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La tecnica della lacca ha origini antichissime, sono stati rinvenuti anche manufatti preistorici e si pensa che i più antichi risalgano a 7000 anni a.C.

Il metodo utilizzato in Cina, da cui probabilmente è derivata la laccatura giapponese, utilizza la resina estratta da un albero (Rhus verniciflua), solubile in acqua e soggetta in determinate condizioni ad un processo di indurimento che la rende adatta a rivestire oggetti rendendoli allo stesso tempo più attraenti, più gradevoli al tatto e più resistenti all'usura.

Vengono aggiunti alla lacca vari elementi, di solito sotto forma di polvere, per determinarne il colore o per conferirle un aspetto particolare.

La tecnica denominata maki-e è peculiare del Giappone: consiste nella interposizione tra i vari strati di lacca di una pellicola metallica, normalmente oro, che conferisce un aspetto inconfondible all'oggetto e che si presta a formare motivi ornamentali.

Vengono ricoperte con strati di lacca trasparente le zone ove si intende lasciar apparire la foglia d'oro e mascherate con strati di lacca colorata, normalmente in nero, le altre zone.

Nella immagine a fianco, le parti ricoperte dalla lacca nera, o rossa nella cresta del gallo che spezza la monotonia del nero, formano il motivo ornamentale. mentre il maki-e fornisce lo sfondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche questo secondo inro, visibile presso il medesimo museo come anche i successivi quando non indicato diversamente, utilizza la tecnica maki-e ed è a cinque scompartimenti.

Una brughiera scossa dal vento sullo sfondo del sole al tramonto è il tema rappresentato, e la lacca è lavorata in rilievo.

In questo caso, contrariamente al precedente, il disegno è composto dallo strato metallico e lo sfondo è la parte in lacca colorata di nero.

E' accompagnato da un pregevole netsuke di tipo katabori, che rappresenta una divinità, il cui tronco raffigura inoltre inoltre una rana, con effetto trompe l'oeil

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'esemplare successivo riprenderà uno dei temi più ricorrenti nell'arte giapponese: il ventaglio.

Quella che è forse la tsuba più conosciuta ed ammirata nella storia del Giappone, opera di Matashichi Hayashi ((1613–1699), un tempo appartenuta alla famiglia Hosokawa ed ora nell'Eisei Bunko Museum, rappresenta anchessa dei ventagli.

Per l'esattezza dei ventagli spezzati e trasportati dal vento, assieme a dei fiori di sakura, riportati in oro su una base volutamente scabrosa, disadorna e rude di acciaio.

 

 

 

 

 

 

 

L'inro che esaminiamo ora  è invece un oggetto molto raffinato, ma va inquadrato nel contesto generale: la tenuta formale del samurai di epoca Edo è indubbiamente elegante, ma austera.

Viene impreziosita ed ingentilita da accessori così ben rifiniti, senza rischio di cadere nella leziosità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Già l'inro col tema dei ventagli utilizzava una tecnica mista, che ora diviene ancor più parte essenziale nella concezione artistica dell'oggetto.

Questo inro sfrutta infatti per raffigurare due farfalle in volo diverse tonalità di oro e di lacca.

Inoltre gioca molto di più sulle differenti sfumature piuttosto che sul brusco alternarsi dell'oro e del nero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In quest'ultimo esemplare della tipologia maki-e la tecnica di lavorazione è ancora più raffinata, pur senza ricercare effetti vistosi.

Le sfumature di colore sono molteplici.

I fiori e le foglie, leggermente in rilievo, restituiscono una piacevole sensazione non solo alla vista ma anche al tatto del fortunato possessore, ogni volta che deve prendervi o depositarvi qualcosa.

Lo sfondo, cosparso di pagliuzze d'oro, richiama alla mente la nebbia che si leva dai prati all'alba, non appena raggiunti dal primo calore del sole.