoffensive dalle imbarcazioni nipponiche.

I giapponesi consapevoli del pericolo che avrebbe potuto ripetersi, iniziano ad allestire una serie di difese passive, alcune delle quali (un muro difensivo lungo la costa) possiamo ancora vedere oggi grazie a dei “papiri” commissionati da Takezaki Suenaga, un samurai che combatté durante i due tentativi d’invasione mongola, arrivati fino a noi e restaurati per testimoniare ciò che era accaduto.

RecuperoSe per la prima invasione il gran Khan aveva preparato circa 23000 soldati tra mongoli e cinesi e circa 800 tra navi e imbarcazioni varie, ora si prepara alla guerra allestendo un esercito che sulla carta andava a fare una passeggiata per assoggettare il Giappone: 140000 soldati e circa 4500 navi che salparono tra Happo (Corea) e Quanzhou (Cina). L’anno era il 1281, la primavera del 1281... ne parla questo articolo.

Ma forse vi interesserà anche un altro articolo in cui potrete vedere molti dei reperti ritrovati in quelle acque ripresi dal fotografo da Marco Merola per la prefettura di Nagasaki. Già, perché nel recupero hanno avuto una parte importante molti italiani, e dalla lettura di quell'articolo - oltre che continuando con questo - apprenderete il perché e il percome.

 

 

KamikazeE se per qualche tempo sembrava che le truppe mongole potessero avere il sopravvento, dopo qualche mese tutto cambiò improvvisamente. Ad agosto dello stesso anno, a ferragosto narrano le cronache, un tifone, “una corrente nera” come viene chiamata da queste parti, di maggiore potenza di quello che aveva provvidenzialmente salvato i giapponesi durante il tentativo della prima invasione, salvò ancora una volta il paese del Sol Levante e spazzò via la flotta che era in rada e quella che era in arrivo con i rinforzi.

Dopo questo salvataggio, alquanto insperato e alla faccia del calcolo delle probabilità, appare per la prima volta, direi ad uso comune, la parola kamikaze che in giapponese significa vento divino, a testimoniare l’aiuto ricevuto dagli dei tanto provvidenziale.

RitrovamentoQuesta storia veniva raccontata ai bambini giapponesi quasi come una leggenda, mancavano le prove, un dei resti, un museo.... Cronache sino-nipponiche narravano di questi fatti sui due fronti dello stretto e le due fonti coincidevano; li narravano ma erano fatti di cui mancavano le prove.

Sono passati 7 secoli e mezzo circa, siamo ai giorni nostri e di acqua nello stretto ne è passata.

Quasi come un’apparizione a ferragosto (coincidenza del destino!) del 2013, sotto un tempo inclemente con pioggia e vento, tipico di un tifone estivo, un archeologo napoletano, Daniele Petrella, vede qualcosa sul fondo del mare del Canale di Bungo, tra le isole di Kyushu e Shikoku, al largo dell’isola di Takashima.

Si trattava dei pezzi lignei degli scafi delle navi mongole, di ceramiche varie e utensili di foggia mongola.

PangshaLa flotta perduta veniva dunque ritrovata e la leggenda diventava realtà! Se ne parla ufficialmente la prima volta il 16 novembre 2013 a Paestum nella giornata conclusiva della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Un evento e una comunicazione ufficiale questa.

In precedenza si era già parlato di una possibile verifica della leggenda negli anni ’70 quando un ingegnere, Mozai Torao, appassionato pioniere dell’archeologia di ricerca, che in precedenza aveva identificato l’area del naufragio nei d’intorni di Takashima parlò con un pescatore che gli mostrò un sigillo bronzeo che su una faccia recava iscrizioni in lingua pagh’sha, lingua artificiale creata a tavolino da Kubilai Khan nel 1276 nel tentativo di unificare linguisticamente il suo impero; sul retro la data di fabbricazione, 1279. Il “terminus ante quem”, il limite cronologico prima del quale un fatto non può essere accaduto, sembrava essere stato ottenuto.

AncoraDopo scarsi risultati e pochissimi fondi il passaggio di consegne vide l’entrata in scena nel 1986 del professor Hayashida Kenzō, docente di Archeologia subacquea presso l’ateneo Kayo Daigaku di Tokyo e presidente dello A.R.I.U.A. (Asian Research Institute for Underwater Archaeology) di Fukuoka, che nel 1994 ritrovò nei fondali intorno all’isola di Takashima un’àncora gigantesca, lunga sette metri, e che analisi sul manufatto e successivi esami al radiocarbonio del legno a cui era collegata fissarono la datazione intorno al 1260-1270.

Da allora fino al 2013, circa 200 tra navi ed imbarcazioni varie vennero identificate incrociando i dati tra una possibile rotta di un tifone familiare di quei luoghi e le correnti marine presenti in quel tratto di mare.


PetrellaLa comunicazione ufficiale fu data da Daniele Petrella, direttore dell’I.R.I.A.E., International Research Institute of Archaeology and Etnology (e praticante di aikido) che eseguì il ritrovamento a seguito dell’istituzione della spedizione di ricerca italo nipponica in joint venture con l’istituto del professor Hayashida Kenzo dopo anni di incessanti ed appassionate ricerche.

Una joint venture che ha dato la possibilità di identificare, grazie a metodi di ricerca che mancavano ai giapponesi per inesperienza come lo studio delle correnti e dei fondali, posizionamento ragionato delle griglie sui fondali, 260 imbarcazioni e relativi oggetti che si trovavano a bordo: forni usati a bordo, vasellame vario, ceramiche, elmi, armature di cuoio. Ritrovate anche bombe da lancio chiamate teppo: sfere di ceramica riempite di polvere da sparo e schegge di ferro che si credeva inventate in Europa circa due secoli dopo.

Molte altre imbarcazioni sono state ritrovate e altro materiale è stato identificato. È stato creato dal nulla un museo e una modalità di conservazione dei reperti in acqua di mare, che altrimenti sarebbero deperiti. Il sito di Takashima, data la sua importanza, è stato riconosciuto come primo parco archeologico sommerso nazionale del Giappone.

Voluta ed organizzata dalla Fondazione Matalon, la mostra fotografica è stata ospitata presso la prestigiosa galleria sita in Via Foro Buonaparte 67, Milano, fino al 1 Aprile 2017.

Chi volesse approfondire la storia in oggetto può consultare il seguente sito

http://www.arsbellica.it/pagine/battaglie_in_sintesi/Baia%20di%20Hakata.html

E chi volesse avere una idea del ritrovamento può visionare il seguente video

https://www.youtube.com/watch?v=18mDJPBIPnM