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Vorrei chiudere con una breve rievocazione di cosa significasse  l'esame - ogni esame - non solo negli anni ormai lontani in cui l'aikido muoveva i primi passi in Italia ma anche per molti degli anni seguenti.

 

Era una cerimonia.

 

Come tutte le cerimonie richiedeva il rispetto di una procedura, probabilmente difficile da comprendere per chi non condivideva il nostro  cammino, ma che contribuiva ugualmente a far inquadrare - a tutti - quel momento magico, nella sua giusta prospettiva.

 

Anche se non siamo credenti, ognuno di noi si astiene dall'alzare la voce o dal tenere comportamenti considerati scorretti all'interno di una chiesa. L'atmosfera del luogo, genius loci lo definivano i latini, ed anche l'atmosfera creata dal ripetersi cerimoniale di un gesto - basti pensare al chanoyu - possono influenzare nel bene stato d'animo e comportamento dei partecipanti ad un momento cruciale ma anche permettere la trasformazione di un momento banale in un evento importante.

 

La "cerimonia" dell'esame che io imparai a conoscere ed apprezzare in quegli anni permetteva secondo me la corretta partecipazione all'l'evento.

 

L'esame era pubblico, chiunque poteva assistervi. Era però richiesta una partecipazione attiva. Era necessario assistervi dal tatami, se possibile in posizone formale di seiza, astenendosi dal commentare ed anche dal parlare, e senza possibilità di intervenire ad evento iniziato o di assentarsi prima della fine: al momento in cui l'esaminatore faceva il suo ingresso sul tatami le porte venivano chiuse: nessuno poteva più entrare od uscire.

 

Si iniziava dai gradi minori, nel frattempo gli altri candidati rimanevano in attesa immobili, in seiza; questo poteva significare, a livello secondo o terzo dan, rimanere in seiza anche un'intera mattinata.

 

Senza voler troppo recriminare, perché ritengo che un esaminando debba essere pronto a dare sé stesso in ogni circostanza, indifferente a quanto gli succede intorno, debbo dire che l'atmosfera dell'esame "moderno" mi sembra sottrarre troppo alla necessaria intensità del momento.

 

Conta veramente tanto questa famosa atmosfera? Non dovremmo, come già detto e ridetto, essere impermeabili alle circostanze esterne, quindi dare il meglio anche in quelle più avverse? Certamente. Ma probabilmente nelle circostanze migliori daremo ancora di più, il nostro meglio si collocherà ad un livello più elevato.

 

Mi aiuto con l'immancabile esempio, ma chiedendo aiuto ora ad una personalità non discutibile. Kisshomaru Ueshiba.

 

Prima della Seconda Guerra Mondiale, un famoso scienziato tedesco, che si occupava di ricerche militari, venne in Giappone. Quando ritornò in Germania, portò con sé alcune spade giapponesi e le affidò per delle analisi scientifiche ad un istituto specializzato in ricerca e sviluppo di acciai ad alta tecnologia. Questo scienziato era un ammiratore delle spade Giapponesi. Le teneva con il massimo riguardo e sapeva della loro superiorità al confronto di quelle Europee.

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Lo scienziato era consapevole di tutte queste qualità, ma c'era una cosa da cui era infastidito: l'aria di misticismo di cui era avvolto il tradizionale metodo di forgiare la lama, al punto che il fabbro, vestito tutto di bianco per simboleggiare la purificazione, eseguisse il suo lavoro davanti ad un altare Shinto. Ciò gli sembrava molto primitivo, ed aveva anche una scarsa opinione del timore sacro col quale il Giapponese considera la spada.

Decise quindi di analizzare sia i materiali che la lavorazione a cui erano stati sottoposti. Con i risultati acquisiti dal laboratorio, pensava di poter ricostruire la spada usando le più recenti tecnologie disponibili a quel tempo.

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Il risultato fu un completo fallimento. La raccolta dei dati scientifici non fu un problema, ovviamente, ma quando passò alla realizzazione pratica, il risultato fu un'ennesima spada comune.

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Nelle lavorazioni tradizionali molto del risultato è dovuto ad una abilità istintiva, conosciuta come lavoro del kan, che può essere acquisita solo accumulando anni di esperienza. Perché questo kan istintivo dia frutto, occorre sperimentare una tensione creativa, che nasce dalla concentrazione della mente sull'esecuzione del lavoro. Ciò permette ad una forza superiore, kami in giapponese, di entrare nel processo.

 

(Lo spirito dell'aikido, Edizioni Mediterranee, p. 81).

 

Richiamandomi a quanto osservato nel corso degli esami tenuti durante il raduno estivo alla fine dell'Anno Accademico dell'Aikikai, che sono i più importanti in assoluto e dovrebbero essere quelli maggiormente impregnati della giusta atmosfera, debbo osservare che in realtà si tengono in un ambiente potenzialmente dispersivo e non adeguato.

 

Pochi esaminandi sparsi in gruppetti per l'enorme tatami. Chi entra, chi esce, chi legge il giornale stravaccato sulle gradinate, chi colloquia con l'immancabile telefono cellulare. Riesce difficile pensare ad un intervento del kami nel processo di quegli esami.

 

Mi è stato detto che il maestro Fujimoto ha tenuto ultimamente degli esami all'antica, quelli con la dura lex sed lex, quelli in cui tutti partecipano - con lo spirito almeno - salendo sul tatami e mantenendo la giusta tensione, al momento magico ed irripetibile dell'esame, in cui uomini e donne sono chiamati a confrontarsi con i loro limiti. Mi sembra un segnale molto bello.