Indice articoli

E’ noto pressoché a tutti e particolarmente ai cultori di arti marziali ma anche ad un crescente numero di appassionati che l’arte della fabbricazione della spada ha raggiunto in Giappone vertici altrove sconosciuti, senza voler nulla togliere alle lame di Damasco o a quelle di Toledo, citate qui solamente come esempio di altre celebri manifatture. Non è ora il momento di analizzarne le cause in profondità, basteranno alcuni accenni, per chi vuole sapere qualcosa di più suggeriamo la lettura di questo articolo. La presenza in loco di giacimenti di metallo ferroso di grande qualità ha favorito il raggruppamento di numerose officine artigianali nelle aree che corrispondono al gokaden, il gruppo delle cinque scuole classiche di fabbri spadai: Yamato, Yamashiro, Soshu (nota anche come Sagami), Mino e la piú famosa di tutte, Bizen (per la loro ubicazione vedere qui). Le tecniche di preparazione della lama erano certamente sofisticate ma paragonabili per molti versi a quelle della metallurgia occidentale. Il vero salto di qualità si ha peró nel processo di tempera differenziata della lama che le conferisce un caratteristico disegno lungo il filo. Completano il quadro la forma stessa della lama, armoniosamente curva e quindi piú resistente agli impatti rispetto ad una completamente dritta, il metodo di assemblaggio comprendente diversi elementi fissati elasticamente come la tsuba – la guardia – e la tsuka – il manico – che contribuiscono ad ammortizzare i traumi che ogni lama deve subire durante i combattimenti.

Alla fabbricazione di una spada concorrono diversi maestri artigiani, almeno quattro per le diversi fasi. Dopo il processo di  battitura, forgiatura e tempra la lama viene affidata ad un secondo artigiano che  provvede alla lucidatura della stessa, mentre un terzo cura la preparazione ed installazione dello habaki, la guarnizione in lega di rame, argento od oro che serve a impegnare la lama nell’imboccatura del fodero senza che si muova, ed un falegname specializzato costruisce infine la shirasaya, un fodero in legno di magnolia destinato a conservare la spada fino al momento in cui l’acquirente non deciderà a suo gusto come e da chi far preparare la fornitura da guerra, il koshirae. [2]

Il koshirae di tipo piú recente e comune è quello detto buke zukuri, composto da un fodero di legno laccato, dal manico e da una serie di componenti o accessori in metallo che vengono definiti kodogu: vi appartengono la tsuba, una robusta guardia di forma generalmente ovale o quadrilobata, il fuchi ed il kashira che chiudono le estremità del manico, due borchie dette menuki che lo decorano ai lati, due spessori chiamati seppa interposti tra la tsuba e la lama da un lato, la tsuba ed il manico dall’altro lato. Tralasciamo per il momento di parlare di altri accessori non sempre presenti su ogni spada. Questi oggetti di metallo, lavorati a volte in modo sontuoso ma piú spesso con uno stile minimalista ma raffinato tipico del gusto giapponese, possono avere un valore artistico notevole. Al punto che alcuni sono stati classificati addirittura come tesoro nazionale, e sono ricercati dai musei e dai collezionisti di tutto il mondo.

Alcuni tra i migliori artisti specializzati negli accessori per spada hanno col tempo affinato le loro capacità fino al punto di potersi cimentare con opere di maggiore impegno. All’inizio dell’epoca Meiji molte officine artigiane producevano ormai veri e propri gruppi scultorei, fusioni in bronzo con intarsi di vari metalli; opere di altissimo artigianato all’altezza di qualsiasi confronto e talvolta autentici capolavori. Occorre qui notare di sfuggita che quando si parla di grandi artigiani giapponesi ci si deve riferire spesso a piú artisti di diverse generazioni, che hanno trasmesso l’arte di padre in figlio continuando a firmare le loro opere sempre con lo stesso nome. Solo un esperto in questi casi è in grado di giudicare a quale generazione o artista attribuire l’opera, attraverso una sua accurata ed approfondita “lettura”. Queste officine, che erano allo stesso tempo scuole di arte, erano peró destinate a scomparire da lí a poco, per effetto dell’apertura verso il mondo dell’enclave nipponica; e ora vedremo come e perché.

Durante l’era Tokugawa era relativamente facile per gli artigiani di valore ricevere commesse: la politica dello shogunato era una variante tutta nipponica del sistema conosciuto dai latini come divide et impera, e teneva anche conto di un secondo concetto ben noto anche questo agli antichi romani: per mantenere il proprio dominio non è necessario avere grandi quantità di oro, è sufficiente poter comandare a chi l’oro ce l’ha. E’ per questo che i feudatari, specialmente quelli considerati infidi, erano obbligati a risiedere per gran parte del loro tempo nella capitale Edo (ci si riferisce spesso a questi tempi definendoli anche come Edo jidai) e a lasciarvi in permanenza alcuni membri della famiglia; questo li obbligava a dissipare gran parte dei loro averi in costosi viaggi e lussuose residenze. Decine di feudatari, accompagnati ognuno da centinaia di dignitari e samurai di scorta, abbigliati ed equipaggiati fastosamente per gareggiare in sfarzo con i cortei dei daimyo rivali, andavano e venivano in continuazione da Edo alle loro terre. Anche l’etichetta incoraggiava grandi investimenti in apparati di pompa e in armi lussuose e riccamente montate. Ci troviamo quindi nel periodo Edo di fronte ad una grande fioritura delle arti decorative e figurative, cosí come il rinascimento italiano poté sbocciare grazie alle generose commesse di papi, cardinali e monarchi locali.

