Storia del Giappone
(L'impero del sol nascente)
Maria Cavanna Viani-Visconti
Editrice Carrara, Milano, 1902

Ha senso oggi rileggere una Storia del Giappone del 1902? Risposta semplice e univoca: se non leggiamo non avremo mai alcuna risposta a questa pur semplice e banale domanda.

Se noi apriamo un Atlante geografico alle pagine che rappresentano le diverse regioni dell'Asia e gettiamo lo sguardo su quei paesi che formano ciò che è ora convenuto di chiamare «Estremo Oriente», la nostra attenzione vien tosto colpita ed attratta dalla curiosa disposizione delle terre e de' mari... disposizione strana e leggiadra ad un tempo, dalla quale emana per l'osservatore quasi una sorta di fascino. Festoni lunghi di isole, stendentesi vagamente in lievi curve....

Decisamente si deve convenire che un approccio che poteva considerarsi normale alle soglie del secolo passato, al lettore di oggigiorno suona un po' inusuale; ma, proseguendo nella riflessione non si è più tanto sicuri che non avesse ragione in fondo chi cercava anzi trovava leggiadria e fascino anche nella casuale disposizione delle terre e dei mari.

Vale la pena di continuare...

 

Le quattro terre principali vengono designate dagli europei col nome di Jeso [ora conosciuta piuttosto come Hokkaidô], Hondo, o Nipon, Sikoko e Kyu-Siù. Dico «dagli europei» dacchè i Giapponesi sono ben lungi dall'adoperare questi nomi nel modo e col significato che noi diamo loro. Per essi le maggiori isole dell'arcipelago non hanno nome proprio; l'hanno bensì le varie provincie in cui sono divise. ... Così Nipon non è il nome di una isola sola, ma di tutto lo stato - Shi-kuoto o Shicof, da noi tradotto in Sikoko, significa propriamente quattro terre, e Kin-Shiù, sette provincie... V'è tutta la probabilità che i Giapponesi stessi, con la tendenza che hanno a europeizzarsi, finiscano col dare ad essi il significato medesimo che si dà loro da noi.

Troviamo più avanti, nella sezione dedicata alle credenze religiose, una interessante considerazione su quello che i giapponesi chiamano ki e che noi traduciamo non sempre congruamente con spirito.

Anche prima di morire un uomo può ricevere onori quasi divini. Un contadino che aveva salvato una famiglia in un incendio, vide i suoi compaesani innalzargli una piccola capanna votiva... Vero è che nel pensiero di quei riconoscenti, gli onori divini non venivano tributati alla persona del vivo, ma piuttosto allo spirito che lo animava mentre compieva l'atto coraggioso.

Saltando apparentemente da un argomento all'altro senza curarsi di seguire un filo logico l'autrice, su cui non abbiamo trovato al momento alcun riferimento biografico, afferma:

Il Giri è pei Giapponesi una specie di obbligo morale di agire in un dato senso, di compiere un'azione buona o cattiva. Ma non si capisce bene se derivi da qualche idea religiosa, o da influenza umana, o da semplice punto d'onore.

La religione giapponese probabilmente andrebbe analizzata con strumenti diversi da quelli riservati ad altre religioni ed al cristianesimo in particolare; certamente ci sono delle affinità, come ad esempio nel sistema più o meno informale di diffusione capillare del legame con l'immanente, che da noi si estrinseca nei santi del calendario e in Giappone in modo teoricamente opposto - la moltiplicazione delle divinità - ma agli effetti pratici non dissimile

Bisogna convenire che gli Dei giapponesi sono poco esigenti e compiacentissimi; né possono dirsi oziosi, anzi la loro condizione, per quanto onorifica, è proprio tuttalto che una sinecura. I fedeli li chiamano spesso, li consultano ad ogni proposito intorno ad ogni atto della loro vita; giacché nulla si intraprende senza il loro intervento, ed essi sono continuamente in moto.

Se alla nascita di un bambino, il padre esita intorno al nome da imporgli, ne rimette la scelta alla divinità; egli porta il neonato al tempio, o consegna al sacerdote alcune strisce di carta, cinque per lo più, portanti ciascuna un nome. Il sacerdote le piglia, le arrotola e le colloca entro una specie di ciottola, dalla quale, poi, dopo aver recitato una speciale preghiera, ne trae una per una per mezzo del gohei [striscia di carta intrecciata a scopo propiziatorio], leggendo il nome che vi sta scritto e che s'intende sia quello scelto dallo Spirito. Ma le persone pie non osan limitare in tal modo la scelta della divinità, e se ne rimettono ad essa completamente.

