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L'esposizione nella vetrina di un antiquario del Grand Sablon di Bruxelles di un bronzo giapponese di stile miyao fa tornare alla mente l'esistenza di questo genere artistico, relativamente poco conosciuto, e che ha avuto vita breve e tormentata quanto interessante. L'articolo originale, risalente all'inizio degli anni 2000 e concepito dopo una esposizione dedicata ai bronzi del tardo Meiji, è stato per l'occasione rivisto ed aggiornato

 

Il Meiji jidai (Era del regno illuminato) è un periodo di trapasso. Arriva dopo la lunga era Tokugawa, oltre due secoli in cui il Giappone ha goduto di un periodo relativamente tranquillo di pace turbata solo a tratti da episodi a carattere locale; ma ne ha pagato il prezzo in termini di immobilismo culturale e di isolamento dal resto del mondo, avendo interdetto l'accesso agli stranieri.

Il Meiji jidai (1868-1912) precede il breve Taishô jidai (Era della grande giustizia, 1912-1926) e poi lo Showa jidai (Era della pace illuminata): un periodo  terminato nel 1989 e caratterizzato verso l’interno dall’ascesa al potere dell’imperatore Hirohito, verso l’esterno da una politica aggressiva ed espansionistica pagata duramente con la sconfitta nella seconda guerra  mondiale da cui il Giappone si è economicamente ripreso in tempi abbastanza brevi - come del resto le altre due nazioni sconfitte, la Germania e l’Italia -  mentre politicamente e psicologicamente ne porta ancora i segni.

Abbiamo già detto nell’articolo dedicato alla fortunata avventura del commodoro Perry in Giappone come l’apertura verso il mondo “civile” sia stata non solo sofferta ma addirittura imposta con le armi e  abbia gettato la nazione in un periodo di torbidi (Bakumatsu ran), durati fortunamente poco ma intensi e drammatici.

Ma fu anche un momento di profondi mutamenti sociali e culturali di cui non tutti erano coscienti e verso cui non tutti erano consezienti, protrattisi per decenni. La diversità di cultura - e anche di approccio alla cultura – tra i due mondi era inevitabile causasse da una parte - in occidente - un irresistibile senso di attrazione verso questa nuova e sconosciuta cultura millenaria, dall’altra - in oriente - un’attrazione altrettanto forte e forse fatale verso i nuovi modelli culturali.

E’ stato studiato in modo abbastanza approfondito il primo fenomeno, diffusosi in occidente nella seconda metà dell’ottocento e conosciuto con il nome di Giapponismo. Basti citare quanto lo studioso d'arte S. Wichmann: “Il termine Giapponismo è nato nel diciannovesimo secolo, intorno agli anni sessanta, quando le grandi esposizioni mondiali, in voga a quell’epoca, avevano alimentato interesse e curiosità per il mondo e la cultura orientali. Soprattutto dal contatto con la cultura giapponese e cinese scaturirono occasioni di stimolo e di confronto, che contribuirono in modo determinante allo sviluppo dell’arte moderna. Il Giappone influenzò l’arte e gli artisti occidentali attraverso la sua produzione di lacche, ceramiche, porcellane, dipinti su seta, la minuziosa tecnica della tessitura e della decorazione su spade, la silografia e la calligrafia, ma anche attraverso soggetti che rispecchiano usi e tradizioni quotidiani: chimono, ventagli, ombrelli di carta. Una notevolissima influenza ebbe anche il Giappone sull’architettura degli edifici e dei giardini”  [1]

Sono certamente meno conosciuti e meno studiati gli impatti avuti dal contatto con la civiltà occidentale all’interno del mondo culturale ed artistico giapponese, strappato di colpo dall’atmosfera protetta in cui viveva da oltre due secoli. Abbiamo infatti parlato nell'articolo citato in precedenza dei primi contatti e delle prime esportazioni di manufatti dal Giappone, che dovevano in un tempo tutto sommato incredibilmente breve dare origine al fenomeno del giapponismo. Viene fatto risalire dagli esperti alle grandi esposizioni tenute a partire dal 1860 circa (ricordiamo che la spedizione Perry avvenne nel 1854). E’ ora il momento di parlare, attraverso un caso tipico limitato ma significativo che prenderemo ad esempio, del trauma culturale cui furono sottoposti artigiani ed artisti nipponici, sicuramente ancor più o perlomeno ancora prima del popolo giapponese nel suo complesso.

