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Ritratto del commodoro Matthew Perry, eseguito nel 1854 da un artista giapponese rimasto sconosciuto

Peruri zô Kita-Amerika jimbutsu

(Ritratto di Perry, un Nord Americano)


Esistono diverse copie di questa stampa su legno.

Quella qui presentata venne acquisita alla collezione Perry nel 1961.

 

Poco dopo la metà del secolo XIX, una nave mercantile americana naufragò presso le coste del Giappone, paese che da secoli (1633, con l'editto sakoku di Iemitsu Tokugawa) aveva decretato il bando agli stranieri tranne per l’enclave dell'isola di Deshima a Nagasaki, riservata ai mercanti olandesi e cinesi.

Era prevista la pena di morte per ogni straniero che violasse il blocco e nonostante la causa di forza maggiore l’equipaggio della nave venne messo agli arresti dalle autorità locali, condannato a morte e giustiziato.

Le conseguenze pratiche di quest’atto furono praticamente immediate ma a distanza di secoli sono ancora ben lungi dall’essere pienamente concluse, né possiamo dire di conoscerle appieno, o di essere in grado perlomeno di valutarle in maniera definitiva

Durante il lungo e volontario isolamento iniziato agli albori del XVII secolo il Giappone aveva conosciuto un periodo di pace e prosperità che non aveva avuto l’eguale da molto tempo: il periodo della cosiddetta pax Tokugawa, meglio conosciuto in Giappone come periodo di Edo. Un'epoca veramente d’oro, in cui la cultura giapponese fiorì in ogni sua manifestazione, ma poggiata su basi estremamente fragili che si volevano preservare da ogni influenza esterna, limitando al massimo e infine addirittura proibendo ogni contatto con l’esterno.

Nel luglio del 1853 l’ammiraglio Matthew Perry gettava le ancore nella baia di Uraga, al comando di quattro navi da guerra della marina statunitense, chiedendo formalmente l’apertura dei porti del Giappone, la stesura di accordi per i soccorsi in caso di naufragio e la stipula di trattati commerciali.

Missioni analoghe non avevano ricevuto alcuna risposta nel 1804 (guidata dall’ambasciatore russo Rezanov) nel 1846 e nel 1848 (al comando dell’ammiraglio statunitense James Bidle). Ma i tempi erano ormai definitivamente cambiati.

La scelta del luogo dello sbarco indica lo scarso livello delle conoscenze occidentali dell'epoca sul Giappone: Uraga si trova all'interno della grande baia che porta ad Edo (attualmente Tokyo), capitale amministrativa e residenza dello shogûn, che possiamo considerare equivalente grossomodo ad un primo ministro ma era una carica ereditaria appannaggio fin dal 1600 della famiglia Tokugawa. Ma la vera capitale del Giappone era ancora Kyoto, ove risiedeva la suprema autorità: il tennô, l'imperatore. La missione Perry presumibilmente non era in grado di valutare appieno questa situazione, non poteva quindi prevedere cosa sarebbe successo negli anni seguenti.

Eppure Perry aveva cercato di documentarsi scrupolosamente, intervistando di persona lo studioso Von Siebold che aveva soggiornato a lungo a Deshima ed esaminando tutta la documentazione allora disponibile sul Giappone.

La lettera del presidente Fillmore alle autorità giapponesi, di cui era latore Perry, non venne accettata: le 4 navi da guerra della squadra, il Mississippi, il Plimouth, il Susquehanna ed il Saratoga, iniziarono allora un pesante bombardamento della costa. La missiva venne infine ritirata, in cambio della cessazione delle ostilità, e Perry ripartì con l'intesa di ritornare a tempo debito per avere una risposta.

Per la prima volta nella storia giapponese fu chiamato a decidere le linee di condotta di fronte alle richieste del governo degli Stati Uniti un largo comitato esteso a tutte le personalità del paese. Che si era però diviso irreparabilmente in due fazioni appostate su posizioni inconciliabili. I tradizionalisti (jôi) chiedevano di respingere gli stranieri e restaurare il potere imperiale di Kyoto, ridotto ormai da quasi 1000 anni a funzioni quasi puramente simboliche. I riformatori continuavano a sostenere il regime Tokugawa di Edo ed erano favorevoli all’apertura del Giappone al mondo esterno.