L'impero dei segni
Roland Barthes
Einaudi, 1984

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Roland Barthes (1929-1980) è stato un innovatore della critica letteraria e della semiotica, la scienza delle comunicazioni. Ebbe una intensa carriera accademica e a partire dagli anni 60 i suoi studi e le sue proposte lasciarono segni profondi nella teoria delle comunicazioni, non solo scritte.

A partire dal 1966 effettuò tre viaggi in Giappone, che hanno ispirato questo libro.

Scrisse decine di testi, saggi e trattati ed è ancora oggi un testo di riferimento l'altra sua opera Camera lucida (1980), impropriamente tradotto alla lettera in italiano con Camera chiara.

La camera lucida (termine latino che significa effettivamente camera chiara, ma che in italiano viene utilizzato tale e quale) è costituita in pratica da uno specchio montato su un apposito supporto posizionato a 45 gradi rispetto all'osservatore, che proietta l'immagine della scena osservata sul piano di lavoro pemettendo di ricalcarla, mentre contemporaneamente si mantiene la visione della scena reale. Venne riscoperta e brevettata ad inizio 800 ma si ritiene fosse stata progettata due secoli prima da Keplero ed utilizzata già dagli artisti e scienziati del rinascimento. Secondo una recente teoria, supportata da alcuni esperimenti empirici, si sarebbe servito della camera lucida per creare i suoi stupefacenti capolavori anche Michelangelo Merisi da Caravaggio.

In Camera lucida Barthes esplora il linguaggio della fotografia, prendendo spunto dal rinvenimento di alcune foto della madre appena scomparsa. Fu il suo canto del cigno. Scomparve infatti poco dopo anche lui, prematuramente, vittima di un investimento mentre attraversava la strada uscendo dal Collége de France che lo lasciò a lungo tra la vita e la morte. Spirò nel marzo 1980.

Perché questo libro, e perché proprio sul Giappone? Lasciamo che ce ne indichi le ragioni lo stesso Barthes:

Perché il Giappone? Perché è il paese della scrittura: fra tutti i paesi conosciuti, è in Giappone che io ho incontrato la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce, più lontana dai disgusti, irritazioni e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale.

Il luogo dei segni non è cercato negli aspetti istituzionali ma nella città, nel negozio, nel teatro, nella cortesia, nei giardini, nella violenza. Ci si occupa di alcuni gesti, di alcuni cibi, di alcune poesie; ma soprattutto di volti, di occhi e di pennelli con cui si può scrivere, ma non dipingere, il tutto.

Ci sembra di raccogliere un spunto importante nella proposta di Barthes soffermandoci su una foto pubblicata nel libro alle pagine 110 e 111. Raffigura il generale Marisuke Nogi, assieme alla moglie Shizuko. Abbiamo narrato brevemente altrove la loro storia.

La didascalia ha l'aria di essere stata scritta dalle stesse mani di Roland Barthes, e forse non sarà così ma certamente è quella l'impressione che vuole dare.

Recita: Ils vont mourir, ils le savent et cela ne se voit pas.

Cosa è che ha colpito particolarmente l'autore in questa immagine?

Certamente il segno, non affidato come di consueto alla parola scritta, che i cogniugi Nogi hanno inteso lasciare al mondo nel momento estremo in cui hanno deciso di abbandonarlo.

Barthes ha compreso che nella cultura tradizionale giapponese si tende ad utilizzare un linguaggio globale, in cui i segni, i messaggi sono molteplici ed espressi in multiforme maniere, attraverso il pensiero ed attraverso il corpo, in forme sia esplicite sia laconiche quando non addirittura apparentemente assenti del tutto.

Il pensiero giapponese si esprime a volte, vorremmo dire spesso, attraverso dei silenzi, delle apparenti assenze di comunicazione, delle apparenti rinunce.

Passando dalla cerimonia dell'inchino al pachinko, un gioco di azzardo meccanico che costituiva per molti giapponesi un vero e proprio morbo compulsivo e lo costituirebbe tuttora, se non fosse stato sostituito da altri sistemi ancora più pervasivi, dalla gioiosa arte di confezionare pacchetti (tsutsumu) che manifesta senza alcuna remora il piacere di donare alla elusiva arte della poesia che per citare le sue parole lavora sulla "effrazione del senso" piuttosto che sulla sua esaltazione, Barthes esplora il linguaggio onnipervadente della cultura giapponese.

Con l'acuto spirito di osservazione dello straniero immerso in una civiltà lontana dalla sua formazione, Barthes non si lascia sfuggire la peculiarità dei sistemi giapponesi di classificazione - o per meglio dire NON classificazione - delle strade, di espressione dei moti dell'animo attraverso la riduzione all'essenziale piuttosto che all'esaltazione ed enfatizzazione del particolare. Degli infiniti segni che Barthes coglie nell'impero dei segni la maggior parte sono infatti visivi, non scritti, non tracciati sulla pietra o fissati indelebilmente su un supporto, ed anche quando lo sono, negano quanto apparentemente affermano. Possiamo dire per questo che anche qui Barthes adopera una camera lucida: riflette sul il Giappone attraverso lo specchio del suo raziocinio, ma non perde di vista la realtà, ove il raziocinio ostacola piuttosto che risolvere.

E' veramente bizzarro pensare che un popolo così prodigo di segni, per quanto appartenenti ad un modo di esistere diverso dal nostro, passi per impenetrabile, e la proposta di Barthes può darci lo sprone per liberarci almeno in parte dei pregiudizi che ci impediscono di cogliere appieno il senso di questo linguaggio.