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Quando ci si propone nelle vesti di insegnante è doveroso presentare se stessi ed il proprio curriculum, senza nulla celare. Costituisce oltretutto una elementare e dovuta forma di cortesia. Piuttosto che imporre d'autorità una autopresentazione preferisco però ricorrere alla intervista che alcuni anni fa mi è stata richiesta per il sito del suo dojo Shizentai dall'amico Fiordineve Cozzi. L'ho conosciuto molto tempo fa quando era ancora un bambino - o forse poco più - che razzolava dietro al maestro Hosokawa ogni volta che questi affrontava il lungo e scomodo viaggio per portare il suo insegnamento nella lontana zona al confine tra Basilicata e Calabria. Le domande di Fiordineve coincideranno più probabilmente con le vostre curiosità, se ce ne sono. Come detto sono passati alcuni anni dall'intervista: ma non sono cambiato di molto (del resto non è cambiato granché nemmeno il resto del mondo). Ho integrato qua e là segnalandolo tra parentesi quadre.

P.B.

 

Forse non tutti i nuovi aikidoisti conoscono Paolo Bottoni, ma per i veterani come me è uno di quei rari nomi che immediatamente si associano ai primi passi dell'Aikikai di Italia. Basterà sfogliare una delle tante riviste "Aikido"per imbattersi nei suoi numerosi e preziosi articoli. Il suo contributo in tanti anni ha regalato a tutti gli associati dell' Aikikai d'Italia numerosi articoli di cultura giapponese, e brandelli di ricordi della nascita della associazione e dell'impegno di quei tenaci pionieri, "maestri ed allievi" che le diedero vita. Schivo e riservato ha lasciato parlare tutti attraverso la sua penna, ora sarà la nostra a lasciare parlare lui. Un Aikidoista amabile e meritevole a cui tutti riconosciamo stima e gratitudine.

Tempo fa gli ho chiesto di rilasciarmi una breve intervista ed egli cortesemente dopo mia insistenza ha acconsentito. Per chi non avesse inquadrato il personaggio provate a ricordare il viso di quel yudansha che ad ogni stage dei maestri [adesso va corretto in ogni tanto] gira educatamente ai margini del tatami con in mano una enorme macchina fotografica, "ma sempre e solo per richiesta esplicita degli stessi maestri"

Fiordineve Cozzi

 

Paolo, Dove sei nato?

Sono nato a Roma nel 1949, e a Roma sono rimasto praticamente i primi 40 anni della mia vita; la seconda parte è decisamente più randagia, vivo da 20 anni all'estero [dal 1988] anche se i miei legami con Roma sono indissolubili; sempre più spesso gli amici mi dicono "ma stai ancora qua?".

Quale è il tuo grado attuale dell'aikido, dove e quando lo hai conseguito.

Il grado attuale ha poco senso per comprendere il percorso di un praticante; una brevissima scheda: ho iniziato aikido il 26 ottobre del 1974. E non fate quella faccia: lo sanno tutti che ho una memoria micidiale e bisogna farci attenzione [e poi basta controllare la data nel mio libretto blu]. Ma ne riparleremo. Nel 1980 ho conseguito lo shodan con il maestro Fujimoto, seguirono nell'82 il nidan con il maestro Hosokawa e nell'86 il sandan ancora con lui. E' arrivata poi una lunga parentesi di impegni professionali e familiari che mi hanno impedito di proseguire nel cammino. Ma il richiamo della giungla era troppo forte: ricominciai. Nel 98 ricevetti lo yodan dal maestro Seichi Sugano, nel luglio 2008 il godan dal maestro Hiroshi Tada.

Quando hai sentito per la prima volta parlare di arti marziali?

Negli anni sessanta si parlava molto di arti marziali, ma la "scelta" era limitata al judo ed al karate. Mi affascinavano ma mi intimorivano, e probabilmente entrambe le sensazioni derivavano dalle notizie - poche ma in compenso molto confuse - che mi arrivavano nonché dai voli pindarici che ci ricamavo sopra nella mia immaturità.

