Indice articoli

Peter Goldsbury è nato il 28 aprile 1944 in Inghilterra. Professore emerito presso l'Università di Hiroshima, dove ha insegnato filosofia e negoziazione interculturale, è attualmente 7° dan di aikido. Ha iniziato la pratica dell'aikido nel New England con Mitsunari Kanai sensei, e dopo il suo ritorno in Inghilterra nel 1975 ha frequentato il Ryushinkan Dojo di Minoru Kanetsuka sensei. Ha anche seguito Katzuo Chiba sensei in occasione dei suoi frequenti viaggi in Inghilterra.

Nel 1980 si è trasferito ad Hiroshima, in Giappone, continuando la pratica con lo shihan Mazakazu Kitahira, 7° dan. Ha seguito regolarmente anche Seigo Yamaguchi, Hiroshi Tada, Sadateru Arikawa e Masatake Fujita, sia ad Hiroshima che all'Hombu Dojo di Tokyo. E' dal 1998 Presidente della International Aikido Federation, e conduce assieme a due colleghi tedeschi, dal 2001, il suo piccolo dojo in Higashi (Hiroshima).

Con estrema cortesia ha acconsentito alla pubblicazione su musubi.it di questo suo scritto (apparso per la prima volta in Italia nel 1993 nella rivista Aikido edita dall'Aikikai d'Italia, nella traduzione di Paolo Bottoni, che lo ha ora rivisto ed adattato: vanno pertanto imputati a luii eventuali errori od imprecisioni. Altri articoli di Peter Goldsbury sono pubblicati, in inglese, presso il sito aikiweb.com, a questo indirizzo.

 

Introduzione

Come è noto anche a chi pratica da poco tempo, praticamente tutte le tecniche di aikido possono essere eseguite in due modalità: omote ed ura.

E' molto meno diffusa una piena consapevolezza di cosa si nasconda, a livello concettuale, dietro queste due semplici parole.

Trattandosi dell'esecuzione materiale di un gesto molti sono portati a vedervi solo l'aspetto appunto materiale, concludendo che le tecniche omote sono quelle dirette, frontali, mentre quelle ura sono oblique, circolari.

 

 

 

 

 

 

C'è ovviamente chi tenta di cogliere cosa vi sia di più profondo, ma può cadere nell'errore opposto di eccessiva astrazione, fino a concludere che nella contrapposizione dualistica delle forze dell'universo le tecniche omote sono quelle di segno positivo (maschile, solare...), le tecniche ura quelle di segno negativo (femminile, lunare...).

Nel tentativo di mettere queste persone sulla buona strada, potremmo dire che i primi esprimono un giudizio eccessivamente omote, i secondi tentano una analisi esageratamente ura.

Ma non aumentiamo la confusione, e lasciamo la parola a Peter Goldsbury. Per la piena comprensione dell'articolo è necessaria almeno la conoscenza di base della terminologia e delle tecniche di aikido: non abbiamo voluto appesantirne la lettura con un eccesso di spiegazioni supplementari. Le parti tra parentesi quadre sono integrazioni redazionali, o proposte di alternative.

 


Peter Goldsbury

Omote ed ura

Armonia e conflitto sono aspetti della vita che possiamo trovare sia nell’aikido che nel quotidiano. Potremmo anche dire che tali aspetti nell’aikido rappresentano un microcosmo delle relazioni fra il Giappone e quanto lo circonda. (1)

1. Omote e ura in aikido

Nei prirni anni della diffusione dell’aikido in Europa le parole omote e ura non venivano mai usate. Al loro posto si usavano le espressioni irimi e tenkan. Irimi significa entrare, tenkan significa non entrare, andare indietro. I termini omote e ura si usavano solo in Giappone. I significati di omote e ura non sono chiari, nel senso che non richiamano alla mente un concetto strutturato, definitivo.

In alcuni casi è tutto chiaro. Prendiamo per esempio la tecnica di shihonage descritta nei libri di o sensei [Morihei Ueshiba] e di Saito sensei. In omote si entra, ruotando e proiettando, quando il partner afferra; in ura si ruota [direttamente] e si proietta. Potremmo dire b stesso anche nei casi di kaitennage o kokyunage. Già kotegaeshi è un po' meno chiaro; e nel koshinage è molto arduo fare la distinzione fra omote e ura.

 

2. Comprendere la cultura giapponese

La comprensione di una cultura è cosa piuttosto difficile. Prendiamo una persona qualsiasi: su cosa si basa la sua comprensione della sua stessa cultura? C’è una componente pratica ed una intellettuale. In quanto inglese, mi è stato chiesto cos’è la cultura inglese, e sarei propenso a parlare di cose come bombette, ombrelli, cravatte, roast-beef, la Thatcher [l'articolo risale al 1993, Margareth Thatcher fu primo ministro in Inghilterra dal 1979 al 1990, per tre mandati]. Forse Winston Churchill. Si pensa ad elementi caratteristici concreti che, quando ne fai parte, ti fanno sentire britannico.