All’avvento dell’era Meiji tutto questo era finito, e praticamente senza alcun preavviso. Infine la proibizione del porto delle due spade da parte dei samurai (haito rei, marzo 1876), oltre a causare la sanguinosa ribellione di Satsuma, rischiava di dare il colpo di grazia a interi settori di produzione artistica di grande livello. Era fortunatamente normale ed inevitabile che l’attrazione tra le due culture venute da cosí poco a contatto sfociasse soprattutto nella ricerca di manufatti artistici giapponesi da parte degli occidentali. La domanda di oggetti d’arte provenienti dall’estremo oriente lievitó enormemente dopo le esposizioni di Vienna (1873) e soprattutto di Norimberga (1885) in cui 99 artisti nipponici esposero 492 lavori. [3]

Naturalmente in condizioni di lavoro tanto diverse non era piú sostenibile il modello di piccola impresa a carattere familiare e a trasmissione ereditaria, difficilmente provvista delle strutture amministrative e della solidità economica necessarie per esporre e vendere oltreoceano. Nacquero cosí spontaneamente consorzi di artisti che decidevano di lavorare unendo le loro forze. In altri casi artisti di primo piano che avevano conosciuto il successo decisero di ingrandire la loro azienda assumendo altri artigiani.

Fu cosí che vennero fondate numerose ditte destinate alla produzione di oggetti d’arte di grande pregio, che fossero basate sulla metallurgia, sulla ceramica o altro ancora. Il governo non mancava di fare la sua parte, fondando nel 1876 su decisione del Ministero dell’Educazione la Scuola d’Arte di Tokyo, istituzionalizzando il sistema familiare di trasmissione dell’arte attraverso la bottega. A una di queste ditte nate nell’epoca Meiji, la Sanseisha fondata da Oshima Katsujiro, dobbiamo opere come quella firmata da Oshima in persona che ha prestato il suo nome, Il Drago Re del Mare, ad una mostra itinerante che ha attraversato l’Europa negli anni 90 soffermandosi nelle maggiori capitali, . E’ il caso di notare che a partire dal 1919 Oshima pose termine alla sua produzione artistica per divenire insegnante alla Scuola d’Arte di Tokyo, e piú tardi professore emerito.

Probabilmente un indizio anche questo del drammatico cambiamento. Nel campo della ceramica ad esempio era nata, probabilmente nella prima metà dell'800 a Nagoya, ad opera di Kaji Tsunekichi e sulla base dello studio delle ceramiche olandesi, l'arte dello shippo, il cloisonné giapponese. Sul finire del secolo Namikawa Sosuke introdusse una tecnica innovativa, che donò fama mondiale alla produzione nipponica e fece nascere decine di officine tra cui spiccò quella di Namikawa Yasuyuki in Kyoto (che non aveva alcun legame con Namikawa Sosuke).

Il successo fu estremamente tossico: in breve tempo il mercato venne sommerso da imitazioni a poco prezzo e nel 1915 un solo atelier - Andô - era rimasto operativo. Si presume che l'arte dello shippo si sia affermata prepotentemente e sia poi traumaticamente scomparsa nel breve giro di 35 anni.

Un collezionista occidentale (Ponting) in visita al maestro Kuroda nel suo atelier si vide proporre un opera smaltata al prezzo di 8£ e commentò che era di gran lunga superiore a quanto aveva visto ovunque fino ad allora. Il suo interlocutore commentò che si trattava di immondizia, su cui nessun conoscitore giapponese avebbe gettato un secondo sguardo e destinata ai clienti inglesi e francesi di bocca buona. Il manufatto alternativo che gli venne proposto, del prezzo di 30£, ad una prima occhiata sembrò a Posting dello stesso livello. Solo un esame attento gli permise di comprendere le numerose sottili differenze, dovute in minima parte ai costosi materiali impiegati e principalmente agli elaborati processi di fabbricazione e rifinitura.

Lo stesso Ponting visitando l'atelier di Namikawa Yasuyuki a Kyoto (la foto precedente venne scattata da lui in quell'occasione) riscontrò che i prezzi variavano da 5£ a 50£. Per raffronto un ufficiale di marina olandese, Van Lennep, acquistava nel 1897 a Yokohama una serie di bronzi, probabilmente di fattura mediocre, per cifre varianti dai 5$ ai 7 $.

A alto: koro opera di Hayashi Kodenji (1831-1915) in tecnica shippo (cloisonné, ossia con intarsi di vari materiali saldati ai bordi con fili di oro e argento). Secondo la testimonianza dell'artefice furono necessari sei mesi di lavoro e 51 strati di smalto. L'introduzione della tecnica di lavorazione su fondo nero viene attribuita a Namikawa Yasuyuki.

 

[2] Per un approfondimento, vedi Kapp, Kapp e Yoshihara, The Craft of the Japanese Sword, Kodansha, in lingua inglese. Non paragonabile ma utile per una breve panoramica sul mondo della spada uno dei pochissimi testi in lingua italiana oggi reperibili: Giuseppe Fino, La Spada Giapponese, edizioni Sannô-Kai, che ripubblica anche il primo testo apparso in lingua italiana sull’argomento, Il culto della Spada in Giappone, apparso nel 1918 a firma di Pietro Silva Rivetta.