Luigi Barzini
Avventure in Oriente
Mondadori, 1959

Luigi Barzini (1874-1947) viene associato facilmente alla immagine di un austero signore di altri tempi. Iniziò però le sue avventure di inviato speciale del Corriere della sera a soli 27 anni, e con uno spregiudicatezza tutta giovanile che gli guadagnò immediatamente il favore incondizionato del pubblico, al punto che gli strilloni - mestiere ormai dimenticato per sempre - facevano affari d'oro quando potevano strillare per annunciare sulla pubblica via che all'interno del Corriere c'era un nuovo articolo di Barzini. Un importante incremento delle vendite era assicurato. 

Le ragioni di questo improvviso e imprevisto successo vanno probabilmente ricercate nella giovanile incoscienza di Barzini, che gli permise di stravolgere i canoni della cronaca giornalistica dell'epoca. Non c'è in lui alcun accenno di retorica, non ci sono concessioni ad abbellimenti della realtà: la verità nuda e cruda. Barzini rende omaggio ai grandi eventi e ai grandi personaggi, ma soprattutto denuncia le tragedie, gli eccidi, gli assassini e i loro complici, i profittatori e i corrotti o semplicemente gli incapaci.

Questo volume, di mole imponente (570 pagine) raccoglie i suoi reportage in estremo Oriente in occasione di tre diversi importanti eventi. La cosidetta rivolta dei Boxers in Cina (1900-1901), la guerra russo-giapponese (1904-1905) e la corsa Parigi-Pechino (1907) cui Barzini partecipò assieme al principe Scipione Borghese a bordo di una automobile Itala. Il libro è preceduto da una prefazione di Luigi Barzini junior (1908-1984) anche lui giornalista di vaglia, che ci fa conoscere meglio la personalità del padre aiutandoci a comprenderne le motivazioni.

Barzini aveva iniziato a lavorare come giornalista da appena un anno quando venne inviato a Pechino, e le sue prime cronache suscitarono perplessità oltre che interesse, e perfino una interrogazione parlamentare: non nascondeva nulla delle brutalità della guerra e del comportamento vergognoso e a tratti criminale delle truppe "salvatrici" accorse in soccorso delle delegazioni straniere assediate dai rivoltosi. Non perse tuttavia il suo umorismo, che affiora anche nelle pagine più drammatiche, né la sua fiducia nel genere umano.

Il suo primo incontro ravvicinato con il Giappone appare proprio nelle ultime pagine della cronaca dei fatti di Pechino, quando si presentano alla sua dimora degli ufficiali giapponesi, che hanno l'ingrato compito di tentare - in incognito - l'acquisto della casa dove credono sia celato un tesoro lasciato dal governo cinese in fuga. Il loro arrivo viene annunciato a Barzini dall'indispensabile servitore Wan, infedele, fannullone, imbroglione e impagabilmente  simpatico.

«Pa Lao Ye [nome cinese di Barzini], seccatoli giapponesi!»

Come sapete, Wan riteneva che "seccatori" e "visita" significassero la stessa cosa, e non aveva sempre torto.

«Giapponesi? Soldati?» chiesi.

Prima che Wan finisse una di quelle complicate risposte che egli sapeva così bene mettere insieme per esprimere le cose più semplici, tre giapponesi entrarono nella corte.

Vestivano abiti borghesi ed europei, col cattivo gusto che soltanto i giapponesi riescono ad avere quando adottano i costumi dell'occidente. Portavano, come ogni giapponese che si rispetti, i calzoni dentro le scarpe, e le calze tirate sopra i calzoni. E' la moda invernale dei progressisti nipponici, i quali si sono accorti, come noi del resto, che il freddo entra dal basso dei calzoni. Soltanto, noi non abbiamo trovato il rimedio.

Barzini non è ancora penetrato nei misteri della cultura orientale. E' il saggio Wan che gli svelerà, dopo, l'identità dei visitatori.

«Vecchio Signore Pa, sono militari giapponesi.»

«Come lo sai?»

«Hanno baffi. Giapponesi non militari tutti senza baffi.»

Ma la parte del libro che a noi interessa maggiormente è, com'è ovvio, quella che riporta le cronache dal fronte russo-giapponese. La prima rivincita nipponica contro la forzata apertura delle frontiere del Giappone alle potenze occidentali, pagata a caro prezzo con un lungo periodo di guerre civili e con il completo stravolgimento di una società che aveva fatto della stabilità il suo credo.

Tralasciando la seconda parte, dedicata a lungo viaggio di ritorno per terra dalla Cina, e un po' a malincuore l'ultima dedicata alla corsa Parigi - Pechino, diremo qualcosa di più sulla terza parte: quella della guerra russo - giapponese. Inizia, non meravigliatevi, con una sezione contenente gli articoli inviati dalla Russia nel corso di circa tre mesi, per rendersi conto di persona della percentuale di possibilità che divampasse finalmente quella guerra che si attendeva da tempo: la prima guerra in cui un paese colonialista veniva affrontato a viso aperto, armi in pugno, da uno dei paesi che venivano considerati solamente prede.

