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E veniamo finalmente, ma brevemente, a Lo Strano Caso dell’Invenzione del 6°Kyu. Il titolo corrisponde ad un articolo, non più disponibile all'indirizzo web originario ma forse ancora reperibile in rete.

Vi si chiedeva il perché della invenzione a posteriori da parte dell'Aikikai d'Italia e di una manciata di altre organizzazioni del grado di 6° kyu, il primo degli esami di grado kyu che occorre superare prima di accedere agli esami per i gradi dan. Come è noto infatti i gradi kyu sono a scalare, al contrario di quelli dan, quindi il 6. (o 5.) è il grado iniziale ed il 1. quello finale più elevato

Tale esame non è previsto nel programma originale dell'Hombu Dojo che comincia direttamente dal quinto kyu. Ci troveremmo di fronte a una invenzione definibile come:

l'emblema di un atteggiamento generale diffuso e sistemico. Conseguenza di questo atteggiamento è che per ottenere lo stesso grado Dan, certificato con lo stesso diploma, emesso dallo stesso ente, l’Aikikai Hombu Dojo, italiani, inglesi e americani che lavorano sotto le rispettive organizzazioni nazionali Aikikai riconosciute, devono metterci alcuni anni in più di tutti gli altri. 

Si vorrebbe quindi denunciare l'invenzione, da parte dell'Aikikai d'Italia e di poche altre organizzazioni, di quanto visibile a lato: l'esame di passaggio al 6. kyu, che l'Hombu Dojo non aveva mai previsto, e  che imponeva al praticante 20 ore e due mesi supplementari di pratica prima di raggiungere la cintura nera. Il tutto viene considerato deleterio e frutto solamente dell'atteggiamento diffuso e sistematico di cui sopra.

Come detto non ho intenzione di contestare queste affermazioni:  non esistendo il fatto concreto cui si vorrebbero appoggiare cade anzi non è mai esistita la necessità di contestarle anzi nemmeno di discuterne. 

Chiunque potrebbe verificare in pochi attimi tornando alla pagina precedente che il 6. kyu era previsto anche nel programma dell'Aikikai di Francia, in una edizione risalente a quando non era ancora diviso in due diverse associazioni, diaspora verificatasi negli anni 90. Ma per comodità del lettore ripetiamo l'immagine anche qui.

L'esame per il 6. kyu viene menzionato sulla copertina.

Ma non figura all'interno:  è evidentemente in quel periodo, all'incirca alla fine degli anni 80 - manca la data anche qui e devo affidarmi ai miei ricordi - che venne tolto. Dimenticando però di aggiornare la copertina.

 

 

 

Ma andiamo oltre quella copertina ed esaminiamo un altro programma d'epoca. Quello della ACBA, associazione belga che precedette l'attuale divisione, dovuta alla legge federale e non a contrasti interni, in associazione francofona (AFA) e neerlandofona (VAV).

Eccolo, il famigerato esame di 6. kyu inventato (e letteralmente è non vero ma verissimo) dall'Aikikai d'Italia.

Le differenze o analogie tra i due programmi ognuno le valuterà da solo, e il lettore mi perdonerà se mi astengo dall'infliggergli i numerosi altri esempi che vado ritrovando via via, accatastati nel corso di molti anni in un polveroso e disordinato archivio.

 

 

 

Pubblico solamente una pagina del bellissimo testo Aikido del maestro Nobuyoshi Tamura, edizione 1977, che è estremamente raro e quindi non accessibile ai più. Ma per fortuna dispongo di una copia.

Non solo l'esame di 6. kyu vi appare, ma le tecniche richieste e i tempi previsti sono ancora quelli originari, quelli fissati nei concistori organizzati durante i seminari dell'Aikikai d'Italia agli inizi degli anni 70 e di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti.

Questo esame non venne mai tuttavia, è questa la spiegazione del mistero, previsto dall'Hombu Dojo. Stiamo parlando di una struttura unica al mondo in cui operavano i maggiori insegnanti viventi, in cui era possibile praticare intensamente ad alto livello tutti i giorni, fin dal primo mattino e fino a tarda sera. E' comprensibile anzi è inevitabile attendersi che avesse un metro di misura differente.