Ero studente in Francia quando morì Winston Churchill: la notizia fu data in televisione e tutti i miei amici francesi presero a dire, come se si fosse trattato di un mio amico: Ti devi sentire terribilmente male. E' una grande perdita per l’Inghilterra, vi siamo tutti vicini. Ed in effetti io non riuscii a trattenere un paio di lacrime. Credo che questo mi facesse sentire britannico. Ma se penso alla mia vita in Giappone non sento di avere questo senso di britannicità, che è difficile dire cosa sia.

Ciascuno di noi puô elencare, se gli vengono richieste, le caratteristiche della sua cultura, che sono combinazione di una serie di elementi pratici: la lingua, la conoscenza delle risposte alle complesse aspettative di comportamento che ci vengono rivolte. E chiaro però che comprendere la propria cultura non è faccenda elementare.

Parliamo ora della comprensione di un’altra cultura. E’ impossibile comprendere una cultura diversa nella stessa misura della propria; bisognerebbe esservi cresciuti per comprenderla come propria.

Pensando agli aspetti materiali della cultura giapponese probabilmente ci verrebbero in mente cose di questo genere: bastoncini, geishe, il monte Fuji, il riso, i kimono.

Un giapponese probabilmente risponderebbe: Sì, il riso è molto importante, ma le geishe sono in estinzione. Potrebbe anche dire che gli stessi kimono stanno cadendo in disuso, anche se a Hiroshima la gente spesso li indossa ancora.

Comprendere la cultura giapponese è molto difficile, perché presenta molte caratteristiche di cui i giapponesi stessi non sono coscientemente consapevoli. Per capire questo, e per comprendere omote e ura, facciamo un passo indietro.

 

3. Omote e ura nella cultura giapponese

Esiste in Giappone un libro, di Takeo Doi, che si intitola Omote e ura. Il sottotitolo è L’anatomia dell’individuo nella sua relazione con la società. (2) La differenza fra i due titoli è essa stessa interessante. L’autore doveva essere cosciente che una traduzione letterale sarebbe stata senza significato. Ma cerchiamo prima di tutto di tradurre i concetti di omote e ura.

In giapponese classico omote significa viso, ura significa mente. Per un giapponese omote è il lato (della persona) volto verso il mondo. Per esempio omote don significa la strada principale, mentre ura don significa la strada secondaria. Omote si riferisce in giapponese al mantenimento di un’apparenza; ura si usa per sottolineare quanto non è da mostrare in pubblico.

C’è una differenza nella comprensione di questi concetti secondo il punto di vista europeo rispetto al punto di vista giapponese. Omote e ura per noi possono [debbono] avere significati stabiliti. In giapponese invece il loro significato dipende dalla posizione in cui ci si trova. Quanto è omote per una persona potrebbe essere ura per un’altra. Altre due coppie di concetti corrispondono a omote/ura: si tratta di soto e uchi, che significano dentro e fuori, e di tatemae e honne.

Si usano omote e ura per l’individuo, soto e uchi per il gruppo. Omote è il lato della persona che si presenta a soto. Ura non viene mostrato, si tiene ben nascosto in uchi. (3)

Si può afferrare qualcosa pensando ad un attore: da un lato egli interpreta un ruolo, ed il ruolo è determinato dalla commedia. D'altro canto è un attore, ossia una persona che interpreta un ruolo; quindi potrebbe non essere in grado di entrare completamente nel personaggio. Un giapponese ha una percezione estremamente sofisticata di questi concetti. Doi afferma che un giapponese privo di un grado di comprensione che gli permetta di comportarsi coerentemente di fronte a questi concetti, non è un giapponese adulto. In quanto non sa destreggiarsi in questo tipo di situazioni concettuali.

Da straniero in Giappone comprendo chiaramente la distinzione fra soto e uchi. Da una parte però sono un pubblico ufficiale giapponese [in quanto professore universitario], con tutti gli oneri che questo comporta, dall'altra parte essendo straniero non sono in grado di ottemperare a tutti gli obblighi che mi si possano attribuire come pubblico ufficiale, perché nella concezione giapponese della realtà gli stranieri non sono pubblici ufficiali.

Torniamo a tatemae e honne: il significato originario di tatemae è piantare il palo principale della casa. Anticamente le case erano fatte di legno e durante la costruzione al momento dell'innalzamento del palo portante aveva luogo una speciale cerimonia in cui si radunavano i vicini, veniva celebrata una cerimonia shinto e ovviamente si offriva un ricevimento con rinfresco. Quindi tatemae comporta l’idea che la casa è stata fondata. (4)

Tatemae vuol dire comunque anche altre cose, vi darò alcuni esempi tratti dal libro di Doi.

  • Un insieme di leggi o principi che vengono sanciti come giusti o pertinenti
  • convenzioni instaurate per tacito consenso

Ma un insieme di regole sottintende sempre un gruppo di persone che ha stabilito le regole e instaurato le convenzioni, ovvero honne.

In questo senso non si può avere tatemae senza honne, allo stesso modo in cui non si può avere omote senza ura o soto senza uchi. Un giapponese sa sempre distinguere quando qualcuno sta usando il suo omote e quando no.

  • Omote si può vedere, ma c’è sempre un ura nascosto dietro un omote.