La prima impressione sul libro viene confermata man mano che scorrono le pagine: non è possibile comprendere nulla di alcuna cultura limitandosi a fotografarla in un determinato momento della sua esistenza: dobbiamo conoscere, nei limiti del possibile, anche da dove viene e quale percorso ha fatto, che cosa ha conservato del suo patrimonio ancestrale, cosa ha perso, abbandonato o sostituito, e dove per volontà deliberata, dove per circostanze diverse senza che ci sia stato dietro un disegno, una strategia di evoluzione. E' quindi utile riprendere in mano i ricordi del passato, non filtrati dalle conoscenze e dalle analisi posteriori.

Il libro non si limita però ad una impressionistica descrizione di quanto visto o intravisto dalla scrittrice, presumibilmente durante un più o meno lungo soggiorno in Giappone. Di lei siamo riusciti a sapere solamente che nacque a Milano intorno al 1835 e si spense probabilmente in Valtellina nel 1926, e che fu autrice di testi per l'infanzia e la gioventù a carattere prevalentemente divulgativo. Qui ci sono in ogni caso anche alcuni interessanti dati statistici tra cui, per rimanere nel campo della cultura religiosa:

Una quarantina di anni fa [quindi intorno al 1860], chi avesse voluto e potuto stendere una statistica intorno alle religioni dominanti al Giappone, avrebbe trovato un numero di sacerdoti e di templi buddisti notevolmente superiori a quelli del culto shinto [ricordiamo che le credenze autoctone shinto e quelle buddiste importate hanno convissuto e si sono intrecciate per secoli in Giappone. In epoca Meiji si scelse di dare maggiore enfasi al culto nazionale]. Infatti per i primi s'avevano almeno 245.000 fra sacerdoti e monaci, oltre a 7000 e più religiose. Molti monaci vivevano riuniti entro conventi suntuosi e fortificati. Di templi buddisti se ne contavano a migliaia.

In quel tempo, il culto shinto non poteva vantare che un 150.000 sacerdoti, e pochi erano relativamente in templi di culto puro, ove non fosse penetrato, più o meno apertamente, l'influenza buddistica.

Dopo il rivolgimento politico del 1868, peraltro, grazie al quale il potere supremo, divino e politico, che era stato per secoli dimezzato dall'usurpazione degli Shogun, si ripristinò nelle mani del Mikado, discendente degli Dei e capo della religione shintoista, il buddismo, come è naturale, ricevette un colpo mortale, almeno ufficialmente. Sui primordi del nuovo ordine di cose anzi, esso venne perseguitato, se non con l'accanimento feroce del tempo di Nobunaga [in realtà avente motivazioni politiche e proseguito anche dai suoi successori], almeno con bastante energia. I suoi templi furono in parte spogliati, le grandi ricchezze incamerate, le grosse campane fuse per farne cannoni, molti conventi cambiati in caserme. La proporzione numerica de' ministri e de' templi, dei due culti, fu rovesciata.

Ora il buddismo, ufficialmente è tollerato, ma non certo protetto, come quello che si atteggia a rivale di una religione che consacra la superiorità del Mikado. Ma si riuscirà a distruggere od anche solo a combattere tutto ciò che di buddistico si è infiltrato nel popolo, avido sempre di quanto è spettacoloso e parla ai sensi? Ne dubito.

Si può anche concordare con questa previsione dell'autrice, facendo ricorso per rileggerla più attentamente ad un altro suo passo:

Nulla di più semplice, di più rustico, e al tempo stesso di più poetico, che un tempio del culto nazionale giapponese. Posto sempre in luogo aperto e pittoresco, in mezzo a boschi e praterie, quel tempio rassomiglia ad una capanna. Il vento e gli uccelli vi entrano liberamente; animali liberi ed addomesticati si aggirano intorno ad esso.

La costruzione è tutta in legno, il tetto ricoperto di paglia o strame, oppure formato di assicelle piccolissime, è sostenuto da travi, le cui estremità sporgono incrociate a foggia di una X.

Non vi sono all'interno nè pitture, nè statue, nè dorature. Davanti all'altare, semplice e disadorno, è un gran numero di sgabelletti o piedistalli di legno dipinto, carichi di offerte, consistenti in fiori, frutta, primizie dei raccolti, come mazzi di spighe di riso, bozzoli; poi focaccie, scodellette piene di acqua limpida fresca... Tutto ciò, insomma, che rappresenta l'attività, le speranze e le ricchezze di popolazioni agricole e primitive.