Nel 1965 il gruppo cui partecipavo per le attività in montagna aprì una sezione arti marziali, e aumentarono di colpo sia le notizie che la confusione. Finalmente, incaricato di presidiare una volta a settimana il Ueshiba Morihei Dojo, il primo dojo [esclusivamente] di aikido aperto in Italia, feci la conoscenza non solo con l'aikido ma con una persona che lo incarnava e lo rendeva allo stesso tempo tangibile ed irraggiungibile: il maestro Hiroshi Tada, da poco arrivato in Italia.

Chi è forte in matematica si sarà già fatto i suoi conti: avevo da poco compiuto 15 anni ed il maestro, che ne aveva 35, era in un certo senso all'apice del suo percorso "materiale" nell'aikido. Ha poi continuato a crescere, ininterrottamente, ma su un cammino diverso da quello che seguiva all'epoca, ed indubbiamente più alto. Ciò non toglie che fosse assolutamente necessaria questa fase precedente, cui ho avuto il privilegio di assistere. Impressioni? Ne rimasi folgorato: sto ancora togliendomi le ceneri di dosso....

Come è stato il primo incontro con l'aikido?

Me ne parlarono, a lungo. E più andavano avanti, meno ne capivo, per non parlare dei tragicomici tentativi di dimostrazioni pratiche. Finalmente, non ricordo nemmeno in quale occasione, mi portarono a via Ascianghi, ai margini del vecchio quartiere romano di Trastevere. Lì vicino c'era l'edificio che ospitava da secoli la Manifattura Tabacchi, e lì c'erano i locali del dopolavoro dei Monopoli di Stato, che alcuni anni dopo vennero messi sul mercato. Il cinema che si trova al piano terra venne acquistato dal regista Nanni Moretti per farne un cineclub, la palestra si trovava invece al sotterraneo, con l'ingresso da un cancelletto che si trovava dal lato dell'arena all'aperto. Qualche anno dopo ci avrei anche insegnato, sia pure occasionalmente. Ora non so che uso ne venga fatto

All'epoca veniva utilizzato come club di judo dei Monopoli, e aveva ospitato i primi corsi regolari di aikido in Italia, su iniziativa di Danilo Chierchini che era dirigente e praticante di judo. Gli insegnanti erano la signora Haru Onoda, ex segretaria particolare del maestro Morihei Ueshiba e che credo avesse il grado di shodan, e più tardi Motokage Kawamukai, che aveva all'epoca circa 18 anni. Pochi mesi prima (autunno 1964) su proposta di Kawamukai e con l'avallo del maestro Hirokazu Kobayashi, di passaggio a Roma per una sorta di "ispezione", era stato invitato a trasferirsi a Roma per aprirvi un corso regolare il maestro Hiroshi Tada, dell'Hombu Dojo di Tokyo [da ricerche successive su documenti messi a disposizione dal maestro Attilio Infranzi risultò poi che già da qualche tempo l'Hombu Dojo stava valutando l'opportunità di inviare in missione in Europa Tada sensei].

"Sorprendentemente", come ricordava Chierchini, accettò. Occorre motivare i motivi di questa sorpresa: in Italia nessuno era al corrente dell'intercessione di Kobayashi sensei, quindi che la proposta venisse accettata era considerata una remota possibilità. Il maestro partì da Tokyo con una modesta somma a disposizione, se non ricordo male 250 dollari, un biglietto di sola andata e la proibizione di esercitare qualunque lavoro al di fuori dell'insegnamento dell'aikido, e senza alcuna prospettiva concreta in termini di lavoro, alloggio e quanto altro. Era allora nel pieno della maturità, ed era sicuramente l'insegnante di maggior livello della sua generazione, avrebbe potuto sia scegliere prospettive ben più attraenti, sia pretendere un minimo di garanzie. Partì invece immediatamente, senza alcuna esitazione e senza alcuna garanzia.

