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Cercando di fare un discorso spassionato e costruttivo si finisce per dare talvolta l'impressione di essere scarsamente interessati agli aspetti umani del problema, in questo caso al dramma di chi si è preparato con coscienza o pensa di averlo fatto, e si vede invece costretto a ritornare sui suoi passi quando pensava di avere davanti la meta.

 

E' per questo che sarà bene fare alcuni esempi concreti, soprattutto quelli riguardanti il sottoscritto non essendo buona cosa, in una materia tanto delicata, menzionare quanto accaduto ad altre persone.

 

Personalmente avevo deciso all'inizio della mia vicenda aikidoistica di non fare mai esami. Mi dava fastidio l'idea di essere costretto ad affrontarne anche in una delle poche attività che mi davano un autentico piacere che non aveva necessità di conferme.

 

Ma un bel giorno il maestro Hosokawa, alle prese con problemi di affollamento del tatami, annunciò che avrebbe diviso il corso in due, riservando le tecniche avanzate a chi avesse superato un esame. A fine lezione mi precipitai da lui e gli chiesi se era il caso di fare l'esame.

 

Dovendo sintetizzare il lungo giro di parole con cui mi rispose, direi: "E a me cosa me ne può importare?". Ancora una volta: l'esame serve al praticante e solo a lui, come punto di verifica. Può rinunciarvi, beninteso, ma il momento della verifica arriverà comunque.

 

Devo dire che se io ho avuto qualche resistenza iniziale all'idea di mettermi sotto esame, altre persone si sono trovate di fronte ad un autentico blocco mentale, rinunciando ad ogni tentativo, talvolta anche per decine di anni.

 

La soluzione adottata per queste persone dal maestro Hosokawa è stata diametralmente opposta a quella che mi riguardò direttamente nel lontanissimo 1976: interveniva piuttosto che lasciare al praticante ogni responsabilità, comunicandogli a bruciapelo, senza possibilità di discussione, la necessità di sostenere immediatamente un esame.

 

Debbo aggiungere, per dissipare ogni sospetto, che non si è mai trattato di esami pro forma: erano esami seri ed impegnativi, che richiedevano ai prescelti di tirare fuori tutto quanto avevano, se non qualcosa di più. Eppure non ho memoria di esami di questo genere che abbiano avuto esito negativo, e sono immancabilmente serviti ad affrancare il praticante dal suo blocco psicologico. Da quel momento, gli esami hanno cessato di essere un problema, rimanendo un momento impegnativo ma atteso comunque con serenità.

 

Ho subito una solenne bocciatura dal maestro Fujimoto. Al termine dell'esame, che mi sembrava di aver fatto dignitosamente, venni anche complimentato da diversi yudansha, ma quando apparve il cartello con i nomi dei candidati promossi, ove non appariva il mio, divenni furioso. Ci volle molto prima che mi rendessi conto che in quel periodo ero presuntuoso e convinto di essere in qualche modo "arrivato" e che questo aspetto della mia personalità, che non sarebbe sfuggito a nessuno, tanto meno poteva sfuggire ad un esaminatore attento come Fujimoto sensei.

 

Il mio livello tecnico era più che adeguato per l'appuntamento previsto, ma il mio atteggiamento mentale non era a livello sufficiente. Entrai naturalmente in crisi, rifiutando per lungo tempo l'idea che l'esame fosse fallito a causa mia e non per cause esterne.

 

Il maestro Hosokawa giustamente pretese che il mio esame di shodan fosse sostenuto davanti a Fujimoto sensei. Era il giorno 6 del mese di aprile, nell'anno 1980, sul tatami del Dojo Centrale, ed avemmo il grande piacere di vederlo sorridere durante la prova: era soddisfatto di quanto vedeva. Solo ora mi rendo conto che sono passati esattamente trenta anni, da quel momento di tanti anni fa a quello in cui rivedo queste note (2 aprile 2010). La foto del maestro lo mostra vigile come allora, ma è recente: risale allo scorso mese di febbraio.

 

All'esame di nidan, sento di aver mancato l'appuntamento e ancora adesso, a distanza di diversi decenni, avverto un forte senso di colpa. Ero perfettamente cosciente dell'impegno che mi attendeva, ho avuto tutto il tempo per prepararmi, ero assolutamente convinto di essermi preparato a dovere. A questo punto quasi tutti si saranno preparati a leggere la cronistoria di un disastro annunciato. Invece l'esame l'ho superato.