 

[1] Siegfried Wichmann: Giapponismo – Oriente Europa: Contatti nell’arte del XIX e XX secolo; Gruppo Editoriale Fabbri

 


E’ noto pressoché a tutti e particolarmente ai cultori di arti marziali ma anche ad un crescente numero di appassionati che l’arte della fabbricazione della spada ha raggiunto in Giappone vertici altrove sconosciuti, senza voler nulla togliere alle lame di Damasco o a quelle di Toledo, citate qui solamente come esempio di altre celebri manifatture. Non è ora il momento di analizzarne le cause in profondità, basteranno alcuni accenni, per chi vuole sapere qualcosa di più suggeriamo la lettura di questo articolo. La presenza in loco di giacimenti di metallo ferroso di grande qualità ha favorito il raggruppamento di numerose officine artigianali nelle aree che corrispondono al gokaden, il gruppo delle cinque scuole classiche di fabbri spadai: Yamato, Yamashiro, Soshu (nota anche come Sagami), Mino e la piú famosa di tutte, Bizen (per la loro ubicazione vedere qui). Le tecniche di preparazione della lama erano certamente sofisticate ma paragonabili per molti versi a quelle della metallurgia occidentale. Il vero salto di qualità si ha peró nel processo di tempera differenziata della lama che le conferisce un caratteristico disegno lungo il filo. Completano il quadro la forma stessa della lama, armoniosamente curva e quindi piú resistente agli impatti rispetto ad una completamente dritta, il metodo di assemblaggio comprendente diversi elementi fissati elasticamente come la tsuba – la guardia – e la tsuka – il manico – che contribuiscono ad ammortizzare i traumi che ogni lama deve subire durante i combattimenti.

Alla fabbricazione di una spada concorrono diversi maestri artigiani, almeno quattro per le diversi fasi. Dopo il processo di  battitura, forgiatura e tempra la lama viene affidata ad un secondo artigiano che  provvede alla lucidatura della stessa, mentre un terzo cura la preparazione ed installazione dello habaki, la guarnizione in lega di rame, argento od oro che serve a impegnare la lama nell’imboccatura del fodero senza che si muova, ed un falegname specializzato costruisce infine la shirasaya, un fodero in legno di magnolia destinato a conservare la spada fino al momento in cui l’acquirente non deciderà a suo gusto come e da chi far preparare la fornitura da guerra, il koshirae. [2]

Il koshirae di tipo piú recente e comune è quello detto buke zukuri, composto da un fodero di legno laccato, dal manico e da una serie di componenti o accessori in metallo che vengono definiti kodogu: vi appartengono la tsuba, una robusta guardia di forma generalmente ovale o quadrilobata, il fuchi ed il kashira che chiudono le estremità del manico, due borchie dette menuki che lo decorano ai lati, due spessori chiamati seppa interposti tra la tsuba e la lama da un lato, la tsuba ed il manico dall’altro lato. Tralasciamo per il momento di parlare di altri accessori non sempre presenti su ogni spada. Questi oggetti di metallo, lavorati a volte in modo sontuoso ma piú spesso con uno stile minimalista ma raffinato tipico del gusto giapponese, possono avere un valore artistico notevole. Al punto che alcuni sono stati classificati addirittura come tesoro nazionale, e sono ricercati dai musei e dai collezionisti di tutto il mondo.