Rimase ininterrottamente in Italia per circa 7 anni, e gli devono essere costati: mi è sempre sembrato di cogliere un velo di rimpianto quando osservava che durante la sua permanenza in Italia scomparvero i personaggi di riferimento della sua vita, inclusi i maestri Morihei Ueshiba e Tempu Nakamura.

Adesso per far spostare un insegnante di medio livello di un centinaio di km, e per un paio di giorni, oltre che un gruzzolo non molto inferiore [qui il tempo impone una correzione: non poco superiore] ci vogliono come minimo un paio di sedute dell'Onu.

Quali sono state le tue prime impressioni?

Quattro sfaccendati in pigiama che tentavano pigramente di fare cose incomprensibili e apparentemente illogiche, su una materassina rotonda da lotta grecoromana polverosa e bitorzoluta.

Che impressione ti fece il maestro Tada al primo incontro?

Bisogna premettere che ben prima di incontrarlo mi era stato ampiamente descritto come una specie di marziano. Ci ricamai ancora sopra di mio, e quando lo vidi per la prima volta non mi sarei meravigliato se fosse stato alto 3 metri e con un paio di code.

La prima impressione diretta fu di gran lunga superiore ad ogni mia aspettativa, ma non per alcuna caratteristica fisica o comunque materiale.

Fu la sua personalità a colpirmi, e che continua a colpirmi ancora adesso, a distanza di tanti anni.

Il maestro Hosokawa quando lo hai conosciuto e dove.

Che idea ti facesti del maestro.

Chi è stato il tuo primo insegnante?

Cosa ricordi della tua prima lezione

Queste domande vanno accorpate, si capirà subito perché. Mi venne sconsigliata la pratica dell'aikido: avrebbe significato secondo i miei consiliori rinunciare ad un percorso di ricerca "nostro" nella impossibile pretesa di percorrerne uno troppo lontano dalle nostre tradizioni. Ma dopo alcuni anni mi rendevo conto con crescente insoddisfazione che non esisteva più alcun percorso di ricerca occidentale, o perlomeno nessuno che si adattasse alle mie esigenze. Decisi quindi di iniziare finalmente, con 10 anni di ritardo, la pratica dell'aikido. Avrebbe dovuto essere uno studio complementare, che mi permettesse di orientarmi meglio in quelli che erano i miei interessi primari. Ma questi svanirono: l'aikido rimane ancora.

Come ho detto, nell'ottobre del 1974 entrai ancora una volta nei locali del Dojo Centrale di Roma, che avevo contribuito a mettere in piedi nella primavera del 1967 e dove ero ritornato in seguito numerose volte, ma solo per assistere ad indimenticabili dimostrazioni del maestro Tada [coadiuvato da Masatomi Ikeda, che tornò poi in Giappone per terminarvi gli studi, prima di stabilirsi definitivamente in Svizzera]. Questa volta era per iniziare la pratica.

Nella minuscola segreteria del dojo era presente il maestro, intento a discutere con alcuni praticanti dei quali ricordo solamente Claudio Pipitone [e forse Guido Garbolino: entrambi di Torino]; Ero troppo agitato per fare molta attenzione, l'attesa decennale aveva fatto crescere le mie aspettative e mi intimidiva, nonostante il maestro mi avesse riconosciuto e mi avesse rivolto un sorriso. Lungo la strada per gli spogliatoi ebbi modo di attraversare diverse crisi di coscienza, e tentai ripetutamente di tornare indietro, impedito da Raffaele Staffa, all'epoca segretario del dojo. Si era immediatamente reso conto della situazione, e mi spinse a forza mentre io puntavo i piedi, obbligandomi ad entrare negli spogliatoi e ad infilarmi il keikogi.

