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Dopo aver illustrato per grandi linee il nascere dell'impero e dell'ideologia imperiale in Giappone, attraverso processi non dissimili da quelli attraversati in differenti civiltà, Haushofer intende spiegare per quali ragioni questa ideologia si sia mantenuta sostanzialmente integra attraverso i millenni, sopravvivendo ai mutamenti epocali. Come spesso accade, questa inusuale conservazione di antichissimi costumi ancestrali è stata resa possibile da una costante capacità di adattamento. Senza intaccare la sostanza sono mutate a seconda delle circostanze sia le forme esteriori che i concetti guida dell'idea imperiale.

Va osservato che il principio di famiglia allargata (dôbô) di cui parla Haushofer, che comporta un complesso ma condiviso sistema di rapporti gerarchici, di mutuo sostegno e solidarietà, sopravvive tuttora a detta di alcuni studiosi nella società giapponese e ne costituisce anzi la caratteristica peculiare. [3]  Inserendo l'individuo in un sistema di rapporti predeterminati - per quanto possa apparirne limitata la libertà del singolo - la società nel suo complesso arriva con maggiore puntualità a perseguire i suoi obiettivi. 

 

« ... nemmeno i cancellieri e maggiordomi dell'epoca Fugiuara (Fujiwara), che poco a poco avevano assunta una specie di tutela sul Tenno, gran sacerdote del culto degli avi, e nemmeno i capi dell'opposizione costituita dai guerrieri delle fron­tiere, né la nobiltà cortigiana dei cughe (kuge), né quella appena formantesi dei samurai, osarono o tentarono vio­lare gli elementi, l'essenza dell'idea imperiale, la quale conservò perciò il sentimento di fraternità (dòbò) verso il capo famiglia.

Al contrario, allorché la forte reazione nazionale, che emanò dai guerrieri delle frontiere con la creazione di un contropeso politico contro i mag­giordomi Fugiuara, incominciò a costituire un effettivo pericolo con la costituzione di un secondo centro di gravi­tazione politica a Camacura, si diffuse la concezione del Dio-Imperatore. Mentre le selvagge lotte fra Taira e Minamoto, simili alla guerra delle due rose, e la scis­sione della casa imperiale sotto il Regno del Tenno Godaigo stavano compromettendo seriamente la com­pagine dello Stato, l'idea imperiale subì, attraverso i grandiosi poemi politici (1220-1339), una chiarificazione simile appena a quella raggiunta con i poemi dell'epoca Heian.

Dopo che l'abate Yien (1155-1225), basandosi sul punto di vista buddista, ebbe creato l'epopea di Stato Gu-cuansciò (Gukwanshô), opera che compendia il risultato delle osservazioni fatte dall'alto della sua montagna. sulla città di Chioto in preda alle lotte, Chitabatache Cicafusa scrisse, in circostanze difficilissime, esule, ma fedele all'Imperatore, il panegirico (Ginnosciotochi) della concezione dell' Imperatore come divinità, che uno sto­rico del Giappone moderno, Hiraizumi, chiamò a buon diritto una delle basi fondamentali dell' Impero, e che un traduttore tedesco, Bohner, ha paragonato alle can­tiche eterne di Dante.

Effettivamente questi due grandi poemi politici furono scritti alla sola distanza di due decenni l'uno dall'altro, il che costituisce una delle molte prove dello strano pa­rallelismo fra la storia occidentale e quella giapponese. Entrambi i poemi sono sorti nell'esilio. Per entrambi i poeti, provati anche come uomini di governo e guerrieri, la morte prematura dell'Imperatore da loro auspicato ha infranto per sempre le speranze della vita. Ma en­trambi sono poi divenuti per i loro popoli il punto di partenza di un rinnovamento spirituale.»

 

Nonostante questa tensione ideale l'idea imperiale conobbe nei secoli seguenti lunghi periodi di crisi, sia in occidente che in oriente, alcuni dei quali dovuti ad invasioni di barbari ma altri a decadenza delle istituzioni per ragioni endogene.