Alcuni tra i migliori artisti specializzati negli accessori per spada hanno col tempo affinato le loro capacità fino al punto di potersi cimentare con opere di maggiore impegno. All’inizio dell’epoca Meiji molte officine artigiane producevano ormai veri e propri gruppi scultorei, fusioni in bronzo con intarsi di vari metalli; opere di altissimo artigianato all’altezza di qualsiasi confronto e talvolta autentici capolavori. Occorre qui notare di sfuggita che quando si parla di grandi artigiani giapponesi ci si deve riferire spesso a piú artisti di diverse generazioni, che hanno trasmesso l’arte di padre in figlio continuando a firmare le loro opere sempre con lo stesso nome. Solo un esperto in questi casi è in grado di giudicare a quale generazione o artista attribuire l’opera, attraverso una sua accurata ed approfondita “lettura”. Queste officine, che erano allo stesso tempo scuole di arte, erano peró destinate a scomparire da lí a poco, per effetto dell’apertura verso il mondo dell’enclave nipponica; e ora vedremo come e perché.

Durante l’era Tokugawa era relativamente facile per gli artigiani di valore ricevere commesse: la politica dello shogunato era una variante tutta nipponica del sistema conosciuto dai latini come divide et impera, e teneva anche conto di un secondo concetto ben noto anche questo agli antichi romani: per mantenere il proprio dominio non è necessario avere grandi quantità di oro, è sufficiente poter comandare a chi l’oro ce l’ha. E’ per questo che i feudatari, specialmente quelli considerati infidi, erano obbligati a risiedere per gran parte del loro tempo nella capitale Edo (ci si riferisce spesso a questi tempi definendoli anche come Edo jidai) e a lasciarvi in permanenza alcuni membri della famiglia; questo li obbligava a dissipare gran parte dei loro averi in costosi viaggi e lussuose residenze. Decine di feudatari, accompagnati ognuno da centinaia di dignitari e samurai di scorta, abbigliati ed equipaggiati fastosamente per gareggiare in sfarzo con i cortei dei daimyo rivali, andavano e venivano in continuazione da Edo alle loro terre. Anche l’etichetta incoraggiava grandi investimenti in apparati di pompa e in armi lussuose e riccamente montate. Ci troviamo quindi nel periodo Edo di fronte ad una grande fioritura delle arti decorative e figurative, cosí come il rinascimento italiano poté sbocciare grazie alle generose commesse di papi, cardinali e monarchi locali.

All’avvento dell’era Meiji tutto questo era finito, e praticamente senza alcun preavviso. Infine la proibizione del porto delle due spade da parte dei samurai (haito rei, marzo 1876), oltre a causare la sanguinosa ribellione di Satsuma, rischiava di dare il colpo di grazia a interi settori di produzione artistica di grande livello. Era fortunatamente normale ed inevitabile che l’attrazione tra le due culture venute da cosí poco a contatto sfociasse soprattutto nella ricerca di manufatti artistici giapponesi da parte degli occidentali. La domanda di oggetti d’arte provenienti dall’estremo oriente lievitó enormemente dopo le esposizioni di Vienna (1873) e soprattutto di Norimberga (1885) in cui 99 artisti nipponici esposero 492 lavori. [3]

Naturalmente in condizioni di lavoro tanto diverse non era piú sostenibile il modello di piccola impresa a carattere familiare e a trasmissione ereditaria, difficilmente provvista delle strutture amministrative e della solidità economica necessarie per esporre e vendere oltreoceano. Nacquero cosí spontaneamente consorzi di artisti che decidevano di lavorare unendo le loro forze. In altri casi artisti di primo piano che avevano conosciuto il successo decisero di ingrandire la loro azienda assumendo altri artigiani.

Fu cosí che vennero fondate numerose ditte destinate alla produzione di oggetti d’arte di grande pregio, che fossero basate sulla metallurgia, sulla ceramica o altro ancora. Il governo non mancava di fare la sua parte, fondando nel 1876 su decisione del Ministero dell’Educazione la Scuola d’Arte di Tokyo, istituzionalizzando il sistema familiare di trasmissione dell’arte attraverso la bottega. A una di queste ditte nate nell’epoca Meiji, la Sanseisha fondata da Oshima Katsujiro, dobbiamo opere come quella firmata da Oshima in persona che ha prestato il suo nome, Il Drago Re del Mare, ad una mostra itinerante che ha attraversato l’Europa negli anni 90 soffermandosi nelle maggiori capitali, . E’ il caso di notare che a partire dal 1919 Oshima pose termine alla sua produzione artistica per divenire insegnante alla Scuola d’Arte di Tokyo, e piú tardi professore emerito.