Salito sul tatami, con l'inevitabile sensazione di sentirsi molto cretino, dentro ad abiti inusuali ed in un ambiente inusuale - la lezione era per giunta già iniziata - non sapevo assolutamente cosa fare. Venni raggiunto da un giapponesino sorridente con una folta zazzera che mi chiese in un italiano apparentemente inappuntabile se era il primo giorno. Sono irrimediabilmente romano, e avevo rinunciato già allora a correggermi. La mia risposta fu "Perché, se vede?...".

Il giapponesino non fece una piega: immagino che il menu del giorno fosse nikyo, perché mi afferrò il braccio senza tanti complimenti, non si usava all'epoca addolcire la pillola ai debuttanti, e mi tirò un nikyo regolamentare modello 74 (nulla a che vedere con la roba che "si porta" adesso). Non appena rialzato, immagino con un viso dai colori surreali e con l'espressione stravolta, venni afferrato dall'altro lato e la storia ricominciò.

Cosa pensavo nel frattempo. Roba tipo "Ma che questo chi è? Ma che vuole, chi l'ha cercato? Io voglio Tada!....".

Era il maestro Hideki Hosokawa, con cui stabilii in seguito un rapporto che non si spezzerà mai.

Quali sono stati i tuoi compagni di viaggio

E' un viaggio iniziato molto tempo fa, idealmente direi negli anni 50, quando iniziai ad avere i primi confusi contatti con la cultura giapponese; ne parlo altrove ma qui voglio almeno ricordare che i miei compagni di viaggio non sono, non possono essere solo quelli frequentati sul tatami. Parlando di questi, innanzitutto i praticanti del Dojo Centrale degli "anni d'oro". Della prima generazione, per ricordare solamente quelli che ancora sono in attività, Gianni Cesaratto, Silvio Giannelli, Renato Tamburelli. Sono stati per me dei sempai esemplari. La seconda generazione purtroppo ha avuto esiti più travagliati, e diversi non sono più tra noi, come Giacomo Paudice, Stefano Serpieri, Massimo Fabiani, Maristella Cerniilli.

Tra i compagni di pratica, un gruppo di svitati allo stato puro, praticamente nessuno è rimasto [ma sono ancora in contatto con alcuni di loro]. Sono probabilmente l'unico superstite, e dato che venivo considerato il più svitato di tutti e quindi il più rappresentativo probabilmente è giusto così.

Va detto però, anche se spesso capita di vederli solo da lontano, ed in certo senso "di spalle" che anche i maestri sono dei compagni di viaggio. Ho avuto la fortuna di poter intensamente lavorare con loro e talvolta di condividere con loro la vita quotidiana, e penso che questa esperienza mi abbia condizionato almeno quanto il lavoro sul tatami. Oltre ai nostri grandi maestri - Tada sensei, Fujimoto sensei, Hosokawa sensei – devo ricordare la sorridente professionalità di Ikeda sensei, Asai sensei, Kitaura sensei, Ichimura sensei. Ho avuto rapporti in un certo senso più normali, meno gerarchici, con i maestri della generazione successiva, tra cui includo [perfino!] il doshu Moriteru Ueshiba. Avendo pressappoco la stessa età, ci si ritrova a condividere naturalmente lo stesso tipo di esperienze, e si sviluppano non meglio definibili canali di trasmissione.

Dove vivi attualmente, come e quando riesci a praticare.

Vivo dividendomi tra Bruxelles, ove ho la famiglia, Roma e l'Italia dove rimane la maggior parte dei miei centri di interessi, e la Germania da dove proviene mia moglie e questo mio randagismo probabilmente è destinato ad aumentare a breve [fateci caso: sono anche un po' profeta]. Quindi il problema di praticare regolarmente è una costante che mi accompagna da molti anni. Non esistono soluzioni miracolistiche, ma non mi lamento: ovunque io vada ho sempre trovato il modo di proseguire nella via. Attualmente pratico a Bruxelles presso il Suki Dojo, e quando mi reco in Italia fatico a stare dietro a tutti gli inviti. Da questo punto di vista mi ritengo molto fortunato, con una dolorosa eccezione. Non sono mai riuscito in vita mia a visitare il dojo del maestro Asai, dato che mi reco in Germania durante i fine settimana quando lui è sempre impegnato altrove. Per andare al suo dojo mi basterebbe prendere la S-bahn, ma ogni volta che ci sono passato era chiuso. L'unica volta che ho potuto incontrare il maestro fu quando tenne un raduno ad Oberhausen, una cinquantina di chilometri.