Al culmine della lunga crisi in cui cadde il Giappone sotto gli ultimi shogun Ashikaga, succeduti ai Minamoto, si rinnova la minaccia esterna. Questa volta non ad opera dei mongoli ma dei "barbari del sud" (namban) e la minaccia non consiste in una guerra ma in possibile inquinamento delle radici culturali. Risalgono infatti al XVI secolo i primi contatti dei missionari e mercanti europei con il Giappone. Ne abbiamo accennato nell'articolo che tratta dell'avventura del pilota inglese William Adams, che alla guida di un battello olandese approdò in Giappone nel 1600, pochi mesi prima della epocale battaglia di Sekigahara, in cui Haushofer identifica uno dei punti chiave nella evoluzione dell'idea imperiale.

 

«La spinta alla rinnovazione dell'Impero, che per le odierne potenze dell'Asse si verificò quasi contempo­raneamente, ma senza successo, per opera dì Massimiliano I, Franz von Sickingen, Ulrich von Hutten, a nord delle Alpi, e in Italia per opera di Machiavelli, Cesare Borgia, Giulio II, e tanti altri brillanti ingegni della seconda Italia, ebbe invece nel Giappone del XVI se­colo pieno successo per merito di Ota Nobunaga, il cavaliere fedele all'Imperatore, del condottiere Toiotomi Hideiosci (Taico) e del giovane principe Ieiasu (Jyeyasu) Tocugaca [sic], della stirpe Minamoto.

Malgrado questo successo, il Tenno, gran sacerdote del culto degli avi, esponente massimo dell'idea impe­riale e fonte suprema del diritto dello Stato, rimase in un primo tempo a Chioto sotto la vigilanza degli sciogun Tocugaua. Ma sotto il manto damascato della cultura Iedo e dello Stato di polizia che proteggeva la loro concentrazione, la via rimase aperta al rinnovamento dell'idea imperiale, rinnovamento che attinse vigore alle antichissime fonti dello Scinto, l'antica reli­gione popolare degli avi, alla potenza imperiale, ai poemi politici e al romanticismo nazionale. Tutte queste forze aspettavano la loro ora per prorompere e rafforzavano, nell'attesa, la loro forza etica.

L'idea imperiale ed il senso dello stile attraversano nel Giappone del XVI secolo un Rinascimento nel vero senso della parola.»

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«È ammirevole con quanta sicurezza e senso dello stile anche l'idea imperiale abbia saputo, in questo paese di raffinazione ed eclettismo, adottare lo stile dell'epoca e manifestarsi in esso. Ciò risultò fin da quando il Giappone mutò per la prima volta la propria veste culturale e politica, re­stando tuttavia all'interno (cocoro) essenzialmente im­mutato, ossia all'epoca Taicua. Risultò nuovamente al­lorché le nobili, aspre e severe forme del primo periodo Nara crearono dei plastici che ricordano agli occi­dentali quelli del primo romanticismo ed allorché, ana­logamente a quanto Carlo Magno aveva fatto in Occi­dente, un Imperatore ordinò che le vecchie leggende ed epopee politiche del proprio popolo venissero raccolte nel Cogichi (Kojiki) e nel Nihongi.

Si manifestò, inoltre, con l'aspra scultura della scuola Unchei e col grande Budda di Camacura, e quando il potente sciogun Ioritomo Minamoto riformò il codice cavalieresco dei sa­murai basandosi sui vecchi costumi dei Miatsuco e dei suoi seguaci; si manifestò ancora una volta nel periodo Ascicaga, che ha dato la statua di Ascicaga Ioscimasa e molti begli utensili della vita quotidiana che potrebbero figurare accanto ai quadri ed ai tesori del Bargello; ed accompagnò l'evoluzione della cultura imperiale quasi come una altissima manifestazione dell'idea imperiale, una personificazione sempre nuova e pure immutabile dell'idea imperiale.»

Pur con queste elevatissime punte di produzione culturale, il potere centrale giapponese, sia quello materiale detenuto dallo shogun che quello ideale prerogativa dell'imperatore, attraversano a partire dal XV secolo una crisi che sembra irreversibile, essendo il potere effettivo ormai in mano di potenti feudi che rivendicano la loro autonomia.