Probabilmente un indizio anche questo del drammatico cambiamento. Nel campo della ceramica ad esempio era nata, probabilmente nella prima metà dell'800 a Nagoya, ad opera di Kaji Tsunekichi e sulla base dello studio delle ceramiche olandesi, l'arte dello shippo, il cloisonné giapponese. Sul finire del secolo Namikawa Sosuke introdusse una tecnica innovativa, che donò fama mondiale alla produzione nipponica e fece nascere decine di officine tra cui spiccò quella di Namikawa Yasuyuki in Kyoto (che non aveva alcun legame con Namikawa Sosuke).

Il successo fu estremamente tossico: in breve tempo il mercato venne sommerso da imitazioni a poco prezzo e nel 1915 un solo atelier - Andô - era rimasto operativo. Si presume che l'arte dello shippo si sia affermata prepotentemente e sia poi traumaticamente scomparsa nel breve giro di 35 anni.

Un collezionista occidentale (Ponting) in visita al maestro Kuroda nel suo atelier si vide proporre un opera smaltata al prezzo di 8£ e commentò che era di gran lunga superiore a quanto aveva visto ovunque fino ad allora. Il suo interlocutore commentò che si trattava di immondizia, su cui nessun conoscitore giapponese avebbe gettato un secondo sguardo e destinata ai clienti inglesi e francesi di bocca buona. Il manufatto alternativo che gli venne proposto, del prezzo di 30£, ad una prima occhiata sembrò a Posting dello stesso livello. Solo un esame attento gli permise di comprendere le numerose sottili differenze, dovute in minima parte ai costosi materiali impiegati e principalmente agli elaborati processi di fabbricazione e rifinitura.

Lo stesso Ponting visitando l'atelier di Namikawa Yasuyuki a Kyoto (la foto precedente venne scattata da lui in quell'occasione) riscontrò che i prezzi variavano da 5£ a 50£. Per raffronto un ufficiale di marina olandese, Van Lennep, acquistava nel 1897 a Yokohama una serie di bronzi, probabilmente di fattura mediocre, per cifre varianti dai 5$ ai 7 $.

A alto: koro opera di Hayashi Kodenji (1831-1915) in tecnica shippo (cloisonné, ossia con intarsi di vari materiali saldati ai bordi con fili di oro e argento). Secondo la testimonianza dell'artefice furono necessari sei mesi di lavoro e 51 strati di smalto. L'introduzione della tecnica di lavorazione su fondo nero viene attribuita a Namikawa Yasuyuki.

 

[2] Per un approfondimento, vedi Kapp, Kapp e Yoshihara, The Craft of the Japanese Sword, Kodansha, in lingua inglese. Non paragonabile ma utile per una breve panoramica sul mondo della spada uno dei pochissimi testi in lingua italiana oggi reperibili: Giuseppe Fino, La Spada Giapponese, edizioni Sannô-Kai, che ripubblica anche il primo testo apparso in lingua italiana sull’argomento, Il culto della Spada in Giappone, apparso nel 1918 a firma di Pietro Silva Rivetta.  


Il Drago Re del mare. Fusione in bronzo ad opera del gruppo Sanseisha. Due differenti iscrizioni riportano: la prima Opera di Sansei-sha in Tokyo ed esibito alla Seconda Esposizione dell’Industria Domestica, la seconda Iniziato ai primi del nono mese Meiji 12 (settembre 1879) e terminato nel primo mese Meiji 14 (gennaio 1881). Artista Oshima Joun, assistito da Takamura Koun e Hasegawa Siu’un. Oshima Joun era il nome d’arte del fondatore della ditta Sanseisha, Oshima Katsujiro.