Per molti anni ti sei occupato nell'ambito dell'Aikikai di cosa esattamente.

Non è un po' presto per il coccodrillo?... Per chi non lo sapesse: si chiama "coccodrillo" il pezzo di repertorio che sta nei cassetti di tutte le redazioni. Una scheda ove si piange la perdita di questo o quel vecchione in lista di attesa per l'aldilà, pronta per essere tirata fuori quando le agenzie annunceranno la ferale notizia. Il coccodrillo viene preparato di norma da pigri topi di redazione, relegati a quel compito perché incapaci di scrivere un articolo vero. Inevitabilmente cominceranno con un "scompare con lui" e continueranno con una interminabile serie di cariche e incarichi che faranno concludere al lettore "Ma che gran rompiscatole che ci siamo levati di torno!"

Ma se coccodrillo deve essere, ebbene: coccodrillo sia.

Dopo alcuni anni di pratica al mitico Dojo Centrale dell'Aikikai, venivo già segnalato come persona pericolosa per se e per gli altri, con perniciose tendenze ad impicciarsi di tutto. La cosa tutto sommato faceva comodo: quando mi trovavo al Dojo Centrale mi toccava di tutto, dalla riparazione delle tegole alla esoterica procedura di accensione dei freddabagni (lo so che si chiamerebbero scaldabagni, ma al Dojo Centrale chi ha mai fatto la doccia calda?). Le rare volte che non c'ero era ancora meglio, si sapeva subito a chi dare la colpa per quello che non funzionava.

Inevitabile che nel febbraio del 1978 l'allora segretario nazionale, Stefano Serpieri, cominciasse a concupirmi. Divenni quindi il suo assistente in segreteria, e presi poi il suo posto all'inizio degli anni 80. Gli adescamenti di Stefano, una persona la cui dedizione al lavoro era assoluta e proverbiale, si prolungarono anche alla rivista Aikido, che fondata nel 1972 da Giovanni Granone (altra persona di cui ho ricordi indimenticabili) aveva trovato in lui un degno successore. Ma mi sembrava veramente troppo per me, e feci orecchie da mercante. Iniziai però di tanto in tanto a farmi convincere a scrivere un articolo. Alcuni anni dopo, se non ricordo male era nel 1983, in occasione dell'ennesimo periodico stravolgimento della redazione mi resi conto che era necessario dare qualcosa di più [divenendone redattore]. Da allora fino al gennaio 2009, sebbene con alcune lunghe pause dovute ai miei impegni all'estero, non ho mai cessato di occuparmi della rivista dell'Aikikai, sia come semplice collaboratore che più tardi di nuovo come redattore.

Dal 1988 ho cominciato a viaggiare sempre più all'estero e ho dovuto rassegnare le dimissioni dalla carica di Segretario Nazionale. Dal 1990 risiedo stabilmente a Bruxelles.

A metà degli anni 90 con la chiusura forzata del Dojo Centrale l'Associazione conobbe una seria crisi, e sentendomi di colpo privato di quella che era stata la mia casa, il mio luogo natìo, e sentendo l'appello di tante persone che mostravano di avere fiducia in me, sentii il dovere di fare quanto potevo. Non la buttiamo tanto sul patetico, lavorare per quello in cui credi non pesa, non deve pesare: ti arricchisce.

