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Il senso della domanda non è di chiedersi la ragione delle differenze tra il tantô da allenamento commerciale ed il "vero" tantô. In realtà questi attrezzi vanno benissimo per il compito che è loro richiesto, anche quando sono quelli economici fabbricati in Cina. La ridotta lunghezza e la mancanza di tecniche di impatto li rendono esenti dal rischio di rottura e la presenza dello shinogi, sia pure non ortodossa, facilita la presa nelle manovre di disarmo, che per ovvie ragioni si eseguono sempre  facendo leva sul dorso della lama e non sul tagliente. Quindi la domanda è "perché volersi ostinare sui tantô "filologici?" Nemmeno questa risposta sarà facile, e ci porterà abbastanza lontani dal tema principale ma forse vicini a fare delle considerazioni ad un livello differente da quello puramente materiale.

Dico immediatamente che già nei "tempi eroici" che mi capita ogni tanto di rievocare mi era venuta l'idea fissa di fabbricare dei tantô e dei bokken, senza alcuna ragione pratica: il costo di quelli commerciali non era elevato, e come già detto svolgevano egregiamente il loro compito. Ma ne sentivo ugualmente il bisogno, e forse solo adesso riesco a comprenderne fino in fondo le ragioni e ve ne farò parte. All'epoca cedetti semplicemente ad un impulso istintivo, ma ben presto - con grande stupore - ricevetti segnali di approvazione e di incoraggiamento non solo e non tanto dai miei compagni di allenamento, che pure non mancavano mai di postulare un esemplare a loro uso e consumo, ma addiritura dai miei maestri.

Uno dei miei primi tantô venne donato al maestro Masatomi Ikeda, e mi capitò di rivederlo alcuni anni dopo durante un seminario nella saletta riservata ai  maestri del Dojo Centrale, con chiari segnali di un uso prolungato.

Hosokawa sensei, stimato conoscitore del nihontô, fu immediatamente prodigo di consigli, che mi fecero intravedere che non potevo limitarmi a copiare ma avrei dovuto cercare in direzioni non ben definite qualcosa di diverso anche se non necessariamente "di meglio".

Il primo consiglio fu: "Li dovresti fare senza sori. O con un sori solamente accennato."

Non avevo mai visto in vita mia un vero tantô, quindi non ero in grado in quel momento di comprendere le ragioni delle sue istruzioni. Ma le seguii.

 

Per breve tempo però. Il primo bokken nello stile jigen ryu fu per me croce e delizia. Rimasi dapprima imbarazzato, poco dopo deliziato ma infine sconvolto quando grazie alla sfacciataggine di alcuni compagni di pratica questo bokken venne sottoposto all'esame di Tada sensei, che all'epoca prediligeva appunto quel tipo. 

Avrei voluto scomparire, mi sembrava sintomo di infinita presunzione chiedere un parere alla massima autorità immaginabile. Ma ormai, perso per perso, visto che il maestro si attardava nell'esame, trovai il coraggio di chiedergli non che cosa ne pensasse - per non obbligarlo a diplomatici elogi - ma dove avrei dovuto impegnarmi per comprendere meglio. Come al solito la sua risposta fu concisa ed illuminante. Anche se imbarazzante: "Va bene così."

Perché imbarazzante? Perché io non avevo la più pallida idea del perché quel bokken andasse bene così.

Certamente, me ne rendevo conto in qualche modo, Ma le ragioni mi rimanevano completamente oscure: in un certo senso "si era fatto", non l'avevo fatto io. O perlomeno il mio contributo era stato marginale e casuale.

Kobayashi Hideo sensei, che frequentava all'epoca il Dojo Centrale, mi chiese addirittura dopo aver visto e provato quel bokken di fabbricarne una piccola serie per i praticanti del corso di kendô che stava avviando in quel periodo. Con rammarico dovetti rinunciare, adducendo delle motivazioni di ordine meramente pratico. Non era infatti possibile procurarsi con continuità il legno necessario: tutte le essenze disponibili sul mercato si erano rivelate inadatte ed esaurita la piccola riserva di quercia calabrese inviatami per ferrovia dall'amico VIttorio Laiso, responsabie del Dojo di Lauria, avrei dovuto fermarmi. Ma la vera ragione, me ne resi conto solo dopo sia pure avendola intravista già all'epoca, era che io non ero in grado di produrre metodicamente - e non episodicamente - quello che intravedevo nella mente e vagheggiavo di fare.

A distanza di molti anni però ho sentito l'impulso ed il dovere di tornare a produrre quegli oggetti, ma limitandomi per una serie di ragioni che elencherò più tardi, alla sola arma corta: il tantô. Le ragioni di questo bisogno latente destinato a riaffiorare inesorabilmente nonostante ogni tentativo di reprimerlo, possono essere di interesse generale, per quanto rimangano mie e personali.

Nell'arte - o per meglio dire nell'artigianato - della produzione di tantô si esercitano, si mettono in pratica, si rendono visibili, molti dei concetti e precetti che dovremmo tenere sempre presenti nell'arte dell'aikido. E forse anche in quella della vita. Si deve entrare in sintonia con un elemento estraneo (il legno) che non dice nulla di se stesso. O almeno nulla che possa essere compreso con gli strumenti dell'intelletto. Lo si comprende, letteralmente, solo mettendogli - con amore - le mani addosso. Un compagno di percorso impegnativo. Ma, come ripeteva (e non solo ai tempi eroici) Hosokawa sensei, solo il confronto con chi è più forte di te permette la tua crescita interiore..

La lavorazione del legno inoltre ha molte affinità con l'essenza delle arti tradizionali giapponesi maggiormente legate allo spirito marziale.

E qui mi devo spiegare. Perché molti grandi maestri amano studiare e praticare lo shodô (calligrafia), il chanoyu (cerimonia del te), la poesia haiku? Perchè richiedono coraggio, decisione, imperturbabilità, sensibilità. La traccia lasciata dall'inchiostro sulla carta non può essere cancellata o corretta: è definitiva, giusta o sbagliata che sia. Come un colpo di spada.

Il gesto del cerimoniere nel chanoyu è perfetto od errato, in modo inesorabilmente perpetuo: quel gesto è stato sbagliato, e tale rimarrà in eterno. Non varrà a correggerlo il gesto successivo eseguito nel migliore dei modi.

 

 

Similmente, quando mi chiedono come si procede alla fabbricazione di un tantô, rispondo spavaldamente citando Michelangelo: "Basta prendere un pezzo di legno e comprendere se dentro c'è o non c'è quello che si cerca. Dopo, basta togliere il superfluo. Quello che rimane è il tantô."

Va da se che si lavora in equilibrio precario e senza rete di protezione. Mentre è sempre possibile in altre discipline coprire un errore aggiungendovi sopra qualcosa, qui ciò che è tolto è tolto. Nulla e nessuno potrà mai farlo tornare.

Ed ecco che nasce l'opportunità di praticare anche fuori dal tatami uno dei concetti secondo me più importanti dell'arte: l'aikido si affina togliendo il superfluo.

Non aggiungendo all'infinito strato dopo strato...