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Sanshiro non rimane per molto a guardare: ha capito subito che quello sarà, deve essere il suo maestro.

Il conducente del ricsciò si è dileguato, Sanshiro non ha esitazione a chiedere di prendere il suo posto e mettersi alle stanghe.

Porterà a destinazione il maestro Yano, e rimarrà con lui divenendone discepolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ha un attimo di impaccio quando si rende conto che non può correre con gli alti eta, gli zoccoli di legno che venivano utilizzati  per evitare pozzanghere, fango e neve.

Li lascia sul posto, così abbandonando simbolicamente anche la sua vita anteriore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cinepresa di Kurosawa indugia su quegli zoccoli: trasportati qua e là dal vento, sferzati dalla pioggia, in bocca ad un cagnolino, infilzati sopra una cancellata di tipo occidentale, indizio dei cambiamenti traumatici che sconvolgono il Giappone in quegli anni.

Ed infine trasportati via dalle acque del canale.

Lo spettatore comprende immediatamente che sta trascorrendo diverso tempo: la sequenza successiva forse non renderà conto di quanto successo nel frattempo, sicuramente ci porterà molto avanti, in una situazione completamente diversa.

 

 

 

 

 

 

Shiro Saigo fu l'ottavo discepolo ad essere iscritto nei registri del Kodokan. Uno dei primi dell'epoca, uno degli ultimi di quell'anno: il registro riporta solamente pochi nomi - nove - eppure il dojo doveva essere ben affollato: i tatami a disposizione erano solamente dodici.

Già l'anno seguente Shiro Saigo fu uno dei due discepoli  a ricevere l'importante nomina a yudansha. Fu Kano per primo, in quell'occasione, ad istituire questo sistema di graduazione, e ad adottare una cintura di colore nero per tutti i diplomati a livello dan.

Kurosawa non ha però l'intenzione di mostrarci la rapida ascesa di Sanshiro, vuole piuttosto farci capire che la sua abilità tecnica e la sua forza fisica non ne fanno necessariamente un maestro, anzi probabilmente nemmeno un uomo maturo: è ancora, anche lui, un cucciolo che gioca.

 

 

Siamo ora presumibilmente in Yoshiwara, il quartiere dei piaceri di Tokyo.

E' chiaramente in atto una rissa, e il protagonista è Sanshiro, in preda ad una folle esaltazione ma non dimentico delle tecniche apprese da Yano.

Tra le sue mani gli avversari volano come fuscelli. Fin quando inavvertitamente attacca briga con un gigantesco sumotori.

Impassibile, divertito, costui lo fissa: accetta volentieri il confronto, ma senza animosità, senza aggressiviità.

Non sapremo come andrà a finire. Kurosawa si contenta di averci mostrato l'esaltazione giovanile di cui ancora è preda Sanshiro, e immediatamente sposta l'azione nella dimora di Yano.

 

 

 

La reprimenda di Yano al suo discepolo, che si presenta mortificato e con la veste strappata, è senza pietà: non è quella la strada che intende indicare ai suoi allievi e non sa che farsene di chi dimostra di non essere pronta a seguirla.

Come già detto non è facile ricostruire cosa effettivamente Kurosawa intendesse mettere in bocca al maestro.

Questa è sicuramente la scena che la censura ha maggiormente preso di mira, al punto tale da non poterne ragionevolmente tentare una ricostruzione sicura.

Rispettiamo quindi la volontà dello stesso Kurosawa, che ha rinunciato nel prosieguo della sua vita a chiarire il mistero.

 

 

 

 

Il senso generale non lascia però adito ad alcun dubbio.

Sugata Sanshiro non inizierà a seguire veramente la via del judo e non potrà essere un vero combattente se non quando avrà rinunciato alla sua giovanile ed inutile aggressività e al suo orgoglio.

Dovrà raggiungere attraverso il satori lo stato di reale armonia con se stesso, con gli altri e con l'energia dell'universo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Disperato Sanshiro si alza, esce nella veranda - è una fredda ed inquieta giornata d'inverno -  e si getta nello stagno sottostante, spezzandone la coltre di ghiaccio ed aggrappandosi ad un palo per non andare a fondo.

Giura di essere pronto a morire, e che non abbandonerà a nessun costo il suo proposito e la sua scomoda posizione.

Yano non ha alcun cedimento, gli augura anzi provocatoriamente di andare all'inferno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Durante la notte interviene anche Osho (Kokuten Kodo), un saggio prete che frequenta il dojo e la casa di Yano.

Anche lui cerca di scuotere con aspre critiche il giovane presuntuoso, ma invano: non è ancora pronto a capire.

La notte di veglia nello stagno ghiacciato gli porterà però una luce, assieme a quella dell'alba che sta sorgendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Accanto a lui, un fiore di loto sboccia maestosamente.

In quel momento Sanshiro raggiunge il satori, la completa armonia con le forze della natura.

Comprende i suoi errori, e chiedendo scusa al maestro Yano per la sua arroganza, decide di iniziare una nuova vita.

Quello che Kurosawa non perdona sono gli errori di certi critici: si è detto e ridetto che i fiori di loto non sbocciano di notte, e Kurosawa commentava sconsolato che non saprebbe cosa altro aggiungere alla scena per far capire che è l'alba (si ode perfino il canto del gallo).

E lo schiudersi del fiore, accompagnato da un accordo musicale, e nella riedizione negli anni 60 da un percebile suono, sarebbe assurdo: i fiori non emettono alcun suono all'aprirsi. Kurosawa assicura nella sua non-autobiografia di essersene invece accertato di persona recandosi ad osservare l'apertura dei fiori nello stagno di Shinobazu.

Ma, soprattutto, osserva che chi confonde un fenomeno materiale con una espressione poetica non ha speranza di essere curato, e mai potrà comprendere, considerandolo una ovvietà, il celeberrimo haiku di Basshô:

Un vecchio stagno

Una rana vi si getta.

Il suono dell'acqua.