Le nuove tecnologie permettevano ormai di tenersi in contatto anche a distanza: divenni una sorta di consulente a tutto campo, un campo d'azione che era un po' quello dei giornalini di guerra: arriva dove, come e quando può. Diciamo che era l'equivalente - su scala un po' più vasta - del ruolo di factotum, ma a volte era purtroppo facpocum, che occupavo già negli anni 70 al Dojo Centrale. Ho dato assistenza soprattutto alla segreteria nazionale, effettuando anche continui aggiornamenti del software di gestione da me scritto nel lontano 1985 e che ormai meriterebbe di andare in pensione come me ("gira" in ambiente ms/dos, in linguaggio dBaseIII poi convertito a FoxBase: qualcuno si ricorda ancora che roba è?). Intorno al 2001 la solita crisi ciclica sconvolse di nuovo la rivista Aikido, e mi riproposi per l'ennesima volta nel mio ruolo salvifico, che non è quello di salvatore della patria: diciamo semplicemente quello della persona che lavora con passione ma anche, ci vogliono eccome se ci vogliono, con metodo e costanza.

Dimenticavo di dire che molti mi conoscono anche come "il fotografo dell'Aikikai". E' vero, iniziai nel 1981 al raduno estivo di Coverciano, e da allora hanno tentato di non farmi più smettere.

Tutto qui...

Nel corso del 2008 ho deciso che queste mie esperienze, che ho vissuto con grande piacere e che mi hanno lasciato ricordi incancellabili, dovevano terminare. Ho mantenuto così una promessa fatta ad Hosokawa sensei quel lontano febbraio del 1978. Gli promisi che appena fosse stato possibile o necessario avrei lasciato tutto per ritornare solamente a sudare sul tatami. Quando gli dissi che il momento era arrivato, mi ha sorriso. Non ci siamo detti null'altro.

Leggendo le vecchie riviste non si può far a meno di constatare che la maggior parte degli articoli hanno la tua firma, questa conoscenza dove come e quando nasce?

So di non conoscere granché; so altrettanto bene però di avere sete di conoscenza, e solo questo mi piacerebbe di riuscire a trasmettere

E' difficile dire quando nasce l'attrazione verso una cultura, verso una forma di arte, verso una persona; probabilmente si tratta di un bisogno innato, una esigenza che porti dentro di te ancora prima di avvertirla, e che attende solo l'occasione giusta, l'incontro giusto, per venire alla luce

Credo di avere avuto un approccio molto precoce con la cultura giapponese; negli anni 50 infatti andavano molto di moda i film giapponesi, e non passava mai molto tempo tra una proiezione e l'altra, in televisione, di un film di qualche grande maestro

Non erano certamente i tempi di oggi, per chi è giovane è perfino difficile immaginarli: nel mio quartiere, un piccolo e sonnacchioso borgo sul colle Aventino, nel cuore di Roma, esisteva una sola televisione, presso la sede di un partito politico, la ormai defunta Democrazia Cristiana; e lì mi portava la mia prozia, credo che avessi 3 o 4 anni, a vedere indiscriminatamente tutto quello che riuscivo a scorgere su quel minuscolo schermo in bianco e nero tentando di aprirmi uno spiraglio in mezzo ai tanti spettatori, tutti ovviamente più grandi di me

Da allora qualcosa mi rimase, e quando qualche anno più tardi anche la mia famiglia conobbe l'avanzamento sociale di avere una televisione in casa non mancavo mai di implorare i miei genitori di lasciarmi vedere Rashomon o I sette samurai, opere che il resto della famiglia odiava cordialmente in quanto noiose ed incomprensibili

Sarebbe sciocco dire che io invece le comprendevo; ma proprio questa impossibilità fu la molla scatenante che ancora adesso continua a muovermi; ho ancora bisogno, desiderio, piacere di conoscere e di pormi domande; non importa se sono in grado o meno di trovare una soluzione, continuerò a cercarla per il resto della mia vita