La breve introduzione di questa brevissima sezione, sicuramente uscita dalla penna di Barzini junior, contiene un passo interessante e d'attualità anche ora: «Le sue lettere sono tuttora interessanti per due ragioni: egli descrive la Russia prima della Rivoluzione e matura per la Rivoluzione (e, in parte, giustifica ciò che avvenne negli anni successivi), e dimostra nello stesso tempo come il mondo russo, passando dall'autocrazia degli zar a quella del Presidium, ex Politburò, sia rimasto immutato nella sua struttura e nei suoi fini.» Suona particolarmente interessante questaltra osservazione di Barzini senior risalente, non dimentichiamolo, al 1903:

«Purché non tocchino l'autocrazia e la religione le teorie hanno spesso libero il passo. Per questo, mentre le opere di Darwin, di Renan, di Spencer non hanno superato l'esame della censura russa, il Capitale di Carlo Marx è stato giudicato innocuo, e ammesso. Le teorie non fanno male a nessuno e occupano le menti. Ma senza l'esperimento della pratica, esse rischiano di essere spinte agli estremi. E così vediamo lo strano fenomeno delle dottrine più assolute, delle teorie più ardite scaturenti qui, proprio nel terreno che sembrerebbe meno fecondo.»

Compreso da una incauta confidenza di un ufficiale giapponese che la guerra con la Russia ci sarà ed è anzi imminente, Barzini si trasferisce a Tokyo. La guerra scoppierà l'8 febbraio 1904, con un attacco giapponese alla flotta russa di Porth Arthur non preceduto da alcuna dichiarazione di guerra.

Ma il permesso di recarsi al fronte tarda ad arrivare, Barzini quindi si dovrà trattenere in Giappone suo malgrado per alcuni mesi.

Gli articoli da lui inviati in quel periodo al Corriere della Sera verranno più tardi riuniti nel Volume Il Giappone in armi, ma in questo libro ne troveremo solamente una ristretta selezione.

Finalmente Barzini viene autorizzato a trasferirsi in Manciuria assieme agli altri inviati speciali delle testate occidentali: il 25 luglio 1904 è a bordo della Heijo Maru, diretta verso il teatro dei combattimenti.

Le cautele delle autorità giapponesi sono infinite: non solo i corrispondenti vengono strettamente controllati e quasi mai autorizzati ad avvicinarsi ai combattimenti - ma Barzini spesso evaderà i suoi custodi - ma debbono redigere le loro corrispondenze in inglese e consegnarli all'esercito nipponico. Verranno tradotte in giapponese ed inviate a Tokyo, dove verranno accuratamente esaminate, censurate e "adattate". Verranno infine ritradotte di nuovo in inglese e inviate ai giornali. Barzini non nasconde la sua perplessità: gli sembra difficile che i lettori possano avere avuto da queste cronache una idea anche approssimativa di quanto andava succedendo. Si suppone naturalmente che il libro in esame contenga il testo originale ricostruito dagli appunti dell'autore.

Barzini forse per primo intuisce la sconvolgente novità di questa guerra, la prima combattuta con mezzi moderni. Non solo si scopre con grande sorpresa che anche le "prede" del colonialismo occidentale possono diventare a loro volta temibili concorrenti, ma appare per la prima volta in tutta la sua drammaticità la barbarie della guerra moderna; ammesso che le guerre dei tempi passati avessero qualche cosa di umano, quelle del XX secolo saranno di una disumanità assoluta.

Una lettura più attenta di queste pagine, e di altre che sicuramente saranno state scritte, avrebbe evitato forse o perlomeno limitato ulteriori tragedie.

Tra i numerosi episodi narrati da Barzini che possono dare il via a lunghe riflessioni, eccone uno che gli occorse durante la vigilia di una avanzata dell'esercito Giapponese, il 22 agosto 1904, nei presi della città di Hai Cheng.

«

Sulla via che conduce al Quartier Generale ho trovato soldati del corpo telegrafisti intenti a ritirare i fili telegrafici e telefonici, ad arrotolarli nei rulli, a caricare i bambù degli isolatori sui carri speciali. L'ufficiale che li comandava ha spinto il cavallo verso di me e mi ha chiesto in un pessimo inglese:

"Chi siete?"
"Un giornalista italiano" ho risposto

Egli è sembrato estremamente soddisfatto di vedermi. E' disceso di sella, mi ha stretto la mano e mi ha detto:

"Italia Giappone amici, grazie: Nisshin, Kasuga"

Non c'era di che, ma mi ha fatto piacere lo stesso. Su tutte le persone colte del Giappone l'Italia esercita un fascino che somiglia molto a quello che il Giappone irradia sopra di noi. Esse sanno che l'Italia è bella, fiorita, luminosa, che è il paese delle arti, che ha dominato il mondo, che è stata la culla della civiltà occidentale. Nelle scuole giapponesi si insegna la storia di Roma, Questo popolo che ammira ed ama due cose sole, la bellezza e la gloria, ha verso di noi una grande simpatia e un sentimento naturale d'amicizia. Ma al mio interlocutore - per quanto ufficiale telegrafico - difettavano evidentemente i mezzi di comunicazione, perché ha saputo ripetermi solamente: Italia Giappone amici. E ci siamo cordialmente salutati.

»

 

 

 

 

continua