Aveva pertanto ritenuto fin dal primo momento, pur adeguandosi alla proposta adottando un proprio Programma di Esame che riprendeva molto fedelmente quello "italiano", che non era necessario inserire il 6. kyu nella peculiare progressione didatttica dell'Hombu Dojo.

Non è una novità che l'Hombu Dojo abbia parametri differenti dalla media, e non è uno scandalo, e a quei tempi ancora meno. Quando là si alternavano personalità come Kisshomaru Ueshiba, Rinjiro Shirata, Kisaburo Osawa ed altri della medesima caratura, per tacere dello stesso Hiroshi Tada, al Dojo Centrale di Roma, che pure avrebbe potuto reggere dignitosamente il confronto come numero di ore settimanali di lezione, e diretto da un insegnante accreditato dell'Hombu Dojo, Hideki Hosokawa, insegnava 3 volte a settimana il sottoscritto, sia pure al corso bambini, forte del suo grado di 5. kyu. Si trattava insomma di un humus completamente differente, non era immaginabile pretendere lo stesso metro di giudizio dell'Hombu Dojo ove il livello tecnico medio degli insegnanti e dei praticanti non era assolutamete  paragonabile.

Nel corso degli anni seguenti la maggior parte delle associazioni legate all'Hombu Dojo ne ha seguito l'esempio eliminando quel semplice esame preliminare. Vista l'estrema stringatezza del programma stesso penso nessuno abbia difficoltà ad accettarlo come tale (semplice preliminare) e a ridurre il problema se problema è alle sue - modestissime - proporzioni.

E' incontestabile in ogni caso che diverse associazioni decisero a posteriori di togliere dal proprio programma l'esame di 6. kyu (o non vennero nemmeno mai a conoscenza della possibilità di adottarlo)  e non fu l'Aikikai d'Italia ad introdurlo misteriosamente e per fini non chiari nè realistici, vista la pochezza della invenzione.

Perché lasciarlo? Perché toglierlo? Sulle opportunità dell'una o dell'altra scelta è certamente lecito discutere. Ma non è l'argomento che mi interessa di più in questo momento. Dico subito non solo che per me si potrebbe tranquillamente togliere. Ma che della stessa opinione era Fujimoto sensei, ritenendo i tempi sufficientemente cambiati rispetto a tanti anni fa: non ho quindi alcuna barricata ideologica da difendere.

Ma preferirei piuttosto inquadrare meglio il contesto, non solo storico, in cui andrebbe inserita la materia di cui si vorrebbe discutere: la programmazione e certificazione del percorso compiuto all'interno di una disciplina artistica, culturale e marziale.

Ha senso discutere dell'utilità o meno di un singolo esame finché non si sia riflettutto seriamente sulla natura e sugli scopi del sistema di esami? E ha senso paragonare semplicemente i tempi prescritti in questo o quell'altro metodo  senza riflettere non solo sul perché di tali differenze temporali ma nemmeno sulle differenze strutturali tra i vari metodi e sulle ragioni che vi sono dietro?

Abbandonando definitivamente ogni sterile polemica sul 6. kyu, prendiamo ad esempio, ma solo come spunto per una riflessione di carattere più generale, l'attuale  programma di esami dell'Hombu Dojo. Prescrive meno di un anno solare di pratica per il raggiungimento dello yudansha: 300 giorni di pratica dal momento in cui si è iniziato. Va certamente ricordato che si tratta di un limite, non di un obbligo e nemmeno di una situazione media: è un limite invalicabile.

Quale serio insegnante europeo si sente di garantire lo yudansha ai suoi allievi in 300 giorni? Sappiamo benissimo che sono pochi i fortunati mortali che possono disporre di un corso almeno trisettimanale. Mosche bianche quelli che possono garantire l'orario pieno. Se ci limitiamo a paragonare i tempi certamente scopriamo che nell'attuale Programma di Esami dell'Aikikai d'Italia occorrono 11 mesi di pratica per potersi presentare all'esame di 3. kyu mentre in tempo minore all'Hombu Dojo programmano di portare il praticante allo yudansha.

Ma non è questo il punto, lasciamo stare i paragoni con realtà differenti: è realistico, è congruo, programmare in Italia di far arrivare i praticanti al grado di 3. kyu in poco meno di un anno, allo yudansha in 3/4 anni? Il vero problema se è così potrebbe essere che in Italia non esista un Hombu Dojo, non che all'Hombu Dojo abbiano metodi di pratica e di valutazione differenti.