Non importa quanto sia profonda questa conoscenza, so perfettamente di essermi disperso in troppi rivoli senza approfondirne veramente nessuno, ma per il mio carattere va bene così: avere perlomeno le nozioni di base nel maggior numero possibile di campi permette di avere una visione di assieme altrimenti non ottenibile

A cosa serve questo sul piano pratico? non lo so dire, e forse nemmeno mi è mai interessato; so che la ricerca della via mi affascina, mi intriga, mi necessita; avverto lo stimolo continuo a camminare, sono molto meno interessato a raggiungere una meta e lì arrestarmi

Se qualcuno pensa per questo - lo sento dire sempre più spesso - che io sia un maestro, ebbene stia in guardia: la mia strada non porta da nessuna parte ed è necessario che sia così

E anche se non lo fosse, a me così piace

Quali sono stati gli eventi da te organizzati nell'ambito Aikikai di cui vai particolarmente fiero.

Non ricordo di essere mai stato fiero di qualcosa in vita mia. Alcune cose mi sono riuscite, e l'ho considerato normale e doveroso. Altre di meno, ho cercato allora di capirne le ragioni e di crescere per essere all'altezza in futuro. Il mio lavoro nell'Aikikai d'Italia non fa eccezione.

Sono comunque sereno nell'analizzare quanto fatto, riconosco di avere lavorato con scienza e coscienza.

Molti anni fa, quando fui chiamato improvvisamente ad assumere l'incarico di Segretario Nazionale dell'Aikikai, prendendo il posto di Stefano Serpieri, ebbi un attimo di panico: non mi sentivo all'altezza. Solo chi ha conosciuto in prima persona la assoluta dedizione di Stefano può comprendere quanto fosse pesante la sua eredità. A farmi uscire dalla crisi fu proprio la riflessione che non partivo da zero: se pure era pesante, era comunque una eredità. Partivo già "ricco" di quanto lui lasciava, e sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti lasciar disperdere il patrimonio da lui creato. Di questo posso dire di essere serenamente cosciente: di avere iniziato il mio lavoro al punto X e di averlo lasciato al punto Y, oggettivamente più avanzato e degno di chi mi aveva preceduto.

Altre due voci del mio immaginario bilancio vanno messe all'attivo.

La mia pratica dell'aikido è stata per forza di cose discontinua, avendomi gli impegni e gli imprevisti della vita travolto o fisicamente portato via in diverse occasioni. Ho sempre per mia fortuna trovato la forza di "tornare a casa", come quegli animali abbandonati o smarriti che si ripresentano alla porta di casa dopo mesi od anni, smagriti, feriti, alienati. Ma di nuovo a casa.

Ed anche, forse soprattutto, la considerazione che ovunque mi abbiano portato i casi della vita sono stato alla resa dei conti considerato con rispetto, anche da chi si era trovato a combattermi. Molte delle persone che me ne hanno chiesto ragione hanno individuato nella mia pratica dell'aikido - anche quando ignoravano del tutto l'esistenza stessa dell'arte - le ragioni che mi obbligavano ad agire con integrità.

Ecco, se proprio dovessi trovare un qualcosa di cui essere fiero, forse potrebbe essere questo: la consapevolezza di essere considerato da miei maestri un discepolo che sta seguendo la via, ovunque si trovi e qualunque cosa stia facendo. Sul tatami, che rimane in fin dei conti la parte più facile, ma soprattutto fuori.

Come sono cambiati gli aikidoisti nel tempo.

Quale è la differenza di atmosfera su tatami, ammesso che ci sia con quella degli inizi.

Cominciamo dalla parte negativa. Quando io ho iniziato la pratica, l'aikido era un'arte che richiedeva molto impegno e non consentiva di raccogliere molto: erano i cosidetti "tempi eroici", piccole conquiste che ora sono alla portata di tutti erano allora una chimera per molti. Per darne un'idea: erano pochi, forse non più del 20%, i praticanti in grado di eseguire una corretta caduta su kotegaeshi; nessuno dei pochi yudansha era in grado di ripiegare correttamente la sua hakama...