 

Non è andata però come volevo, come pensavo, come mi aspettavo: mi sentii in debito per lungo tempo. Penso di avere lavorato abbastanza per riparare negli anni seguenti, ma come ho detto considero macchiato il mio curriculum non tanto quel giorno che ebbi una sonora quanto salutare bocciatura dal maestro Fujimoto quanto quel giorno invece che il maestro Hosokawa mi ammonì con un "cartellino giallo" pur promuovendomi. Per la cronaca - molti saranno curiosi di conoscere quali metodi possono essere utilizzati per mettere in difficoltà una persona nonostante tutto non impreparata - ecco come andò: il maestro a sorpresa fece cominciare l'esame in suwariwaza, prolungando questa fase per diverse decine di minuti. In debito di ossigeno e di forze fisiche fin dai primissimi istanti, il resto dell'esame fu un'odissea durata diverse ore.

 

Preparandomi all'esame successivo mi ero ripromesso di riparare alla figuraccia precedente, e ritengo di esserci riuscito. Alla vigilia, dopo aver identificato gli altri candidati, si rinnovò nel corso del raduno il consueto rituale: le proposte di allenarsi assieme in quei giorni, le raccomandazioni a non essere troppo remissivi né troppo aggressivi, le prove scrupolose di tecniche assurde mai chieste ad un esame, le retoriche assicurazioni reciproche che dell'esame in fondo non ci importava nulla. Fu Marino Genovesi a sghignazzare per primo da sotto la barba dicendo "Oh bischeri, 'un diciamo grullerie! 'Un ci si tiene!...". E' vero: pretendere di non essere interessati a progredire sulla via è cosa priva di senso. Ci teniamo tutti. Dobbiamo tenerci.

 

Hoso96Da quel momento fummo più sereni e tranquilli ed aspettammo con calma il nostro turno. Le solite 3 o quattro ore in seiza, poi sembrava toccasse a noi. Aspettate, ci sono prima i nidan, ci faceva notare Hosokawa sensei, e noi ancora in seiza. Ad ogni suo battito di ciglia ci rassettavamo e ci davamo l'aria di essere pronti. Lui ci guardava e sorrideva, facendo gesti che significavano "dopo, dopo". In pratica non facemmo un esame vero e proprio: a forza di "dopo, dopo" arrivò il pomeriggio, Hosokawa ci fece fare un accenno dii futaridori, una spruzzata di suburi con il bokken e si alzò soddisfatto ritirandosi dal tatami, contento per lo scherzo ben riuscito: eravamo sandan.

 

In qualche modo, nei giorni precedenti ma più probabilmente negli anni precedenti, avevamo mandato dei segnali facilmente decifrabili dal maestro: eravamo pronti per la prossima tappa. Ed essendo importante farci comprendere il momento e le circostanze in cui questa maturazione era divenuta reale, il maestro decise in pratica di ridurre ai minimi termini l'esame, per renderne evidente la non eccessiva importanza ai fini del percorso sulla via.

 

E' bene a questo punto proporre un paragone tra i sistemi dei due maestri. Hosokawa sensei non ha mai lavorato sulla gratificazione del praticante: ha sempre identificato con chirurgica precisione i suoi punti deboli e lavorato su quelli, obbligandolo - ma forse dovrei dire spronandolo - a porvi rimedio se non addirittura convertirli in punti di forza. Preferisce non lasciare punti di riferimento precisi, in quanto richiede al praticante adattabilità ad ogni circostanza, e richiede che l'esaminando renda palese a tutti, e soprattutto a sé stesso, i suoi limiti. Per questo i suoi esami sono spesso così impegnativi. E per questo tanti ambiscono sostenerli con lui.

 

Il maestro Fujimoto è - a mio parere - molto più elastico, in un certo senso tollerante, nei confronti delle scelte dei candidati. Lo dico perfettamente cosciente di andare controcorrente con questa mia opinione. Accetta infatti che questi si scelgano da soli un modello di riferimento, e si limita a verificare nel corso dell'esame la conformità e la congruenza con il modello ideale. Non pretende, non ha mai preteso, che il modello di riferimento sia il suo. Pretende però giustamente che innanzitutto la scelta del modello ideale sia meditata, ed in secondo luogo che sia effettiva, coerente, e non adattata a non meglio definibili gusti o inclinazioni personali. Ed anche ai suoi  esami - severissimi, si dice - c'è la fila.

 

Come si vede due metri di giudizio assemblati con materiali e con criteri differenti. Non ci si sorprenda però che diano risultati assolutamente sovrapponibili quando sono chiamati a dare il responso: i centimetri che misura "quel" metro, sono gli stessi che misura "quell'altro". Non mi dilungo sulle ragioni che mi fanno ritenere importante comprenderlo.