Per quanto mi riguarda la risposta è sì: questi tempi sono realistici ed adeguati. Naturalmente il semplice monosillabo non solo è insufficiente a esporne le ragioni, ma nemmeno a spiegarne la logica che le lega. Occorre una riflessione che scenda a profondità maggiori. Premetto che sono stati recentemente ridotti i tempi, suppongo per tener conto di casi particolari ma soprattutto per riportarli alla loro funzione di limite non superabile piuttosto che punto di riferimento uguale per tutti.

Che cosa vuol dire per noi 3. kyu o 1. dan? Quali conoscenze tecniche, morali, culturali chiediamo al praticante prima di potergli confermare che è pronto per il passo successivo? Se non sappiamo questo, nessun giudizio di congruità sui tempi o su altro è possibile.

Innanzitutto dobbiamo renderci conto che oggigiorno chiediamo al praticante che si presenta all'esame molto di più che in passato: io ricordo distintamente candidati alle soglie dello yudansha che avevano ancora difficoltà con le mae ukemi. E' pensabile al giorno d'oggi? Sono rinunciabili le verifiche che chiediamo oggigiorno ad ogni passaggio di tappa? Io credo di no. E' normale ed è auspicabile che ai praticanti di oggi si chieda molto di più di quanto veniva chiesto a noi pionieri in passato. E per questa ragione, nonostante arrivino in tempi minori e con relativa facilità alle tappe tecniche dove noi faticosamente arrancavamo a lungo, non solo i tempi di esame non si sono accorciati, ma la precedente revisione del Programma di Esame dell'Aikikai d'Italia li aveva anzi allungati e quella attuale agevola maggiormente il percorso iniziale ma per i gradi kyu superiori pur riducendo i tempi mantiene invariate le ore di allenamento prescritte.

Trovo questo sistema compatibile con la mia visione personale del percorso del praticante. Credo che l'insegnante debba portare i suoi allievi passo dopo passo ad essere indipendenti nel loro cammino, sottoponendoli man mano a verifiche sul campo che permettano di rendersi conto del cammino percorso e di avere una idea di quello ancora da percorrere, di toccare con mano gli errori compiuti e i progressi raggiunti, di togliere dal proprio bagaglio quello che non va, di sostituirlo con quanto invece necessario.

Se questo è il fine della cerimonia dell'esame, interessa di meno sapere se convenzionalmente, nell'attestato che contrassegna e certifica il superamento di questa o quella tappa, ci debba essere scritto 6. kyu o 6. dan. Fermo restando che è necessario per altre ragioni, non è particolarmente utile ai fini dell'insegnamento fissare per regolamento quanto tempo occorra per indossare l'hakama.

Volendo potremmo in un attimo dare ascolto ad alcune accorate richieste: va bene, esame di yudansha dopo 300 giorni di pratica. Ma cambierà qualcosa in quella persona ricevendo un pezzo di carta con scritto 1. dan invece del probabile 3. kyu cui lo condannerebbe il sistema attuale? Farebbe un passo avanti nella gerarchia cartacea. Ma che altro?

Un altra richiesta frequente è quella di un percorso gerarchico certo ed omogeneo per tutti, a prescindere da metodi ed associazioni. Lo chiedono da varie parti e certo, si può: ma rischia di essere una partita di giro che lascia il bilancio invariato.

Mi sto riferendo evidentemente, non per criticare o peggio per proporre ennesime soluzioni ma piuttosto per innescare riflessioni sui metodi di lavoro, alla ricorrente richiesta che si ripete ogni tot anni di un programma di esami super partes, addiritttura statale. Vorrei osservare che ove questo avviene, in Francia tanto per non far nomi, si tratta - sempre a mio avviso - dell'inserimento di un elemento estraneo nel corpo dell'aikido. E che non ha dato eccellenti risultati visto che parte da molto molto lontano (accanto la proposta di introduzione, sempre dal libro Aikido di Tamura sensei, 1977) e che non trova ancora un assetto definitivo, come dimostra la proliferazione di verbali, di comunicazioni, precisazioni, chiarimenti e suggerimenti da parte della Commissione Gradi Unificata.