Ora c'è molta più professionalità da parte degli insegnanti, i progressi dal lato praticanti sono molto più rapidi, gli scambi culturali col Giappone sono molto più facili (io personalmente non ci sono mai stato) e ormai molti conoscono perlomeno i rudimenti della lingua, altri la padroneggiano alla perfezione.

Eppure sento che c'è in giro meno entusiasmo, meno passione: tutto è fatto meglio, ma si ha l'impressione che sia fatto con una certa freddezza, non si prova la sensazione che venga fatto per amore, ma piuttosto per ottenerne qualcosa in cambio. E, da parte di alcuni insegnanti, osservo un esagerato afflusso di informazioni non verificate verso gli allievi, forse per un bisogno inconscio di dimostrare la propria maestria ci si allarga a parlare ex cathedra di argomenti di cui palesemente si conosce poco.

Forse è il necessario prezzo da pagare per la diffusione dell'aikido su scala più vasta: dovendo aumentare la "produzione" per venire incontro alla richiesta è ovvio che viene meno la produzione artigianale e il prodotto diventa professionalmente ineccepibile ma un po' freddo, asettico e talvolta con una confezione molto strillata, che si pensa lo valorizzi di più.

La parte positiva: il volto soddisfatto di tante persone al termine della lezione, le confessioni di tanti praticanti che un po' timidamente, quasi come se se ne vergognassero, confessano di sentirsi persone migliori da quando hanno iniziato a praticare. Questo basta a ripagare di ogni cosa

Del tuo amore per l'aikido cosa puoi dirmi.

Lo sapevo che non dovevo parlare di amore.... Non so se il mio legame con l'aikido si possa definire amore. L'amore, sentimento indispensabile che muove l'universo e forse la vetta più alta dell'essere umano, ha tuttavia un fondo di egoismo. Il nostro amore lo consideriamo proprietà esclusiva e tendiamo a non volerlo dividere con nessuno, inoltre siamo portati a pretenderne qualcosa.

Si sente spesso dire invece "ti presento un amico". L'amicizia è una forma di amore probabilmente non meno nobile, sicuramente più disinteressata ed altruistica. Se l'amore ce lo vogliamo tenere per noi, abbiamo invece piacere che tutti conoscano i nostri amici e gioiscano, fruiscano, di loro. Se l'amore ha spesso un sottofondo di gelosia, l'amicizia non ne ha. Ecco, direi per concludere che tra me e l'aikido è sbocciata tanti anni fa una profonda e disinteressata amicizia. Credo che sia destinata a durare, e ho piacere di condividerla con tanti altri esseri umani.

 


 

Fin qui si è spinto l'intervistatore. Chi fosse rimasto con qualche residuo di curiosità non ha che da Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Un tentativo di risposta è assicurato ma non sono garantiti i risultati: sono poche le domande che ancora non mi sono fatto da solo, ma le risposte, che tanti anni fa credevo per loro natura immutabili e consolidate, si trasformano, evolvono,  tornano indietro sui loro passi in continuazione: si direbbe che abbiano l'argento vivo addosso. E qui il paziente lettore spintosi fino alle ultime righe ha diritto ad una precisazione. Il fine ultimo, la meta di ogni essere vivente, è il ricongiungimento con l'universo attraverso il proprio annullamento personale. In altre parole, la morte. Non ho particolare fretta di arrivare a questa meta, non la cerco e non vi dirigo i miei passi: arriverà da sola. Nel frattempo il cammino che mi hanno indicato i miei maestri, pur essendo apparentemente senza meta, con un sospetto di essere senza scopo, è bello ed appagante. E a questo voglio limitarmi: a camminare sempre per seguire virtute e conoscenza. Non a cercare di arrivare. Confermo che la mia strada non vuole arrivare da nessuna parte. Ma da qualche parte, comunque, arriverà.