Si tratta di una opera di grande pregio in cui viene rappresentato l’ambasciatore di Ryujin, il mitico dragone re del mare, che assistito  da una figura marina fantastica ma dall’aspetto quasi umano, consegna il Gioiello della Mare al nobile Takenouchi no Sukune, ministro dell’imperatrice Jingô.

Jingô (o Jingu) fu una figura leggendaria vissuta nel III secolo che resse le sorti dell'impero dopo la morte del consorte, l'imperatore Chuhai, e guidò di persona le armate nipponiche alla conquista della Corea.

Il gruppo (alto 135 centimetri compresa la base) è talmente ricco di dettaglio da presentare una elevatissima difficoltà tecnica sia per la fusione che per l'assemblaggio delle varie parti.Quello del dignitario è il costume tipico dei kuge, uomini di corte, ma indossa la parte superiore di una armatura ed impugna una naginata, oltre a portare al fianco il chokuto (la lunga e dritta spada arcaica) ed il tantô (pugnale). Il vento marino scuote suggestivamente le vesti dei personaggi.

Lo scoglio su cui posano i personaggi  è reso con estremo gusto del dettaglio e brulica di vite marine che sfuggono ad un esame non ravvicinato dell’opera; nascosti negli anfratti ed invisibili all’osservatore superficiale, e purtroppo non fotografabili nelle precarie condizioni di luce in cui vengono tenute per non deteriorarle le opere d’arte esposte nei musei, ci sono granchi, molluschi, tartarughe.

Le incrostazioni degli scogli vengono realisticamente rese con agemine in lega, ma le sottili sfumature cromatiche apprezzabili alla visione diretta vengono appiattite nella riproduzione tipografica qui mostrata.

Non c’è da stupirsi che quest’opera abbia richiesto per la sua realizzazione oltre un anno di lavoro da parte di 3 artisti oltre a un numero non precisabile di collaboratori e tecnici. Anche gli abbigliamenti dei personaggi sono finemente trattati con intarsi di differenti metalli. Si ritiene che il famoso artista Takamura Koun, figura chiave nel passaggio dalle raffigurazioni tradizionali dell’epoca Edo al realismo Meiji, abbia preparato il modello in legno su cui lavoró Oshima Joun.

Molte opere di questo periodo sono firmate da artisti conosciuti per una loro precedente attività nelle forniture delle spade, e questo è il segno incontestabile di una loro conversione alla mutate condizioni del mercato.

 

 

Si fa strada nello stesso tempo, per venire incontro ai gusti occidentali, una maggiore ricerca del realismo, che porta naturalmente ad una maggiore diffusione della già realistica scuola di Mito a scapito delle piú conservative scuole di Kyoto e di Tokyo. Ma la parte piú sorprendente, e per certi versi amara, della storia rimane ancora da narrare.

Gli artigiani attivi nel periodo Edo erano abituati a lavorare per dare il meglio di se, i committenti infatti questo volevano e il costo finale dell’opera non era importante per il committente, che cercava il meglio e non badava a spese. Il panorama cambió bruscamente quando gli artisti dovettero lavorare a condizioni di mercato: la domanda si rivolgeva ormai verso un prodotto, anche di qualità, che costasse sempre meno. E in quantità sempre maggiori.

Apparvero sul mercato in tempo molto breve delle opere di aspetto gradevole e dalla rifinitura apparentemente impeccabile, ma costruite con procedure completamente differenti da quelle adottate per i prodotti artigianali e coinvolgendo un numero minore di artisti e operai. Seguendo un principio introdotto, ma con moderazione, già dagli artisti precedenti gli artigiani della  “decadenza” iniziarono inoltre a predisporre le loro opere per una riproduzione in serie; per le procedure di rifinitura e colorazione vennero abbandonati le agemine e gli intarsi di vari metalli a favore di economici procedimenti di doratura o galvanizzazione. La fonderia Sanseisha non sopravvisse a lungo e dovette chiudere i battenti dopo avere tentato perfino, per sopravvivere, di contraffare i manufatti mettendovi la firma di Murata Seimin (1769-1837) a giustificare il loro prezzo elevato.  Ma invano:

La domanda straniera mostrava cosi scarsa discriminazione che gli esperti, trovando impossibile ottenere una remunerazione adeguata per i loro lavori di classe elevata, furono obbligati ad abbandonare il campo o abbassare i loro standard al livello del gusto comune”. [4]

Tra le piú note ditte specializzate nella produzione in piccola scala di opere di seconda scelta, forse addirittura la piú nota, è la Miyao, che si affermó rapidamente sul mercato. Al punto che ancora oggi, nel gergo degli antiquari questo genere di manufatti viene chiamato semplicemente miyao, qualunque sia la effettiva provenienza.

 

 

 [3] Oliver Impey e Malcom Fairley, The dragon king of the sea, Japanese decorative art of the Meiji period, Ashmolean Museum Oxford, 1991. Da questo testo,  che rappresenta il catalogo della mostra di cui abbiamo parlato, provengono anche alcune illustrazioni dell’articolo.

 [4] Brinkley, come riporta il già citato The dragon king of the sea.


Il leggendario guerriero Minamoto no Yoshitsune.  Fusione in bronzo con dorature e patinature, occhi riportati in lega di shakudo (una lega di oro e rame dalla sorprendente patina nera). L’opera è firmata Dai Niho Tokyo Miyao Sei, Katsutoshi saku. Altezza 126 centimetri, risalente al 1895 circa.

La ditta Miyao di Yokohama venne fondata da Miyao Eisuke e si fece conoscere a partire dal 1881 partecipando alle varie esposizioni dell’epoca. Il Katsutoshi che ha firmato quest’opera, una delle poche firmate che siano uscite dall’officina Miyao, potrebbe essere Katsutoshi Nakajima o Katsutoshi Mizuno; di entrambi si sa che erano attivi in quell’epoca.

Minamoto no Yoshitsune è forse il personaggio piú conosciuto dell’epopea feudale del Giappone. Appartenente ad una delle due famiglie in lotta per lo shogunato (Taira e Minamoto, note letterariamente come Heike e Genji), sopravvvisse allo sterminio del suo clan e solo dopo grandi peripezie riuscí a ricongiungersi con l’altro superstite, il fratellastro Yorimoto.

Dopo aver dato innumerevoli prove di coraggio e di maestría come generale e aver guidato il clan Minamoto alla vittoria contro i Taira (battaglia navale di Dannoura, 24 marzo 1185) , vittima della gelosia del fratello dovette fuggire assieme ad un pugno di seguaci. Quando fu infine raggiunto e l’altro eroe Musashibo Benkei, fedelmente al suo servizio dopo esserne stato vinto in un leggendario duello, si immoló trattenendo i nemici per lasciargli il tempo di compiere seppuku sfuggendo alla cattura. Al momento della sua morte aveva circa 28 anni.

L'opera di esordio di Akira Kurosawa nel genere jidai vero e proprio, Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre, narra uno degli episodi della saga del fuggiasco Yoshitsune.

Rimarrebbe ancora molto da dire a proposito di questa epoca di trasformazioni e di rivoluzioni, non sempre verso il meglio. Ma lo spazio non lo consente. Sarà forse interessante esaminare in futuro quali sistemi abbia adottato il governo giapponese per evitare la perdita totale delle proprie radici culturali e della propria produzione artistica. Mi riferisco in particolar modo alla istituzione, all’inizio del secolo XX, dei “tesori nazionali viventi”. Personaggi riconosciuti degni di tutela da parte dello stato per le loro capacità in una qualunque delle arti tradizionali giapponesi, sottratti alle logiche di mercato o perlomeno in grado di non esserne schiavi e liberi di prosguire la loro ricerca senza condizionamenti. E ai severi protocolli imposti dallo stato per la produzione dei manufatti culturali, come ad esempio le spade.

Ma adesso getteremo un breve sguardo a volo d’uccello sul dopo. A distanza di circa 100 anni i prodotti della Miyao continuano ad essere tra i piú ricercati sia dai collezionisti che dai musei.