Il metodo francese di omologazione è ben noto: la bouillabaisse deve essere la stessa sia nei migliori ristoranti di Parigi che nelle più remote taverne della Guascogna, e pazienza se in Provenza, da dove proviene in realtà, si faceva in tuttaltro modo. Sappiamo tutti che in Italia la mentalità e i metodi sono diversi: le differenze e non solo regionali sono infinite, la pizza ognuno la fa come crede e a nessuno viene in mente di voler ridurre o eliminare le incongruenze, e meno che mai per decreto, poiché le differenze vengono considerate ricchezze culturali e lo stato si ritiene che debba occuparsi dei fatti suoi e a volte visti i tempi che corrono nemmeno di quelli.

Ritornando al nostro tema principale: quale è il metodo migliore per la programmazione dell'arte dell'aikido? Il francese, o l'italiano? Chiaramente nessuno dei due, visto che stiamo parlando dell'insegnamento di una disciplina marziale giapponese. Un'arte relativamente recente ma che si appoggia su metodi e principi millenari che si intendono mantenere integri nonostante il trascorrere del tempo. Il metodo migliore lo abbiamo in casa: non dobbiamo andare a cercare all'esterno improbabili soluzioni, che siano manageriali o legislative.

E senza mai dimenticare che l'aikido è innanzitutto un'arte, ed in quanto tale contiene in se qualcosa di non esprimibile, non commensurabile, non misurabile con il timbro di stato, il bilancino del farmacista o il registratore di cassa. E che si tratta di una disciplina di impronta marziale ed il guerriero, o chi ambisce a potersi considerare tale, è soprattutto chi è capace di affrontare a cuor leggero l'imprevisto e lo sconosciuto, non chi reclama certezze prima di impegnarsi e chiede un ritorno sicuro e quantificabile in anticipo dei propri investimenti. E questo dovrebbe ben saperlo ogni praticante di aikido e a maggior ragione dovrebbero saperlo insegnanti e dirigenti didattici, qualunque sia la forma organizzativa cui si è adeguata la loro associazione. Tenendo conto certamente delle norme statali, della cultura locale e di quanto altro.

Riprendo da un recente comunicato della FFAB, una delle due organizzazioni francesi, ove si parla della partecipazione ai seminari di preparazione per i gradi di Alto Livello, a firma Claude Pellerin. Spero che non sia un ostacolo insormontabile lasciarlo in francese, questo evita ogni possibile distorsione dovuta alla traduzione

Le grade d’Aikido correspond à un niveau de pratique qui s’inscrit dans une progression. L’examen d’un grade ne peut se limiter à la seule prise en compte d’un test de performance sportive réalisé sur 10 ou 15 minutes, il se doit de prendre en compte l’ensemble de l’individu dans sa démarche afin de confirmer le niveau atteint, et cela d’autant plus pour le grade Haut Niveau. Le stage Haut Niveau dans sa durée permet cette démarche, de plus le passage dans le Dojo Shumeikan offre à chacun, à travers ce temps vécu :

  • Le contact avec un traditionnel qui rapproche de l’essentiel,
  • la possibilité d’un retour sur soi,
  • l’ouverture aux autres et le regard sur d’autres approches et d’autres recherches.

Ci sono obiezioni?

Faccio osservare che lo stesso Pellerin, responsabile della Commissione Alti Gradi della FFAB ci sta dicendo in pratica che non è sufficiente il test di performance sportivo realizzato su 10 o 15 minuti previsto dalle norme statali ed unificato. Per valutare appieno la maturità di un candidato sono necessari anche altri parametri. E non sono rinunciabili.

E qui, augurandomi che queste riflessioni possano offrire qualche stimolo, se non essere di ausilio, a chi onestamente e seriamente intende riflettere sull'arduo problema della programmazione dell'arte (quasi un ircocervo), ma tenendo sempre presente cosa pensava di queste problematiche chi ne sapeva non solo più di me ma più di tutti, mi congedo.

Accanto al suo amabile sorriso o sensei teneva sempre pronto il fiero cipiglio dell'uomo d'arte.

Ricordiamoci quindi giustamente di accendere il cervello ogni tanto e facciamoci qualche seria riflessione. Ma soprattutto saliamo regolarmente sul tatami per praticare, prima che il suo divertimento si trasformi a nostre spese in salutare arrabbiatura.