Fino a quando, dalla seconda metà del XVII secolo, irrompono sulla scena nipponica quelli che Haushofer definisce i triumviri. Oda Nobunaga, che estende il suo dominio  fino ad apparire signore incontrastato del Giappone, Toyotomi Hideyoshi che raccoglie i frutti del suo lavoro e governa a lungo senza tuttavia ottenere mai il riconoscimento ufficiale cui ambiva, ed infine Yeyasu Tokugawa, che diviene shogun ed inaugura una dinastia che guiderà il Giappone per secoli.

 

«Le possibilità di compromesso fra la risorta idea im­periale di Oda Nobunaga e il cristianesimo non erano mancate. Ma questo aveva misconosciuto i rapporti fra ìl Tenno e i marescialli dell'Impero, confondendoli rispettivamente col potere spirituale e temporale dell'Occidente, e si appoggiava su taluni signori feudali di Chiusciù e Sendai [4] e su taluni principi indipendenti, esplicando in fondo un'attività contraria all'unità dell'Impero.

Tali possibilità svanirono peraltro comple­tamente di fronte al geniale condottiere Toiotomi Hideiosci, che, dopo una breve lotta, assunse in stile assai maggiore l'eredità di Oda Nobunaga. Nonostante che né il Taico, né il suo successore Ieiasu Tokugaua avessero letto Machiavelli, né conoscessero i procedi­menti di un Cesare Borgia e di un Giovanni dalle Bande Nere, entrambi adottarono per l'unificazione dell'Impero la ricetta di questi italiani, ottenendone ottimi risultati. Dopo alcune grandiose campagne per la liberazione delle marche nord-orientali a Satsuma, Scicocu e in Corea, e dopo un'ultima grande battaglia civile a Sechigahara nel 1600, cui seguì, nel 1615, l'assalto a Osaca, esse portarono, dopo un ultimo massacro a Scimabara, ad una radicale soppressione della «dottrina pericolosa» del cristianesimo, ed alla sua proibizione nel 1636. Con­temporaneamente il paese veniva completamente pre­cluso alle influenze straniere e segregato mediante il divieto di emigrazione.

Questo letargo dell'idea imperiale nei confini dello spazio vitale conquistato fino al 1615 rappresenta uno dei più singolari atti istintivi che il mondo ricordi nel campo della vita di uno Stato, un esempio di indistur­bata autarchia ed autonomia, in un popolo di circa 30 milioni, in mezzo ad un mondo che attraversava un periodo di particolare espansione. Esso fu oggetto di costante attenzione da parte dell'Occidente, a co­minciare dai gesuiti, quali il de Frois, da Engelbert Kaerripfer fino a Franz von Siebold. Gli australiani lo definirono l'errore di Ieiasu perché la forza na­zionale e lo stato degli armamenti avrebbe consentito agli shoguni di impadronirsi di tutto il mare del sud, compresa l'Oceania, che invece lasciarono agli inglesi.»

Indubbiamente il volontario isolamento del Giappone ha meravigliato, probabilmente deluso, il mondo occidentale. Dobbiamo però dissentire dallo stupore di Haushofer il quale, in quanto studioso, avrebbe dovuto rammentarsi di un esempio analogo fornito da un altro regime imperiale: quello di Roma, che per volontà del suo primo imperatore, Augusto, rinunciò ad ogni politica espansionistica, ritirandosi anzi da alcuni territori. Da allora l'impero romano si limitò per secoli a mantenere lo status quo all'interno, mentre cresceva ai confini la pressione delle popolazioni barbare confinanti.

Senza dimenticare che la concausa più importante della caduta dell'Impero è da tutti identificata proprio nel graduale venir meno nel  corso dei secoli successivi a queste linee di condotta, accettando per quanto giocoforza l'inserimento delle popolazioni barbare più irriducibili - e quindi socialmente più eversive - tra i sudditi dell'impero e nelle file dell'esercito.

 

 


 

[3] Takeo Doi, Anatomia della dipendenza, 2001.

[4] L'estendersi della penetrazione cristiana nell'isola meridionale di Kyushu e nel feudo nordico di Sendai rischiava di accerchiare la zona centrale (Kianai - Kamigata) in cui si incentravano sia il potere temporale dello shogun che quello ieratico dell'imperatore.