Potete osservare nella illustrazione a lato una coppia di samurai in combattimento tra di loro, firmati Miyao Zo. Il pezzo maggiore misura 64 centimetri di altezza. Sono andati all’asta presso Sotheby’s a Londra il 19 giugno 2001, con una valutazione compresa tra i 50.000 ed i 60.000 dollari.

E non è un’eccezione: un incensiere alto 84 centimetri è stato aggiudicato in Germania nel novembre 1999 per 195.000 marchi (circa 200 milioni delle nostre lire oramai a fine carriera, o 100.000€).

E’ evidente quindi che i prodotti della prima “industrializzazione” culturale giapponese, pur se nettamente inferiori a quelli che li avevano preceduti, sono comunque oggetti di grande valore.

 

 

 

Al punto che anche essi, per una bizzarra legge del contrappasso, sia perché prodotti in numero insufficiente a  soddisfare la domanda sempre crescente dei collezionisti, sia perché proposti a prezzi irrangiungibili dalle tasche dei comuni mortali, hanno dato vita a loro volta a delle imitazioni, a prodotti di terza generazione che ormai di creativo e di artistico non hanno piú nulla se non la vuota forma esteriore.

La scultura che vedete ora, di provenienza della manifattura Miyao e firmata Sogen saku, è andata all’asta presso la galleria Asiatika di Vienna nell’ottobre del 1995, con una valutazione tra 7.000 e 14.00 dollari.

Rappresenta un principe in atto di tirare l’arco (la freccia e la corda sono una aggiunta di restauro). Indossa una mezza armatura decorata con il mon di famiglia.

Come di consueto nelle opere Miyao gli effetti di coloritura non sono dovuti all’uso di metalli differenti ma a sapienti e suggestive patinature.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma ecco infatti un manufatto proposto sul sito d’aste on line eBay nei primi giorni dell’ottobre 2001.

E’ chiaramente una fusione ricavata in qualche modo dall’opera precedente. Non un calco, piú semplicemente una brutta copia eseguita sulla base di foto o disegni, e senza alcun tipo di rifinitura che non sia una generica patinatura “antica”.

Risale probabilmente agli anni trenta del secolo scorso, epoca in cui si presume  anche la Miyao avesse cessato l’attività (non abbiamo notizie in proposito) non potendo reggere la concorrenza di queste nuove imitazioni prodotte in serie.

Occorre dire che il pezzo in questione veniva presentato come una rara scultura firmata (vedere il particolare).

Ma in realtà non si tratta nemmeno - come è facile vedere - di un punzone col marchio di fabbrica ma semplicemente della fusione vera e propria; non è tantomeno una vera firma incisa a mano.

Sono stati offerti 230 dollari ed è rimasto invenduto. Ove si conferma che queste micidiali operazioni commerciali oltre ad uccidere il prodotto buono finiscono poi per uccidere se stesse.

Il bronzo esposto al Sablon, che ha suggerito la ripubblicazione di questo articolo, pur essendo indiscutibilmente già attribuibile al periodo della decadenza, ha una ricchezza di dettagli ed una complessità esecutiva che lo fanno ritenere comunque una manufatto di notevole interesse.

Il raffronto con le opere precedenti dovrebbe però lasciar facilmente comprendere come sia indiscutibilmente manieristico, e probabilmente copia di opera più celebre e più antica.

Difficile trarre una morale da quanto sopra.

E in ogni caso non potremmo essere noi occidentali a trarla: con la nostra mancata comprensione del vero valore di queste opere d’arte, che andavano valutate con i metri di giudizio della stessa cultura che le aveva prodotte, abbiamo irrimediabilmente ucciso una intera generazione di artisti senza permettere nemmeno che ne sopravvivesse erede alcuno.

O forse più semplicemente (se si trattasse di un problema semplice) il veleno mortale è stato inoculato dal desiderio non frenabile del possesso materiale di queste opere d'arte, che ha indotto alla fabbricazione massiccia di falsi grossolani ed imitazioni servili.