Ma omote non è solo mostrarsi, nè è qualcosa che serve a nascondere ura. Piuttosto si puô dire che omote è quello che esprime ura; si potrebbe dire che ura interpreta omote. Quindi quando gli altri vedono omote, stanno anche vedendo ura. Si potrebbe dire addirittura che guardano omote solo per poter vedere ura. Questi concetti non sono esprimibii dal punto di vista della cultura occidentale. E certamente non sarebbe un punto di vista da cui un giapponese potrebbe esarninarli.

 

4. Alcune idee occidentali

I seguenti concetti potrebbero cogliere alcuni significati dei loro corrispettivi giapponesi:

  • omote e ura: l’apparire e l’essere

Omote corrisponde a ciò che appare, ura corrisponde a ciò che è. Un occidentale preferirebbe quest’ultimo. Già Platone si riferiva all’apparire definendolo fluttuante e mutevole. In Giappone i due concetti sono bilanciati.

  • tatemae e honne: ufficiale e ufficioso.

Tatemae si riferisce a ciò che è ufficiale, stabilito dalle regole, ma in Giappone le regole sono spesso considerate [solo] come una guida; esistono affinchè le persone facciano del loro meglio per seguirle ma gli esseri umani sono pur sempre fragili creature che a volte non riescono a seguire le regole. Questo non viene stigmatizzato duramente: dovranno sforzarsi di più, ma se ne può comprendere l’errore.

 

5. Come questi concetti vengono usati nella cultura giapponese.

Tra giapponesi e non giapponesi è molto difficile condurre una conversazione che abbia senso. Ai non giapponesi manca il bagaglio culturale di queste coppie di concetti [quindi] un non giapponese non riesce mai veramente a capire quale significato sia riposto dietro ad una affermazione.

Un esempio: quando si chiede ad un giapponese di soddisfare una richiesta potrebbe rispondere: Mae mukini zensho shimasu; che potrebbe essere tradotto come Guardo al futuro con fiducia. Una risposta del genere causa negli occidentali una grande confusione. Essi si aspetterebbero un atteggiamento positivo, [affermativo] ma questa frase va considerata invece come un modo educato di rispondere no.

Ad un professore europeo venne richiesto dai suoi studenti di fare da arbitro in una gara di retorica. Egli era molto occupato e cercò di spiegarlo ai suoi studenti; loro insistettero nella richiesta. Allora il professore spiegò quali fossero i suoi impegni e gli studenti rimasero meravigliati di quanto fosse occupato. II professore concluse la conversazione dicendo Mae mukini... Questo chiuse la questione: gli studenti capirono che aveva voluto dire Non c’è alcuna possibilità.

 


(1) Vedi anche, in Aikido Journal: Beeing a Totem gaijin, di Peter Goldsbury:

"Le arti marziali giapponesi, nel loro assieme un microcosmo nella società giapponese, si basano su una distinzione trinitaria: omote e ura, uchi e soto, tatemae e honne. Omote è quanto accade di fronte; ura è quanto accade dietro le spalle. Uchi è noi, soto è loro: il gruppo contro gli altri. Tatemae è formale, pubblico, officiale; honne è informale, privato, ufficioso. Penso che il nocciolo di queste distinzioni si trovi in tutte le culture;  ma in Giappone l'affinamento di queste distinzioni è particolarmente evoluto: è una forma di arte. Le cose divengono interessanti, in ogni caso, quando gli stranieri, che si suppone non conoscano queste distinzioni, entrano nell'equazione".

[I praticanti di aikido avranno già notato che mentre quasi tutte le tecniche del kihon di base hanno una forma omote ed una ura, mentre alcune tecniche vengono previste sia in forma uchi (intesa letteralmente come interna, vedi uchikaiten sankyo od uchikaiten nage) ed in forma soto (esterna: vedi sotokaiten sankyo o sotokaiten nage), non vengono utilizzati i termini tatemae ed honne. Riteniamo tuttavia che il praticante esperto non incontri molta difficoltà ad immaginarne alcuni esempi.]

(2) Takeo Doi: Omote to ura, Shohan edition, ISBN-10: 4335650558. Edito in inglese col titolo  The Anatomy of Self: The Individual Versus Society, Kodansha, 2001, ISBN 978-4770027795.  A conferma di quanto già detto da Goldsbury, il titolo inglese traduce il sottotitolo giapponese senza fare menzione del titolo originale. Ne abbiamo in programma la recensione.

(3) Takeo Doi, op. cit.

(4) Tentiamo di proporre un esempio alternativo tratto dalla realtà italiana, pur se in via di progressiva estinzione. Era regola, fino a non molti anni fa, che venisse celebrata una piccola cerimonia nel momento della copertura del tetto di una casa. Veniva innalzata la bandiera italiana, talvolta interveniva un sacerdote per benedire la casa, operai, imprenditori e proprietari partecipavano ad un rinfresco informale. Una procedura come si vede assolutamente analoga a quella descritta da Goldsbury. Quello che manca nella cultura italiana rispetto a quella giapponese è un concetto astratto - ma assorbito nella mentalità popolare come in quella colta -  che richiami questo genere di avvenimenti e di sensazioni.